sabato 20 agosto 2011

Capitalismo e democrazia, si divorzia?

di Redazione Contropiano

Due articoli, a distanza di un giorno e su due giornali agli antipodi (almeno sulla carta), pongono lo stesso problema, seppure con argomentazioni molto diverse. "Il manifesto" evidenzia una cultura - meglio, "un'ideologia" - che viene veicolata dal quotidiano di Confindustria e punta a eliminare "la politica" a livello globale. La crisi, è viene spiegato sull pagine de Il Sole 24 Ore (che spesso mettiamo all'attenzione dei nostri lettori), richiede decisioni rapide e "competenti"; ovvero che "assecondino i mercati". La politica, al contrario, è "handicappata" dalle preoccupazioni elettorali dei vari leader (tutti), ultimo riflesso del "rapporto di mandato" che democrazia dovrebbe esistere tra elettori ed eletti. Quindi ci vuole "una leadership globale" che faccia gli interessi dei mercati senza badare troppo agli elettori.

Gian Enrico Rusconi, uno dei più rispettati e rispettabili intellettuali italiani, pone lo stesso problema su La Stampa - organo di casa Fiat negli ultimi tempi un po' più riflessivo del solito - partendo però da un'altra domanda: come si governa senza crescita? Il normale sviluppo tecnologico e l'ottimizzazione continua del procrsso produttivo, infatti, riduce la quantità di forza lavoro richiesta a parità di prodotto. Senza "crescita quantitativa" la disoccupazione non può che crescere, con ovvi problemi di "coesione sociale". La rigidità delle ricette che per convenzione vengono chiamate "neoliberiste" esclude però che ci possa essere una "spesa pubblica" con motivazioni sociali (welfare, veniva chiamato fino a qualche mese fa). E allora come si fa a tenere insieme la popolazione?

Anche da questo lato, dunque, il metodo democratico viene radicalmente azzerato: se non si può più metter mano alla redistribuzione della ricchezza prodotta, perché tutto il surplus deve andare al profitto, al "capitale produttivo di interesse" e alla rendita, è finito anche lo spazio della politica vera e propria. Il governo della società diventa un problema puramente gestionale. Quindi da affidare a una "catena di comando" votata all'efficienza capitalistica, senza più alcuna relazione - se non tecnica, strumentale o basamente repressiva - con la "materia sociale". Ossia il popolo, le persone in carne e ossa.

Ma capitalismo e democrazia - nell'ideologia, nelle retoriche, nelle pratiche di silenziamento sociale - hanno costituito in tutto il '900 un binomio inscindibile circondato dall'aureola del successo e della giustizia. Stiamo combattendo guerre vicine e lontane per "portare la democrazia" a chi non ci è ancora arrivato. Il divorzio in corso tra economia e politica, tra gestione tecnica e democrazia, ha conseguenze epocali. Su cui vale forse la pena di cominciare a ragionare. Da comunisti, che lottano per estendere la democrazia dalla sfera della forma (la libertà di voto, non a caso già sopressa sui posti di lavoro; Fiat docet) a quella della sostanza (diritto a un'esistenza dignitosa per ogni essere umano, in modo da sottrarlo al ricatto "reddito contro consenso forzato".

Cominciamo a ragionare, dunque.

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Cresce l'insofferenza dei potentati economici verso «la politica» tout court

Democrazia e mercati, si divorzia?
Sul Sole24Ore editoriali e commenti contro i «politici maldestri» di tutto il pianeta, condizionati dalle elezioni

