Esattamente un anno fa avevamo
terminato di raccogliere le firme per la presentazione della lista
L’Altra Europa con Tsipras. Un’impresa, per le nostre forze, ciclopica:
più di 200.000 firme, decine di migliaia in più di quanto una legge
vergognosa, fatta da monopolisti della politica, richiedesse. Oggi siamo
ancora qui. E, credetemi, non è poco! Nel marasma delle convulsioni
italiane essere ancora in piedi ci deve – con tutte le nostre fragilità,
i nostri errori, le nostre timidezze e incertezze – rafforzare
nell’orgoglio.
Siamo qui per compiere un passo diverso da quello di allora. Per molti aspetti più difficile. E comunque più impegnativo.
Allora si trattava di mettere in
competizione una lista elettorale, sulla base di un appello volto a
evitare il paradosso, mortale, che in Europa non fosse presente nessun
vero rappresentante della sinistra italiana. Oggi, qui, compiamo un atto
molto più difficile, e impegnativo per chi vi aderisce, e cioè l’ultimo
passaggio nella formazione del nostro “corpo sociale”, come abbiamo
ripetuto infinite volte negli ultimi mesi. Cioè la nostra
trasformazione, da semplice somma di individui e persone, in entità
collettiva capace di prendere “decisioni condivise” e sulla base di
queste di prendere parola nello spazio pubblico pienamente consapevoli di ciò che ci lega e ci accomuna per averlo sottoscritto ed assunto.
Non è ancora – ricordiamocelo sempre –
la costruzione della “casa comune” di cui abbiamo parlato e discusso nei
nostri documenti, che rimane il nostro obiettivo di medio termine
rispetto a cui ci siamo fino ad oggi “messi al servizio” e al cui
processo di costruzione condiviso da una rete di soggetti molto più
ampia ci metteremo a maggior ragione al servizio da oggi in poi (quello
che prende forma qui oggi non ne è neanche ancora l’anti-camera).
E’ piuttosto una comunità di donne e di
uomini che hanno verificato lungo un percorso articolato, in decine e
decine di assemblee di territorio, sulla base di documenti e contributi
locali e nazionali, le ragioni dei proprio essere insieme e del proprio
riconoscersi. Da questo punto di vista le quasi 8.000 adesioni, non “di
opinione” ma “d’impegno” e di consapevolezza, non sono affatto poca
cosa. Anzi.
Siamo a un bivio, abbiamo intitolato il
nostro documento nazionale. E non intendevamo solo noi de L’Altra
Europa. Siamo a un bivio noi come Paese, come Italia. E noi come
continente, come Europa. (A ben vedere è a un bivio il mondo). Lo
siamo, qui in Italia e in Europa, grazie all’azione della Grecia –
degli elettori greci, e dei nostri compagni greci di Syriza – che nel
deserto di conformismo della politica europea hanno indicato una nuova
strada. Con il loro voto hanno aperto una breccia nel Muro di Berlino, e
detto che “si può”. Che si può trasgredire il dogma proclamato a
Francoforte, Bruxelles e Berlino. Che si può immaginare, volere, e
praticare un’Altra Europa. Strada difficile, impervia, piena di trappole
mortali (perché gli altri faranno di tutto per sbarrarla all’origine,
lo vediamo proprio in queste ore, e impedire il contagio). Ma una strada
alternativa. Non solo un’altra politica economica, o un’altra politica
tout court, ma un altro modello di civiltà. Un “altro mondo”, appunto.
Conquistato con quel voto come “possibile”.
E’ uno scontro titanico, quello aperto
da Syriza, da Alexis Tsipras, da Iannis Varoufakis. Nel quale siamo
pienamente coinvolti, insieme a tutte le sinistre europee. Credo che
dobbiamo averlo ben presente. Siamo parte di uno scontro, di un fronte
di scontro, che va ben al di là della nostra breve esistenza, e dei
nostri stessi confini, che si svolge nello spazio europeo – e
Mediterraneo in particolare -, che ci impone delle enormi
responsabilità. E non ci permette né il lusso della testimonianza, né la
distrazione dell’autoreferenzialità.
