Il capogruppo alla Camera,
Speranza, si è dimesso, la scissione incombe; Bologna i tesserati al Pd
sono scesi di colpo del 25%; a Roma dilaga il fenomeno delle tessere
false e, stando al rapporto di Fabrizio Barca, il partito è pieno di
affaristi, trafficoni e delinquenti vari; a Napoli il trionfo regionale
di De Luca sta aprendo falle molto consistenti con l’abbandono di chi
non è disposto a votarlo; come peraltro in Liguria, dove le denunce di
Cofferati (non raccolte da nessuno) stanno provocando uno smottamento;
in Sicilia è la candidatura di un esponente di Fi, in una lista comune, a
provocare dimissioni di consistenti gruppi di iscritti; in Puglia c’è
protesta per la candidatura di Mele a sindaco di Carovigno. E poi gli
scandali che ormai investono regolarmente uomini del Pd in compagnia di
esponenti di Fi. Può bastare?
Il Pd è in preda ad una “sindrome da
sfasciamento” che non potrebbe essere più evidente. Civati dice che i
suoi seguaci, ormai, sono più fuori che dentro il partito. E potrebbe
dirlo anche Bersani dei suoi, se avesse una qualche capacità di guardare
in faccia la realtà.
Tuttavia, i sondaggi indicano ancora un
partito oltre il 35% ed anche le quotazioni personali di Renzi, per
quanto in declino, restano ancora alte. Come si spiega? In teoria, a
dati organizzativi così desolanti dovrebbe corrispondere una severa
flessione elettorale, mentre questo non si verifica, almeno per ora.
La spiegazione è complessa: in primo
luogo i dissesti organizzativi si riflettono in sede elettorale solo
tempo dopo e non nell’immediato. In secondo luogo gli scandali sono
percepiti come questioni che riguardano il vecchio gruppo dirigente e,
paradossalmente, rafforzano Renzi nel seguito d’opinione del partito,
dimostrando quanto sia stato opportuno il suo arrivo.
In terzo luogo Renzi resta senza
avversari: Fi è in liquidazione finale, il centro non dà ancora segni di
ripresa dopo la dissoluzione di un anno fa e tanto il M5s quanto la
Lega, crescono, ma non sembrano in grado di andare oltre una certa
soglia. La gente deve pur votare qualcosa ed anche l’incremento
dell’astensionismo non modifica le percentuali di ciascuno, perché si
distribuisce in modo più o meno omogeneo. Ma queste sono le spiegazioni
minori e transitorie dell’accaduto, ce ne sono di più pesanti e di più
lungo periodo.
In primo luogo gli attuali episodi sono
solo la manifestazione epifenomenica di processi in atto da un quarto di
secolo: la marginalizzazione dei partiti, ridotti a volgari comitati
elettorali e la sostituzione di essi con il rapporto diretto fra il
leader e l’elettorato. Quello che produce i partiti personali. La
tendenza aveva riguardato meno il Pds-Ds dove restava forte la cultura
del partito sorretta da una serie di robusti organismi di
fiancheggiamento (Cgil, Arci, Lega delle Cooperative ecc.), poi è
scattato una adattamento all’ambiente che ha lentamente corroso quella
cultura e la spinta decisiva è venuta dalla fusione con la Margherita e
la nascita del Pd, un partito che, per non scontentare nessuno, ha
sbiadito le rispettive culture di appartenenza per non costruirne
nessuna nuova.
Poi il ciclone Renzi ha travolto quel
che restava dell’antica cultura del Pci: la Cgil è stata marginalizzata e
trattata a pesci in faccia, la Lega delle Cooperative è diventata
sempre più in centro affaristico (e di affari non sempre profumati di
bucato), il partito stesso è diventato la periferia di un sistema nel
quale c’è un solo astro al centro, il leader.
Dunque, chi pensa che ci sia un
automatismo fra il disfacimento organizzativo del Pd e il suo calo
elettorale si disilluda: il Pd terrà elettoralmente sino a quando
reggerà il feeling di Renzi con l’elettorato. Ma se Renzi dovesse
“flettere” (come immaginiamo che accadrà in tempi non lunghissimi),
questo non significa il ritorno del Pd al vecchio costume organizzativo,
ma la sua semplice dissoluzione.
Questo spiega anche perché la cd
“sinistra Pd” sia destinata alla sconfitta sin dall’inizio: loro si
muovono come se fossero ancora nel Pci e pensano ad una impossibile
riscossa, senza capire che ormai non è più il Partito che sceglie il
leader, ma il leader che plasma il partito. La sinistra non capisce che
ha una sola possibilità di sopravvivenza (anche se forse grama):
costruire un altro partito che, se non altro, ne salverebbe una certa
visibilità ed un minimo di rappresentanza parlamentare, cose entrambe
negate nel partito di Renzi trionfante. E se poi Renzi dovesse perdere
le elezioni, non tornerebbero alla direzione del Pd perché non ci
sarebbe nulla da dirigere e sarebbero travolti anche loro dal crollo.
Semmai, questa crisi organizzativa offre
a Renzi un’occasione d’oro per liquidare definitivamente il Pd e
costruire il suo Partito della Nazione che sarebbe una cosa
completamente diversa. Diversa, non migliore.
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