Tommaso De Berlanga
A leggere i giornali più vicini a Confindustria e alle banche si nota una crescente insofferenza per «la politica». In quanto tale, senza personalizzazioni particolari. Da Obama in giù, passando per i Sarkozy e le Merkel, fino ai Bossi et similia. Una breve serie di citazioni può aiutare a cogliere il clima culturale che viene veicolato e a tematizzare il nocciolo duro - l'ideologia, diciamo pure - che supporta un ordine discorsivo influente, se non altro perché espressione diretta del «mondo dell'impresa».
Scrive Riccardo Sorrentino su Il Sole 24 Ore: «Non c'è nulla che possa spaventare di più gli investitori - e non solo... - che vedere le proprie sorti affidate a politici maldestri: quelli occidentali, ma anche quelli dei Paesi emergenti, 'responsabili' dell'80% della crescita globale». Insomma, par di capire, a livello globale mancano del tutto i politici ben-destri, quelli capaci di realizzare la lunga liste di «riforme strutturali» che lo stesso Sorrentino riassume in «occorrerebbe intervenire sui mercati dei prodotti e dei servizi, sui brevetti (che creano monopoli prolungati e frenano l'innovazione), istituire politiche che favoriscano, e non solo permettano, la concorrenza». Per onestà, bisogna notare che dice anche «molta enfasi è data alla liberalizzazione del mercato del lavoro che, se lasciata sola, non è solo insufficiente ma - l'esperienza italiana è emblematica - può creare effetti negativi». Se il suo giornale non benedicesse da anni ogni pensata di Maurizio Sacconi forse (noi lavoratori italiani) ci saremmo evitati almeno una parte degli «effetti negativi» e dell'impoverimento. Ma a suo merito va aggiunto che per lui sarebbe necessario anche «ristrutturare davvero i sistemi finanziari», ammettendo che «ma questo gli investitori non lo chiedono», senza approfondire oltre.
E invece proprio qui si annida il dettaglio del diavolo: si chiede «alla politica» di rinunciare di fatto al «condizionamento dell'elettorato» (al principio fondante della democrazia, attenzione), ma si ritiene impossibile chiedere «agli investitori» (banche, fondi di ogni genere, assicurazioni, ecc) di accettare un'autentica «ristrutturazione» o regolamentazione del sistema finanziario. Gli interessi dei «banali elettori» e quelli dei «beati investitori» sarebbero dunque non solo in conflitto, ma anche di qualità diversa; in fondo i primi sono sacrificabili alla bisogna, i secondi no. Per Sorrentino, insomma, «dietro l'attuale incomunicabilità tra politica ed economia c'è anche un ormai antico scontro tra due culture diverse, che basterebbe a creare una crisi di fiducia e credibilità». E non c'è bisogno di chiedere quale delle due culture dovrebbe avere il predominio assoluto...
Il discorso è esplicito in Alessandro Plateroti - sempre sul Sole - «Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi». Servirebbe una utopica «unità politica» a livello mondiale, purtroppo impossibile perché condizionata da interessi nazionali divergenti e dalle preoccupazioni elettorali dei diversi leader. E infatti «Ciò che fa paura è la distanza che cresce tra ciò che chiedono i mercati e ciò che la politica è in grado di dargli. La 'pretesa' dei mercati, in ultima analisi, è che le vecchie e le nuove potenze industriali e finanziarie si assumano la responsabilità di definire una nuova leadership mondiale, ma in un mondo multipolare». Problemino non da poco, se si può dire. Specie se si ha memoria storica: ogni passaggio di leadership globale è avvenuto attraverso processi non proprio pacifici, anche prima del «terribile» Novecento.
Ma non è una sua personale convinzione. Anche per Carlo Bastasin - stesso giornale, dev'esserci una «linea» - «l'incertezza delle leadership è infatti un fenomeno che condividono Usa ed Europa. Forse non è una pura coincidenza che sia Washington, sia Berlino, sia Parigi siano a un anno dalle prossime elezioni». Se non si votasse, certo, quante cose «impopolari ma utili» si potrebbero fare...
Riassumendo, la questione è: con quali meccanismi si può «decidere» la soluzione dei problemi posti dalla crisi se quelli della democrazia - confronto, costruzione di un interesse medio prevalente accettabile per la maggioranza, condivisione, ecc - non risultano più «efficaci» e, quindi, desiderabili?
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Governare senza crescita

GIAN ENRICO RUSCONI

Come si governa una società senza più crescita? Una società che verosimilmente non avrà più crescita nel senso e nella misura in cui gli economisti e i politici l'hanno intesa sino a ieri? La classe politica dirigente europea non sembra essere in grado di rispondere a questa domanda cruciale.

Non lo è neppure la classe politica tedesca verso la quale in questi giorni si rivolgono tante aspettative. La cancelliera Angela Merkel è oggi il politico più in vista e più citato in Europa e in Occidente. Ma temo che sia sopravvalutata. Innanzitutto ha un ristretto spazio di manovra politica interna, dovendo fare i conti con un elettorato inquieto, ripiegato su se stesso, e con un partito che la guarda con crescente preoccupazione. Ma la Merkel rischia di essere sopravvalutata anche a motivo della limitatezza del suo orizzonte e della sua visione politica che rimane schiettamente conservatrice, sia pure nel senso nobile della tradizionale democrazia cristiana tedesca.