Non si tratta solo di combattere, e
possibilmente sconfiggere, la logica dell’Austerità. Certo, anche
quella, le sue ricette tossiche, la sua ottusità, le sue conseguenze
fallimentari. Ma la posta in gioco è molto più alta. Si tratta di
contrastare quello che con termine troppo spesso usato in modo gergale e
schematico chiamiamo neo-liberismo. Che non è solo una politica
economica, e nemmeno solo un’ideologia politica. Che è molto di più. Che
è una vera e propria “concezione del mondo”, totalizzante e organica.
Potremmo dire un “paradigma”, cioè un sistema integrato comprensivo di
tutti gli aspetti della vita sociale e dell’esperienza umana. E’
un’antropologia, cioè una concezione della natura umana che riduce
l’uomo al suo “gene egoista”, allo stato di atomo predatore coltivandone
la competitività come principio di sopravvivenza. E insieme un’etica:
l’etica dell’assenza di ogni etica – di ogni giudizio di valore, di ogni
criterio di distinzione tra giusto o di ingiusto – che non sia il conto
profitti e perdite. E persino un’epistemologia, una teoria della
conoscenza che spoglia il sapere di ogni profondità e complessità in
nome della sua funzionalità economica e produttiva. E un’ecologia,
riduzionistica e mercantile, che riduce, appunto, il mondo alla
dimensione meramente strumentale di materia inerte da usare e sfruttare,
cioè a merce. Persino una visione della storia, come inerte
successione di rivoluzioni passive, in cui la soggettività appare un
disturbo e le culture non omologate una forma di follia.
Rompere quel paradigma significa mettere
in campo una FORZA. Comporta una mobilitazione totale di energie
sociali e intellettuali. Mettere in discussione quel dogma – ed è questa
l’impresa per molti versi prometeica che dalla Grecia ci interpella –
presuppone un’accumulazione di forza incomparabile con quella con cui si
sono finora misurate le nostre sinistre di opposizione. Non più una
testimonianza, l’affermazione di un’identità parziale e oppositiva, ma
la costruzione di un rapporto di forza capace di produrre uno
spostamento al livello del governo delle nostre società. Del governo
del Paese e del governo dell’Europa. Quello appunto che si è manifestato
in Grecia, che si va profilando in Spagna e che, per non rifluire su se
stesso, deve diffondersi sull’ampia scala continentale.
Per questo abbiamo messo al centro del
nostro progetto, con tanta convinzione, il tema della “CASA COMUNE”
aggiungendo “della sinistra e dei democratici”. Non certo per motivi
estetici (perché quello della frammentazione e della divisione è un
brutto spettacolo). E nemmeno solo per ragioni morali (anche se appare
con tutta evidenza immorale dividerci tra di noi su vicende e miserie,
spesso pregresse e marginali, in presenza di un’emergenza così grave).
Ma perché l’agire comune di tutti coloro che condividono questo sentire è
la precondizione indispensabile per l’accumulazione di quella massa
critica, sociale e politica, indispensabile per stare in campo. Per
stare in campo in modo CREDIBILE. Con qualche speranza di riaggregare e
rimotivare l’enorme massa di coloro che non ci credono più. Gli homeless
della politica e gli esodati della partecipazione. I disincantati e i
furibondi. La massa, davvero enorme, di chi non ha più rappresentanza,
perché l’ha persa. E in qualche caso non la cerca nemmeno più.
Credo che su questa questione della
credibilità dobbiamo parlarci chiaro. Molto più chiaro di quanto non
abbiamo fatto negli ultimi tempi. Per essere credibili non basta essere
giusti. Coerenti e radicali. Non basta nemmeno avere le proposte
adeguate, o le idee chiare. Per essere credibili bisogna anche mostrare
di avere la FORZA necessaria a trasformare in fatti le proprie proposte.
La forza delle idee, certo. Ma anche la forza dei NUMERI. Senza quella
“dimostrazione di forza” non si trae dal pantano chi ci si è ritirato.
Non si porta alla partecipazione chi ne avrebbe tutti i migliori motivi
ma gli manca la convinzione.
Per questo ci mettiamo al servizio di
quella costruzione COMUNE: perché la ricomposizione di ciò che è stato
diviso, al livello del sociale così come al livello del politico
(della “società politica”), è la precondizione del processo di
accumulazione: non il suo approdo, ma il suo punto d’inizio.
