giovedì 30 aprile 2015

Perché nessuno parla del proporzionale? di Cosimo Francesco Fiori, Pandorarivista.it

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Il dibattito sulla nuova legge elettorale e la corsa per approvarla – cominciata come breve volata, e trasformatasi poi in mezzofondo se non in maratona – si sono sviluppati mettendo in ombra un dato fondamentale: una legge elettorale esiste, e non è il Porcellum (per inciso: la mania di dare alle leggi elettorali i nomignoli in “-um”, che costringe – per farsi capire – a parlare di Mattarellum, Consultellum e Italicum, è una colpa della quale Sartori e i suoi epigoni sciocchi dovrebbero rendere conto al tribunale della Storia).
La Corte Costituzionale (dopo una vicenda processuale lanciata ad arte – si può dire – proprio per condurre al giudizio di legittimità costituzionale) è intervenuta sul testo delle leggi elettorali di Camera e Senato1 trasformandole in senso nettamente proporzionale, con l’eliminazione dei premi di maggioranza (e, inoltre, introducendo le preferenze). Intervento politico, certo, come non può non essere quello di un giudice delle leggi. Il sistema risultante è simile a quello della cosiddetta Prima Repubblica. L’impellenza di cambiare il Porcellum, espressa talvolta persino dai suoi ideatori – impellenza tale che per anni non si è fatto nulla – oggi non ha più ragion d’essere, perché il Porcellum non esiste più. Ma del resto anche i motivi per i quali tale legge era considerata vergognosa erano sovente strumentali; la questione è tutt’altra.
Il dibattito attuale ha, come inespresso presupposto, il seguente: la legge ora vigente è una legge proporzionale, ancorché con soglie di sbarramento certo non indifferenti, e quindi con implicita torsione maggioritaria (a scapito soprattutto delle liste singole non coalizzate); si cerca invece di dare al sistema un carattere fortemente maggioritario (molto più di quanto non fosse prima). Poche voci sono discordi; tutto il resto – premio di maggioranza, doppio turno, preferenze, etc. – è dettaglio. Questo articolo vuole mettere in questione proprio questo presupposto implicito e inespresso della discussione, ovvero la preferenza indiscutibile per una legge maggioritaria. Il maggioritario è la formula magica che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta; per essere più maliziosi, trasforma una minoranza in maggioranza, un 35% di voto popolare nel 55% dei seggi, per esempio. Insomma, l’acqua in vino: miracolo!
L’infatuazione per il maggioritario che ha colto la sinistra all’inizio degli anni ’90 è fenomeno innanzitutto opportunistico: noi minoranza, si riteneva, con un buon escamotage diventeremo maggioranza. Peccato che al primo tentativo (‘94) vinse comunque Berlusconi, e anche in seguito per vincere le elezioni si dovettero inventare coalizioni larghe stile Prima Repubblica (unica differenza: coalizioni pre-elettorali e non post-elettorali). Il tentativo attuale è più ardito: si tratta finalmente di far sì che possano esistere governi monocolore, monopartitici, a immagine e somiglianza di sistemi totalmente diversi dal nostro.
Bisogna per vero aver chiaro che tra maggioritario e proporzionale sussistono differenze di grado: si può dire che un sistema è tanto più maggioritario quanto più distorce il voto popolare favorendo la concentrazione dei seggi nelle mani di pochi gruppi partitici, e sfavorendo la rappresentanza dei partiti che ricevono meno voti (in tal senso la non proporzionalità di un sistema è misurabile). Certamente, un doppio turno con premio di maggioranza alla lista – che prelude a una maggioranza e a un Governo monocolore – e la permanenza di soglie di sbarramento non insignificanti introducono un grado maggioritario molto forte. Ma se si vuole andare alla radice della questione occorre mettere in discussione il principio del maggioritario.
La scelta del sistema maggioritario implica una presa di posizione in ordine ad almeno tre questioni. 
La prima di esse è quella che concerne il pluralismo (partitico ma anche sociale ed economico) e il conflitto tra interessi diversi che esistono nella società. Il primo effetto dei sistemi maggioritari, quasi per definizione, è il rafforzamento dei partiti maggiori e il taglio delle ali (si vedano Paesi diversamente maggioritari quali la Francia, il Regno Unito, gli Stati Uniti, etc.).
