Qualche giornale italiano ieri ha
festeggiato la discesa dei rendimenti sui titoli di Stato a 10 anni
sotto la soglia del 5% (4,97%, per la precisione). È un entusiasmo che
rischia di essere prematuro. Infatti lo spread tra i rendimenti dei Btp e
quelli dei Bund tedeschi resta molto elevato (3,53%). Ma desta
preoccupazione soprattutto un altro indicatore: i credit default swaps
(CDS) sull’Italia. Dei CDS si è fatto un gran parlare soprattutto a fine
2011, poi sono passati un po’ in secondo piano. E invece è bene tenerli
presente.
I CDS nascono come una polizza assicurativa, che funziona così: chi ha sottoscritto un’obbligazione paga un premio, e in cambio, in caso di insolvenza da parte dello Stato o dell’impresa che ha emesso quell’obbligazione, verrà rimborsato. Di fatto, il valore del premio misura il rischio di fallimento di un emittente: quanto più elevato il prezzo del CDS, tanto maggiore il rischio di fallimento.
Il CDS sul debito pubblico italiano oggi ci dice cose non piacevoli: è a 303 (in concreto: assicurare 10 milioni di debito costa 303.000 euro).
È un valore più elevato di quello dell ’Irlanda (256) e anche di quello di un paese con molti problemi come l’Ungheria (299). Ma soprattutto è un valore non in linea con l’attuale valutazione dell’Italia da parte delle agenzie di rating: il rischio espresso dai CDS è maggiore di quello espresso dall’attuale rating (BBB+) di Standard & Poor’s sull’Italia. In passato, in caso di divergenza, le agenzie di rating hanno finito per seguire i CDS.
In passato, in caso di divergenza, le agenzie di rating hanno finito per seguire l’indicatore CDS
Questo significa che probabilmente è in arrivo un downgrade del debito italiano a BB+ da parte delle agenzie di rating. La cosa non sarebbe stupefacente, in quanto il calo del prodotto causato dalle misure di austerity ha peggiorato il rapporto debito/pil e quindi la solvibilità del paese. Quello italiano non è però il solo caso di divergenza tra valori dei CDS e rating.
C’è anche la Spagna, il cui CDS (355) implica un ulteriore abbassamento del rating dopo quello dei giorni scorsi. E soprattutto la Francia, con un CDS a 99, un valore molto peggiore del suo rating attuale. Anche qui, perciò, possibile downgrade in vista. Ma in questo caso dovrebbe essere di ben 4 livelli rispetto all’attuale AA+. Niente di stupefacente, in verità: nel caso della Francia sono semmai i bassi rendimenti attuali dei titoli di Stato a essere piuttosto misteriosi, se confrontati con le performance economiche e la situazione debitoria.
La bilancia commerciale francese è negativa, e in misura crescente, dal 2005. Il deficit pubblico è sul 6%, e il debito pubblico nel secondo trimestre di quest’anno è arrivato a 1.833 miliardi, pari al 91% del prodotto interno lordo. Insomma, la Francia, con i suoi deficit gemelli (pubblico e verso l’estero), ha gli ingredienti essenziali di una crisi del debito. E non si vedono miglioramenti. Il volume delle esportazioni è stagnante, e nel solo mese di agosto il passivo della bilancia commerciale è stato di 5,3 miliardi di euro (4,3 a luglio). La produzione industriale è ai livelli del 1997, ormai meno del 12% della forza lavoro è impiegato nell’industria, e la perdita di competitività rispetto alle produzioni tedesche costante (secondo alcune stime -40% dall’introduzione dell ’euro). Ma allora per quale motivo la Francia può ancora permettersi di pagare appena il 2,14% di interessi sui propri titoli di Stato?
Il motivo principale è di natura geopolitica: la Francia è considerata parte integrante del nucleo dell ’Eurozona. Inoltre, essa sta beneficiando del rimpatri dei capitali investiti in Spagna e in Italia dalle sue banche, che ora vendono titoli di Stato di questi paesi e comprano titoli di Stato francesi. Infine, per ora i salari in Francia hanno tenuto, e questo ha impedito il calo dei consumi e quindi del prodotto interno lordo che si è verificato invece in Italia.
In ogni caso, la possibilità di un downgrade e di un aumento dei rendimenti dei titoli di Stato francesi è nell’aria. Questo contribuisce a spiegare il voltafaccia di Hollande rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale, in particolare sul fiscal compact (le nuove regole europee su deficit e debito).
Il rifiuto pre-elettorale del fiscal compact si è infatti trasformato in un voto blindato in Parlamento: ma a favore. Per di più, nel voto al Senato di giovedì scorso, con i voti determinanti della destra. Che ora ha buon gioco nel dire che il fiscal compact è rimasto esattamente quello firmato nel marzo scorso da Sarkozy.
Tra l’altro tutto questo avviene mentre il bilancio comunitario è sotto attacco: e quindi le “risorse per la crescita”, che avrebbero dovuto bilanciare gli effetti depressivi delle manovre di austerity, non solo non aumenteranno, ma verosimilmente saranno ridotte. La manovra da 37 miliardi di euro già decisa da Hollande (di cui 20 di nuove tasse) è un primo passo per ottemperare alle prescrizioni del fiscal compact. In questo caso, a differenza di quanto avvenuto in Italia, parte delle risorse è stata ottenuta tassando i redditi più elevati.
Il punto fondamentale però è un altro: è molto probabile che anche in Francia, come già avvenuto in Italia e in altri paesi europei, l’adozione delle misure di austerity sortisca un effetto contrario a quello sperato. Peggiorando la situazione economica complessiva, e quindi anche la posizione debitoria e la solvibilità del paese. Non ci vorrà molto per capirlo.
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