Lavorando
in basso, in primo luogo, nelle pieghe della società, nei territori, là
dove la crisi morde e la solitudine pesa e corrompe, ma anche “in alto”,
al livello della società politica, perché senza segnali di mutamento
lì, in quello che ancora è percepito come spazio pubblico per sua
natura, difficilmente si romperà la barriera della passività.
E’ questa la ragione per cui, pur
continuando a considerare quello delle elezioni regionali il terreno
meno favorevole al nostro progetto generale, abbiamo scelto di favorire e
sostenere, ovunque ce ne fossero le condizioni, liste le più unitarie
possibile, e chiaramente antagoniste nei confronti del PD, ritenendo che
un buon risultato in alcune di esse avrebbe un indubbio effetto di
volano nell’attribuire credibilità all’alternativa. E consideriamo di
particolare importanza il caso della Liguria, dove un significativo
sfondamento elettorale della lista Pastorino e un simmetrico smottamento
nell’elettorato del PD costituiscono un’occasione che sarebbe folle
sprecare.
E’ questa, d’altra parte, la ragione per
cui abbiamo salutato con gioia l’iniziativa di Maurizio Landini e della
Fiom di promuovere una “coalizione sociale” che operi per ricucire,
orizzontalmente, la frammentazione del mondo del lavoro e riconnetterlo
con la moltitudine di cittadini che soffrono le attuali politiche di
aggressione ai diritti e alle condizioni di vita, consapevoli che questa
costituisce la condizione necessaria per la ripresa di un protagonismo
di massa. Necessaria, anche se non sufficiente, se non troverà
un’articolazione sul versante politico e istituzionale in grado di
trasferire anche lì, a quel livello, la forza di rottura.
Il tempo è ora, abbiamo ripetuto più e
più volte in questi mesi. Per dire che non c’è più tempo. Che quel
processo di accumulazione e di unificazione delle forze deve mettersi in
moto in modo chiaro e non equivoco.
Ce lo dice il quadro europeo, dove la
Grecia non può, a lungo, essere lasciata sola mentre cercano di
stringerle il cappio intorno al collo.
Ce lo dice il quadro italiano, dove il
governo Renzi sta bruciando le tappe, rivelando ogni giorno in modo più
chiaro il proprio vero volto, antisociale e protervo, di garante fedele
dei dogmi europei nel nostro Paese – quegli stessi che Tsipras tenta
disperatamente di contrastare nel suo Paese -, e di vera e propria
minaccia per il nostro assetto democratico (già terribilmente logorato).
Ce lo dice, drammaticamente, il quadro
mediterraneo, sconvolto da guerre atroci, dall’emergere di forze feroci e
disumane, da un oceano di dolore e sofferenza delle popolazioni più
sacrificate, a cui si contrappone il volto di pietra di un’Europa sorda e
ostile.
Non ci sono dunque più alibi per l’attesa.
Pensiamo che sia necessario dare ai
tempi brevi, entro l’estate, un segnale di partenza. Un fatto che dica a
tutti che qualcosa sta nascendo. Non un’aggregazione formale di
macchine organizzative e di dirigenze politiche, di cui nessuno sente il
bisogno e che non interesserebbe davvero a nessuno. Non una mimesi
tardiva di vecchi intergruppi, o la costituzione di un ennesimo tavolo
diplomatico. Ma piuttosto l’apertura – pubblicamente visibile – di uno
SPAZIO, di convergenza, di ibridazione e di collaborazione, soprattutto
di sperimentazione e innovazione delle forme e dei linguaggi della
politica.
Uno spazio aperto, senza burocrazie
guardiane ai cancelli e senza laboratori di analisi del DNA di ognuno,
in cui sociale e politico possano incrociarsi e contaminarsi a vicenda,
consapevoli, ognuno, della propria non autosufficienza e della propria
inevitabile complementarietà.
Un progetto dichiaratamente ambizioso,
capace di guardare in alto e lontano, innovativo delle forme sia della
rappresentanza politica che di quella sociale, le due grandi malate,
della cui obsolescenza siamo ormai tutti consapevoli; un progetto, in
sostanza, in grado di rispondere ad aspettative e di liberare energie.
Perché l’idea di costruire casette, chiesette e piccole sette, liste e
listini, se può soddisfare il narcisismo privato di ognuno – il vero mal du siècle – non basta ormai più nemmeno a dare la forza per uscire di casa e andare a una riunione.
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