Ora, a prescindere dai motivi storici che fecero coincidere la Repubblica democratica col sistema proporzionale2, la questione teorica dirimente è se il pluralismo e il conflitto debbano essere rappresentati all’interno del massimo organo sovrano, oppure no. Il sistema proporzionale è volto a riprodurre dentro lo Stato il conflitto esistente a livello della società, assegnando al Parlamento il ruolo di mediazione suprema. Un sistema maggioritario presuppone invece quella mediazione come già avvenuta. Ha, cioè, l’effetto opposto di occultare il pluralismo, mediante la costituzione di partiti generalisti che sorgono dalla falsa idea di omogeneità sociale (partiti che non vogliono rappresentare una parte, ma aspirano al tutto). Ciò è implicitamente, benché celata, una scelta a favore di alcuni interessi a discapito di altri, non rappresentati come tali in sede parlamentare e quindi esclusi dal canale politico, o comunque fortemente depotenziati. Oltre a ciò, la contesa tra partiti maggioritari tende naturaliter verso il centro, acuendo la distanza di determinati interessi dalla rappresentanza politica; mentre lo Stato e i partiti maggiori negano in via di principio l’esistenza del conflitto, proponendo una visione unitaria della società.
Il conflitto nel Novecento era entrato dentro lo Stato, anche a norma della Costituzione vigente, e col maggioritario si cerca di espellernelo, virando verso un’idea di Stato molto simile a ciò che Marx definiva come «comitato esecutivo della borghesia». Il sistema proporzionale ricrea il conflitto esistente nella società (o almeno lo consente); il sistema maggioritario ha già scelto il vincitore.
La seconda questione su cui la scelta maggioritaria importa una precisa decisione è quella della forma di governo. In tale ambito il risultato del maggioritario è il rafforzamento dell’esecutivo sul Parlamento: il Governo, infatti, potendo disporre della maggioranza parlamentare assoluta, non è sottoposto alle insidie e alle perdite di tempo, e il rischio di perdere su una votazione è relativamente basso: sicché il Parlamento ha un ruolo prevalente di ratifica; il singolo parlamentare è totalmente fungibile, potendo benissimo essere una nullità assoluta; la minoranza parlamentare ha un mero diritto di tribuna.
L’argomento di solito usato contro il sistema proporzionale è quello della governabilità, cioè dell’efficacia dell’azione di governo. Partitucoli e coalizioni vaste, frammentate ed eterogenee non conducono a nulla di buono, si dice. La forma decisionale garantita dal tramite diretto Governo-Parlamento (meglio: Governo monocolore – maggioranza parlamentare monopartitica) permette decisioni più rapide. Ma il punto è: quali decisioni?
Senza volere (e potere) fare qui una valutazione comparatistica sulla qualità della legislazione tra le cosiddette Prima e Seconda Repubblica – che difficilmente avrebbe esiti favorevoli alla seconda – occorre ricordare che la decisione politica è decisione che regola interessi contrapposti. Meno tali interessi hanno occasione di mediazione, meno la decisione politica e legislativa risulta ponderata. Insomma, qualcuno dovrebbe dimostrare che un processo legislativo più veloce (e comandato direttamente dal Governo) sia perciò stesso migliore di un processo decisionale che invece si forma in Parlamento3. La politica, che è mediazione di interessi conflittuali, richiede dibattito e tempo; non certo per vezzo da clasa discutidora, per dirla con Donoso Cortés, bensì perché riducendo la mediazione parlamentare e propriamente politica da un lato la si ‘esternalizza’, rendendola affine al lobbismo, e dall’altro si privilegia implicitamente uno dei contendenti, quello già rappresentato e comunque quello più forte, spingendo interi gruppi sociali al di fuori dello spazio della politica.
E questo chiama in causa la terza e ultima questione: l’effetto pernicioso che i sistemi maggioritari hanno sulle organizzazioni partitiche. Il fatto che i partiti in epoca maggioritaria diventino generalisti, d’opinione, comitati elettorali, fattualmente o ex professo dimentichi dell’organizzazione politica delle masse, non è un caso ma una necessità. Il partito generalista non organizza gli interessi conflittuali perché pretende di riassumerli tutti dentro di sé, perciò non ha interesse a organizzare una collettività intorno a interessi parziali. Non vuole essere parte ma Tutto (un tutto, certo, pieno di vacche nere e gatti bigi). Ritenendosi espressione diretta e sufficiente di quel tutto, il rapporto concreto con la collettività è questione puramente accidentale, che ben può essere limitata a momenti puntuali come le elezioni.
