mercoledì 3 agosto 2011

Gli ultimi mohicani


Dp seppe cogliere quella «irruzione della vita quotidiana nella lotta politica» che il Sessantotto aveva inteso declinare come una ri-definizione della forma della politica e della lotta per l'egemonia. Una recensione del libro Gli ultimi mohicani

Pasquale Voza

(Da Liberazione)


E' interessante per molti versi questo libro di Matteo Pucciarelli (Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia Proletaria, Alegre, Roma, 2011), che punta ad una ricostruzione dell'esperienza politica di Democrazia Proletaria, dalle elezioni del maggio 1972, in cui si può individuare l'inizio del processo che porterà alla sua nascita, sino al 1991, l'anno della sua cessazione "formale" e della confluenza nella storia del movimento e poi del partito della Rifondazione comunista.

Interessante per molti versi, dicevo: innanzitutto perché la genesi di quella esperienza si colloca in qualche modo nel cuore degli anni Settanta, tra eredità del Sessantotto e "nuovi bisogni" espressi dai movimenti del '77, e in connessione con la grave impasse, teorico-politica e sociale, dell'azione del partito comunista, all'indomani del 20 giugno '76, con la sua drammatica perdita di forza espansiva e di respiro egemonico. Il fatto è che, mentre cominciavano i processi di ristrutturazione capitalistica in senso oligarchico di poteri e saperi reali (si pensi alla diagnosi e ai progetti in tal senso della Commissione Trilaterale), che progressivamente avrebbero svuotato di senso e di efficacia democratica gli apparati e le istituzioni degli stati nazionali, la politica del Partito comunista, non sorretta da un'autonoma capacità di individuazione critica di quei processi, non poté non rischiare, in vari momenti, di identificarsi e di esaurirsi nella difesa rigida di una democrazia sempre più vuota.



Ebbene, il cosiddetto "movimentismo" di Dp non solo non indulse quasi mai ad una mera ideologia minoritaria-estremista, ma poi non fu nemmeno propriamente tale, a ben guardare: nel senso che ebbe dentro di sé, come spinta fondativa, la difficile costruzione di un nuovo blocco storico, sia pura di "frontiera", anche se non di rado il tentativo finiva con l'assestarsi su un allineamento empirico di vari fronti di lotta (pacifismo, ambientalismo, femminismo), intorno alla centralità "classica" della contraddizione capitale-lavoro, come ha osservato acutamente uno dei protagonisti, Russo Spena (va detto che all'interno di tale allineamento empirico si colloca e si spiega il verificarsi di quella che fu la rottura "rossoverde"). Nella varietà delle culture demo-proletarie ebbe un ruolo non secondario la lezione di Raniero Panzieri, che, nella milizia di "Quaderni rossi", proponeva di mettere a fuoco il livello di insubordinazione e di antagonismo espresso dalla «classe» di contro al «piano» del nuovo capitale: in particolare, il saggio sull'Uso capitalistico delle macchine rappresentò - come è stato osservato - «una breccia nel muro ancora compatto del produttivismo e dello "sviluppismo" dominanti» (Revelli). La stessa prospettiva dell'«inchiesta sociale», presente in Dp, derivava, per certi versi, da quella lezione.
L'autore del volume, giovane giornalista del gruppo Espresso, ricostruisce la vicenda complicata e intricata di Dp con un taglio narrativo agile e insieme attento, guardando ai documenti e alle dichiarazioni ufficiali, e non, dei vari protagonisti, ma anche puntando su una contestualizzazione fatta di affreschi e di scorci storici veloci, ma quasi mai generici o di maniera. Egli scrive, ad esempio: «Nel bel mezzo del '77, si dà vita alla costituente di Democrazia Proletaria. Il movimento influisce, nel bene e nel male, sulla fase di formazione del partito»; e, poco più avanti, riporta lo «slogan ambizioso» della prima assemblea congressuale svoltasi a Roma nell'aprile del '78: «La democrazia degli operai, dei giovani, delle donne per cambiare la vita trasformando la società». In questo modo segnala un nodo assai complesso, costituito dal rapporto di Dp con la realtà del Settantasette. A tal riguardo, si potrebbe dire, molto approssimativamente, che rispetto allo slogan centrale di quel movimento, «Riprendiamoci la vita», tendente ad una «socializzazione della vita quotidiana come valore autonomo» (Rovatti), la riflessione politica di Dp, nei suoi momenti più alti, si richiamava per certi versi a quella «irruzione della vita quotidiana nella lotta politica» che il Sessantotto, nel suo paradigma fondativo, aveva inteso declinare come critica pratica integrale delle forme, delle strutturazioni molecolari del moderno dominio neo-capitalistico: cioè aveva inteso declinare come una ri-definizione della forma della politica e della lotta per l'egemonia.
Un altro punto essenziale che emerge qua e là dalla ricostruzione di Pucciarelli è la questione della democrazia: la scelta del nome (democrazia proletaria) voleva porsi utilmente in alternativa alla cosiddetta democrazia borghese, pur contenendo il rischio di riecheggiare una polarità, una contrapposizione tra democrazia formale e democrazia sostanziale, storicamente foriera di torsioni e semplificazioni riduttive e pericolose. Ma si trattò solo di un rischio, perché poi in realtà la riflessione e l'esperienza demoproletaria si rivelarono distanti, pur con qualche contraddizione, da una concezione del potere che io definirei di tipo sostitutivo, ben presente in culture, tradizioni ed esperienze storiche del movimento operaio: vale a dire, "prendere il potere" come sostituzione di ceti dirigenti, senza, di fatto, trasformazione dei meccanismi profondi del potere esistente. Sotto questo profilo, era sicuramente assai significativa la conclusione dello studio di Giovanni Russo Spena e di Luigi Vinci dedicato, nel 1988, al tema Stato di classe e democrazia del proletariato in Marx, in cui si faceva riferimento alla nozione di "dignità umana" di Bloch, che intendeva «sottrarre gli esseri umani allo stato di soggezione e di alienazione materiale, culturale, morale, politica, psicologica nel quale essi sono relegati tanto dallo sfruttamento e dalla politica separata e anti-sociale del capitalismo, quanto dalle nuove separatezze e dal nuovo sfruttamento della dittatura burocratica e di partito nei paesi dell'Est». Queste parole, fra l'altro, ci aiutano a capire il «malinconico entusiasmo» con cui di lì a poco, dopo la nefasta svolta della Bolognina, fu voluto e proposto «l'autoscioglimento» di Dp dentro la drammatica scommessa della rifondazione comunista.
Venti anni dopo, c'è ancora e sempre più bisogno di un tenace entusiasmo capace di muoversi in direzione ostinata e contraria.

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