La Consulta e la riforma Renzi. Può accadere ora con l’Italicum ciò che poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì
Renzi
scrive ai democratici che è in gioco il futuro del partito. Può
darsi. Ma non dice che tutto viene dalla sua continua e arrogante
prevaricazione per riforme istituzionali utili al suo populismo
plebiscitario, e non al paese.
Minaccia questioni di fiducia
a raffica per mettere la mordacchia al dissenso Pd, ha ipotizzato
di imbavagliare persino le pregiudiziali. Una pregiudiziale di
costituzionalità sull’Italicum è giustificata, perché il testo
del senato non tiene conto dei principi stabiliti dalla Corte
costituzionale nella sentenza 1/2014, ed anzi ancor più se ne
allontana.
Quanto alla rappresentatività e al
voto eguale, il 40% invece del 37% di soglia per il premio di
maggioranza lascia un megapremio del 15%. E in ogni caso è decisiva
l’introduzione del ballottaggio. La sentenza 1/2014 aveva inteso
fulminare la possibilità — si badi, non la certezza — che un
ridotto consenso nei voti si traducesse in una maggioranza
assoluta di seggi. Dunque la domanda è: può ora accadere con
l’Italicum ciò che poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì,
perché al ballottaggio si arriva senza soglia. Accedono le due
liste più votate al di sotto del 40%, quale che sia la percentuale
conseguita. Anche se, per esempio, fosse il 15 o 20%. E se per
ipotesi tutti gli aventi diritto al voto confermassero nel
ballottaggio la scelta fatta nel primo turno, quel 15 o 20% si
tradurrebbe magicamente nel 55% dei seggi. Il tutto è aggravato dal
premio alla singola lista e non alla coalizione. Che il
ballottaggio curi i difetti del Porcellum è un ingannevole gioco
di specchi.
Quanto alla libertà degli elettori di
scegliere i rappresentanti, non basta limitare il blocco ai
capilista. Già rileva che sarebbero di fatto un’ampia maggioranza
degli eletti. Ma ancor più conta che ogni elettore vota
necessariamente anche il capolista. E se non lo vuole? Non può
volere per una parte, e disvolere per un’altra.
Il voto di tutti è inevitabilmente
condizionato ex lege, e quindi per definizione non è libero. Con
argomenti analoghi la Corte costituzionale richiede un quesito
univoco, omogeneo e ispirato a una matrice razionalmente
unitaria come requisito per l’ammissibilità del referendum
abrogativo ex articolo 75 della Costituzione.
Le opposizioni hanno dunque motivo
per la pregiudiziale, e possono chiedere il voto segreto. Può il
governo alzare il muro della questione di fiducia?
Nel gennaio 2014 la Camera discuteva
la legge elettorale. Partivano la scalata di Matteo Renzi
a Palazzo Chigi, ancora occupato da Enrico Letta, e la stagione del
Nazareno. Sulla pregiudiziale a prima firma Migliore (allora
capogruppo di Sel, ora Pd) si votò a scrutinio segreto, su richiesta
dello stesso Migliore (AC, 31.01.2014, p. 9–11). Nessuno parlò di
fiducia. Un precedente si trova nel 1980, con la fiducia posta da
Francesco Cossiga sulla reiezione della pregiudiziale di
costituzionalità a un decreto legge (AC, 26.08.1980, p. 17291).
Ancora oggi val la pena di leggere l’opinione contraria di Stefano
Rodotà (p. 17293).
Ribadisco per la pregiudiziale la
prevalenza della richiesta di voto segreto già argomentata su
queste pagine in materia di legge elettorale. In ogni caso, la
vicenda del 1980 non sarebbe un buon precedente, essendo il voto
segreto per il regolamento di allora previsione di ordine generale,
e non mirata a ipotesi tassative come è oggi. Proprio dalla
tassatività dovrebbe venire un favor per la segretezza laddove
richiesta. Del diverso contesto la presidenza dell’Assemblea, il
cui primo dovere è garantire la libertà dell’istituzione
parlamentare e non il successo del governo, deve tener conto. E cosa
è poi la questione di fiducia se non la richiesta di un voto per
appello nominale? Se è così, scompare forse l’articolo 51.3 del
regolamento della Camera, per cui «nel concorso di diverse richieste
prevale quella di votazione per scrutinio segreto»?
Conclusivamente, tre punti.
Il
primo. Dal gennaio 2014 Renzi si è indebolito, pur essendo oggi
premier. Puntare tutto sul patto del Nazareno fu un errore che ora
gli si riverbera contro.
Il secondo. Il continuo ricatto — crisi,
scioglimento anticipato — ci mostra come Renzi intende il
parlamento e la politica in generale.
Il terzo. Si conferma che
Renzi vuole imporre, approfittando della scalata al partito e a
Palazzo Chigi, istituzioni prive di largo consenso, e persino
minoritarie. Come questo dia forza e stabilità al paese qualcuno
ce lo deve spiegare. E non basterebbe a tal fine il regalo — per
niente certo — allo stesso Matteo Renzi di qualche altro anno
a Palazzo Chigi.
Molto dipende dai tremebondi esponenti della sinistra (?) Pd. È difficile capirli.
Ormai, il segretario ne ha dichiarato
la morte politica, e la lettera è l’ultimo certificato. Cos’altro
deve fare? Passarli nel catrame e nelle piume? Per il resto, tutto il
mondo già pensa che — con eccezioni — barattano il paese e le
istituzioni con qualche mese di scranno parlamentare o pochi
centesimi di vitalizio. Uno scambio miserabile. Nessuno più
compra la mistica della «ditta». Ma quale ditta, se un ex-segretario
come Pier Luigi Bersani non viene nemmeno invitato alla festa
dell’Unità, dove — come dichiara — sarebbe andato anche a piedi? Se non
ritrovano qui e ora, nell’ultimo momento utile, una ragione di
esistere e una dignità ormai personale prima che politica, al
prossimo turno elettorale saranno comunque merce avariata.
I servizi resi non ridanno una verginità politica perduta.
Una lettera del segretario come
quella di ieri attesta che un partito è mera apparenza. Qualcuno
dovrebbe spiegare a Renzi che il futuro del partito se l’è già
giocato. E ha fatto tutto da solo.
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