Per riassumere: il sistema proporzionale riconosce in via di principio l’esistenza del conflitto e lo porta all’interno del massimo organismo rappresentativo, il Parlamento; costringe, per via della probabile mancanza di maggioranze assolute, a un serrato confronto parlamentare che produce non solo lungaggini, ma anche mediazione; costringe i partiti a rivolgersi con maggior forza all’organizzazione delle collettività e degli interessi sociali, e a fare più seriamente da tramite tra questi interessi parziali e conflittuali e il dibattito parlamentare non monopolizzato. L’equazione maggioritario = meno partiti, governi più forti, decisioni più rapide e dinamiche, decisioni più giuste conduce invece all’esclusione delle masse dalla vita politica e all’indebolimento della politica stessa.
Il mito della governabilità; il mito delle elezioni che in un giorno solo (la sera stessa) designano il Governo e assegnano la coppa del vincitore, a guisa di partita di calcio; il terrore per il Governo che si forma in Parlamento: tutti questi sono invero dogmi antipolitici. Imboccare il sentiero più semplice, che permette di governare in modo celere e indolore, è una scelta (non necessariamente inconsapevole) di subalternità agli interessi dei gruppi sociali dominanti. Il sentiero tortuoso è invece quello del conflitto, della mediazione, del pluralismo (sociale, elettorale, parlamentare).
Un ultimo cenno merita la questione delle preferenze, dei capilista ‘bloccati’ e delle liste ‘bloccate’ tout court. Essa invero è, come tale, una falsa questione. Che la scelta diretta di quel candidato generi una maggiore vicinanza tra elettore ed eletto (sia perché si esprime una preferenza, sia perché si vota un candidato in un collegio uninominale, etc.) è un’affermazione parziale. “Vicino” è termine ambiguo, che può essere inteso in senso empirico o in senso organico. Scegliere proprio quel candidato lo rende empiricamente più vicino, senza dubbio. Ma è questa la vicinanza tra elettore ed eletto di cui la sinistra si può accontentare, tanto più in un periodo di crudele disaffezione politica ed elettorale? Il candidato preferito fa parte di una lista di nomi scelta da un partito, così come sono scelti all’interno dei partiti i candidati alle primarie, come lo sono i capilista, etc. Ma se manca alla radice una vicinanza organica tra elettore-cittadino e partito, si può forse pensare che la vicinanza empirica al nome del candidato annulli in un sol colpo la distanza tra politica e società?
Si tratta di un tentativo di demandare l’organizzazione politica delle masse al mero momento elettorale, quando invece essa dovrebbe esistere prima di questo; e anzi il momento elettorale dovrebbe essere solo la conferma di un rapporto che preesiste, sia logicamente sia cronologicamente. L’idea di avvicinare l’elettore e l’eletto con l’ausilio di una formuletta elettorale è una colossale ingenuità.

1 Sentenza n. 1/2014, che interviene sul D.P.R. 361/1957 (sistema elettorale della Camera dei deputati) e sul D.Lgs. 533/1993 (Senato) così come modificati dalla legge 270/2005 (cioè il cosiddetto Porcellum).
2 L’Assemblea Costituente, pur non inserendo nel testo della Costituzione il sistema elettorale proporzionale, si espresse in suo favore – per la Camera – con due o.d.g., sia nella Commissione dei 75, sia in Aula. L’on. Giolitti, che difese la proposta in Aula, descrisse il proporzionale come «più idoneo e adeguato allo sviluppo della democrazia moderna. Non è il caso che io ricordi quale significato, anche rivoluzionario, abbia avuto l’introduzione del sistema proporzionale […]. E infine voglio anche ricordare la garanzia che il sistema proporzionale costituisce per i diritti delle minoranze» (Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 23/9/1947, p. 436). Su analoga linea si espresse Mortati in Commissione.
3 Sulla maggior qualità legislativa di un modello proporzionalistico rispetto a uno maggioritario si veda A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Bologna, il Mulino, 2014.

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