venerdì 24 aprile 2015

Profughi di mare e profughi sociali di Pippo Civati e Marco Revelli




Il costo dell’operazione Mare Nostrum è stato di 115 milioni di euro, così dicono le stime più rea­li­sti­che. Un costo che, se a mag­gior ragione fosse affron­tato dall’Europa nel suo com­plesso, sarebbe una goc­cia nel mare dei bilanci: 2 euro all’anno per ogni ita­liano, 20 cent per ogni euro­peo. Per­ché ci si indi­gna così tanto? Per­ché si resi­ste così ottu­sa­mente "in alto", nelle Can­cel­le­rie euro­pee? Ma soprat­tutto per­ché si mugu­gna con ran­core "in basso", nelle nostre peri­fe­rie in sofferenza?
Per­ché c’è un pro­blema di povertà e di egua­glianza. Per­ché i poveri ita­liani (ed euro­pei) si sen­tono abban­do­nati e come spesso capita nel mondo gua­sto in cui viviamo i poveri se la pren­dono con chi è più povero di loro. Tanto più se l’unica voce “poli­tica” che parla loro è quella degli impren­di­tori poli­tici dell’odio e del ran­core, che anzi­ché risol­vere i loro pro­blemi li usano per incas­sare voti.
Prima gli ita­liani è lo slo­gan della destra da anni: prima si siste­mano gli ita­liani, poi ci si occupa degli altri. Il punto è però: chi si occupa dei poveri, di chi non ce la fa, di chi è più espo­sto alla glo­ba­liz­za­zione in tutte le sue forme? Quando si pro­pone il red­dito minimo, quando ci si inter­roga sulla sede delle deci­sioni, sulla rego­la­men­ta­zione del capi­ta­li­smo finan­zia­rio (pagano le tasse anche i poveri men­tre le mul­ti­na­zio­nali pos­sono tran­quil­la­mente non farlo, per dirne una, come Roberto Saviano scri­veva su Repub­blica del 21 aprile, dichia­rando fal­li­men­tare il seme­stre euro­peo gui­dato dall’Italia in rela­zione al tema del flusso delle per­sone e dei capi­tali), pro­prio que­sto si intende affermare.
Se non c’è soste­gno al red­dito per chi vive in Ita­lia, anche le decine di euro desti­nate all’accoglienza dei pro­fu­ghi sem­brano ecces­sive, anche il sal­va­tag­gio in mare di donne e bam­bini diventa ter­mine di para­gone, al di là di ogni uma­nità. Quando si tratta di cam­biare la poli­tica, a comin­ciare dalla poli­tica estera, si parla pro­prio di que­sto: del resto, non era pre­sen­tato Mare Nostrum come un fiore all’occhiello della poli­tica estera ita­liana? Non era certo il para­diso, ma almeno si moriva di meno.
Per­ché nell’anno di Expo non si è insi­stito in quella dire­zione? Per­ché non si fa guerra alla fame? Chia­mare «schia­vi­sti» gli «sca­fi­sti» è cer­ta­mente forte. Ma non pre­ciso. Dà l’impressione che col fare la guerra a loro si com­batta la schia­vitù. Anzi, la si eli­mini. Ed è un imbro­glio. Per­ché eli­mi­nare la schia­vitù signi­fica “libe­rare gli schiavi”. Ed eli­mi­nati gli sca­fi­sti con le loro car­rette del mare, que­gli uomini e quelle donne che, dispe­rati, sono dispo­sti a tutto pur di attra­ver­sare il mare, non saranno liberi. Saranno più dispe­rati e più schiavi di prima. Schiavi della guerra, della fame, della morte.
Can­cel­lare il mezzo e chi lo adotta in modo cri­mi­nale non risolve quella volontà e le ragioni che li por­tano a sot­to­porsi alla vio­lenza. A ben guar­dare, chi assi­ste quasi impas­si­bile siamo pro­prio noi. Sono i nostri governi. Le facce di pie­tra che dopo qual­che secondo di cor­do­glio, appena il tempo di un comu­ni­cato stampa, poi, a Bru­xel­les, di fronte a una tra­ge­dia immane, non sanno far altro che met­tere mano alla pistola, e in misura infima al por­ta­fo­glio (sulla coscienza mai), pro­gram­mando azioni mili­tari che, a detta di chiun­que un poco se ne intenda, sono pura idio­zia. Quando l’unica solu­zione sarebbe l’apertura di cor­ri­doi uma­ni­tari, come accade per ogni cata­strofe bellica.
Si pre­sen­tano come novelli Lin­coln, ma chi non affronta il pro­blema sono pro­prio i cul­tori di una poli­tica dell’egoismo e dell’autoreferenzialità, sono i sacer­doti di un’austerità che depreda in basso e accu­mula ric­chezza in alto. I custodi di un dogma fal­lito che riduce in povertà per­sone e popoli (la Gre­cia insegna).
Rom­pere con quella logica è un impe­gno etico e poli­tico. Per farlo, però, dob­biamo pen­sare ai pro­fu­ghi in mare e ai pro­fu­ghi sociali, but­tati fuori dalla barca del lavoro e del red­dito, in un mare di pre­ca­rietà. Nello stesso momento. Ora.

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