Domani si inaugura in pompa
magna l’Expo di un Italia vacua e corrotta che su un tema capitale come
quello dell’alimentazione non è riuscita a costruire altro che una mega
trattoria abborracciata alla meglio, futile e fangosa. Del resto
essendo stata mangiatoia per ogni tipo di sottobosco la trasformazione
della presunta esposizione in greppia fusion dove s’ingozzano i soliti
noti, comprese le belle e lucide intelligenze travolte da insopprimibili
istinti cortigiani oltre che dalla numinosa reductio ad unum del
maccarone reale e di quello metaforico. Insomma costosissima cartapesta
alla quale banchetta un Paese di cartapesta.
Ma chi di Expo ferisce, almeno mediaticamente, di Expo può anche
perire. E in effetti il confronto con l’altra grande esposizione
internazionale ospitata dall’Italia, quella milanese del 1906, è
talmente impietoso da apparire una sconvolgente e desolante
testimonianza di un declino probabilmente irreversibile. Parliamo di 109
anni fa, mica di ieri: l’italietta giolittiana i cui costumi non erano
certo irreprensibili tra scandali bancari e trasformismo, volle
festeggiare il completamento della galleria del Sempione con una grande
esposizione dedicata ai trasporti. L’idea nata alla fine del 1902, prese
via via concretezza e venne completamente realizzata nel giro di due
anni grazie a una sottoscrizione pubblica che raccolse sei milioni di
lire poi totalmente restituiti. Vi parteciparono 40 Paesi (praticamente
tutti, tenendo conto che quasi metà del pianeta era sotto dominio
coloniale) e 35 mila espositori, compresi quelli cinesi. Le aree
espositive erano due, quella dietro il Castello sforzesco che oggi si
chiama appunto parco Sempione e quella della Piazza d’armi che è stata
poi per tanti decenni sede della vecchia fiera, unite da una
ferrovia sperimentale sospesa primo esempio di metropolitana
sopraelevata, copiata poi in tutto il mondo, tranne che da noi
ovviamente.
In due anni furono realizzate 225 costruzioni tutte in stile liberty.
All’ingresso principale si accedeva tramite un tunnel artificiale che
riproduceva fedelmente la galleria del traforo del Sempione con
materiali originali provenienti dal cantiere e documentazione
fotografica, mentre a fianco dell’Arena Civica fu costruito l’Acquario,
(unico edificio salvatosi dai bombardamenti della seconda guerra
mondiale) che allora era il terzo realizzato al mondo, dopo quelli di
Napoli (costruito con capitali tedeschi) e di Honolulu. Tra locomotive e
vagoni spiccava un’area dedicata al volo con palloni aerostatici sui
quali il pubblico poteva provare l’ebrezza di sollevarsi dal suolo, con i
primi modelli di dirigibili esposti e perfino con i primi aeroplani ad
appena tre anni dall’impresa dei fratelli Wright. C’erano poi padiglioni
che proponevano esperienze multisensoriali come quello dedicato
all’ambiente polare oppure all’Egitto con la ricostruzione integrale di
una zona del Cairo con tanto di cammelli. E per non farsi mancare nulla
fu inaugurato il primo ristorante cinese in Italia.
Ma c’erano anche cose più serie in quel lontano 1906, anno nel quale
nasce la confederazione Generale del lavoro e viene varato il primo
contratto di categoria tra la Fiom e la Fabbrica Italiana automobili
Torino. Un intero padiglione era dedicato alla previdenza sociale ed
esponeva anche appartamenti tipo dell’edilizia popolare: proprio nei
sette mesi di vita dell’esposizione (28 aprile – 11 novembre) la Società
umanitaria aveva inaugurato a Milano, in via Solari, il primo complesso
di edilizia economica , realizzato dall’architetto Broglio nel corso di
un anno e mezzo. Non mancava infine un intero palazzo (considerato tra
l’altro il più bello) dedicato ai temi e alle tecnologie della
produzione agricola.
Insomma l’idea che veniva fuori dall’esposizione era di un Paese
dinamico e aperto al mondo, moderno, laico (il manifesto ufficiale
riprende il tema dell’inno a satana di Carducci) e che era in grado di
affrontare il legame tra evoluzione tecnologica e progresso sociale.
Niente a che vedere con la squallida e atona mangiatoia dei Farinetti
accoppiata alla dittatura delle multinazionali del cibo (in realtà due
facce di una medesima medaglia), con l’esposizione nata fra ruberie
senza fine, sperpero dei denari pubblici, segnata dalla vergogna del
lavoro gratuito dalle speculazioni e dalla fatuità da ostaria che regna
untuosa come odore di fritto. Un insieme che nel complesso definisce un
Paese marginale, corrotto e conformista che ha davvero poco da dire in
qualsiasi campo.
Forse questo modo di vedere le cose deriva dal fatto che come molti
altri sarò invidioso di Farinetti come suggerisce con folgorante
intelligenza berlusconica tale Michele Serra in forza agli uffici stampi
unificati di De Benedetti, Fazio e Renzi. Però è più probabile che
questi eccessi di imbecillità servile, non siano altro che un ulteriore
aspetto del regresso che il Paese esprime e che ha prodotto questa
specie di Expo.
Ah dimenticavo… i visitatori nel 1906 furono 5 milioni che per le
condizioni di del tempo possono tranquillamente essere equiparati oggi a
100 milioni. Ma si fa fatica anche a raggiungere il traguardo dei 10
come dimostrano i numeri che ci sono, quelli che vengono taciuti e le
disperate svendite di biglietti che arrivano dal Pd come dalle società
telefoniche, dai vari gestori di frecce ferroviarie e fra un po’ anche
dai venditori di tappeti. Anzi no, quelli già ci sono per tagliare il
nastro.
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