Come può innovare il suo orizzonte davanti al radicale mutamento del contesto economico in cui è nata, si è pensata e si è sviluppata la democrazia tedesca?

Neppure il progetto originario dell'Europa tiene più, ma né la Merkel né la classe politica tedesca osano pensarne esplicitamente uno nuovo, nel quale potrebbero di fatto avere un ruolo (informale) di responsabilità maggiore che nel passato. La cancelliera procede a piccoli passi, senza avere un grande progetto innovativo. Ragiona e agisce in modo incrementale: va avanti e poi si ritira se trova resistenza, si ostina e poi di colpo allenta la presa. Non sembra avere sposato alcuna ideologia, anche se indulge a qualche tono populista. Raccoglie sicuro consenso soltanto quando fa la voce grossa contro i partner europei troppo indebitati e inaffidabili. E' tutta qui la sua filosofia politica?

La Germania è il pilastro portante dell'Europa, senza voler sminuire il ruolo cruciale della Francia senza la quale Berlino non oserebbe muovere un dito. (Trascuriamo qui la natura singolare del rapporto storico franco-tedesco che meriterebbe una riflessione a parte, soprattutto dopo il progressivo inesorabile declassamento dell'Italia). Ma non è chiaro se le «proposte» restrittive, fatte l'altro ieri dalla Merkel insieme con il presidente francese Sarkozy (no agli eurobond e sospensione dei fondi Ue per i Paesi che non si mettono in regola), siano da considerare misure per superare la difficile congiuntura attuale, o non siano la premessa per una innovazione politica più incisiva. L'idea di un «governo dell'economia», affidato ad un ennesimo organismo europeo che va a complicare il già complicato labirinto istituzionale europeo, è tutt'altro che innocua. E' un tipico gesto di decisionismo incrementale da parte degli Stati (dei due Stati più autorevoli) che spiazza di colpo l'intera costruzione istituzionale comunitaria esistente.

E' stupefacente come l'opinione pubblica europea - dopo tanta retorica sull'Europa comune dei cittadini in occasione del Trattato dell'Unione europea di qualche anno fa - accetti con rassegnazione la nuova situazione. La dice lunga sulla disillusione europea. L'attenzione verso l'asse Parigi-Berlino (sino a ieri volentieri ironizzato come «cosiddetto asse») è carica di volta in volta di apprensione, di speranza, di diffidenza, di rassegnazione. Ma è il segno che la guida effettiva dell'Europa passa di lì, non altrove.

Ma c'è anche un rovescio della medaglia che potrebbe/dovrebbe rimettere in gioco di nuovo l'intera classe politica europea. L'affanno con cui la politica dei governi cerca di tenere testa alla peggiore crisi che investe l'Occidente dal lontano '29 riconferma la deprimente verità che chi è arrivato al governo oggi ragiona con la testa di vent'anni fa. Può darsi (ce lo auguriamo tutti) che la politica dei governi arresti il processo regressivo in corso. Ma non avrà la capacità di rimettere in moto una dinamica che ricrei quella «crescita», che come una parola magica ritorna in tutte le dichiarazioni e in tutti i commenti. Ma non è sorprendente che oggi si chieda a gran voce alla politica di «produrre crescita» quando sino a ieri era invitata a non interferire nei meccanismi economici? Evidentemente l'atteso circuito virtuoso tra economia liberata e politica benevolmente assistente e socialmente compensativa è saltato. Secondo la vulgata la colpa è di un terzo intruso (mercati speculativi, finanza selvaggia). Ma non c'è bisogno di essere esperti per diffidare di questa spiegazione troppo semplice: in ogni caso dove erano negli scorsi anni la politica e i grandi istituti finanziari e bancari che avrebbero dovuto vigilare?

La crisi di oggi segnala un punto di svolta nella gestione dell'economia globale e, per quanto riguarda i sistemi socio-economici europei, apre la prospettiva di un governo di società senza più crescita misurata sui vecchi criteri. Per questo non bastano «direttorî» più o meno autorevoli, ma sono necessarie convergenze di tutti gli Stati membri con la rivisitazione di organismi e di procedure decisionali che sono create in tempi e in situazioni incomparabili con le attuali. Ma quale anello dovrà cedere per primo per rompere il circolo vizioso che impedisce il nuovo inizio?

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