Il dibattito sulla nuova legge elettorale e la
corsa per approvarla – cominciata come breve volata, e trasformatasi poi
in mezzofondo se non in maratona – si sono sviluppati mettendo in ombra
un dato fondamentale: una legge elettorale esiste, e non è il Porcellum (per inciso: la mania di dare alle leggi elettorali i nomignoli in “-um”, che costringe – per farsi capire – a parlare di Mattarellum, Consultellum e Italicum, è una colpa della quale Sartori e i suoi epigoni sciocchi dovrebbero rendere conto al tribunale della Storia).
La Corte Costituzionale (dopo una vicenda processuale
lanciata ad arte – si può dire – proprio per condurre al giudizio di
legittimità costituzionale) è intervenuta sul testo delle leggi
elettorali di Camera e Senato1
trasformandole in senso nettamente proporzionale, con l’eliminazione
dei premi di maggioranza (e, inoltre, introducendo le preferenze).
Intervento politico, certo, come non può non essere quello di un giudice
delle leggi. Il sistema risultante è simile a quello della cosiddetta
Prima Repubblica. L’impellenza di cambiare il Porcellum,
espressa talvolta persino dai suoi ideatori – impellenza tale che per
anni non si è fatto nulla – oggi non ha più ragion d’essere, perché il Porcellum
non esiste più. Ma del resto anche i motivi per i quali tale legge era
considerata vergognosa erano sovente strumentali; la questione è
tutt’altra.
Il dibattito attuale ha, come inespresso presupposto, il seguente: la legge ora vigente è una legge proporzionale,
ancorché con soglie di sbarramento certo non indifferenti, e quindi con
implicita torsione maggioritaria (a scapito soprattutto delle liste
singole non coalizzate); si cerca invece di dare al sistema un carattere
fortemente maggioritario (molto più di quanto non fosse
prima). Poche voci sono discordi; tutto il resto – premio di
maggioranza, doppio turno, preferenze, etc. – è dettaglio. Questo
articolo vuole mettere in questione proprio questo presupposto implicito
e inespresso della discussione, ovvero la preferenza indiscutibile per
una legge maggioritaria. Il maggioritario è la formula magica che
trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta; per essere
più maliziosi, trasforma una minoranza in maggioranza, un 35% di voto popolare nel 55% dei seggi, per esempio. Insomma, l’acqua in vino: miracolo!
L’infatuazione per il maggioritario che ha colto la
sinistra all’inizio degli anni ’90 è fenomeno innanzitutto
opportunistico: noi minoranza, si riteneva, con un buon escamotage
diventeremo maggioranza. Peccato che al primo tentativo (‘94) vinse
comunque Berlusconi, e anche in seguito per vincere le elezioni si
dovettero inventare coalizioni larghe stile Prima Repubblica (unica
differenza: coalizioni pre-elettorali e non post-elettorali). Il
tentativo attuale è più ardito: si tratta finalmente di far sì che
possano esistere governi monocolore, monopartitici, a immagine e somiglianza di sistemi totalmente diversi dal nostro.
Bisogna per vero aver chiaro che tra maggioritario e
proporzionale sussistono differenze di grado: si può dire che un sistema
è tanto più maggioritario quanto più distorce il voto popolare
favorendo la concentrazione dei seggi nelle mani di pochi gruppi
partitici, e sfavorendo la rappresentanza dei partiti che ricevono meno
voti (in tal senso la non proporzionalità di un sistema è misurabile). Certamente, un doppio turno con premio di maggioranza alla lista – che prelude a una maggioranza e a un Governo monocolore
– e la permanenza di soglie di sbarramento non insignificanti
introducono un grado maggioritario molto forte. Ma se si vuole andare
alla radice della questione occorre mettere in discussione il principio del maggioritario.
La scelta del sistema maggioritario implica una presa
di posizione in ordine ad almeno tre questioni.
La prima di esse è
quella che concerne il pluralismo (partitico ma anche sociale ed
economico) e il conflitto tra interessi diversi che esistono nella
società. Il primo effetto dei sistemi maggioritari, quasi per
definizione, è il rafforzamento dei partiti maggiori e il taglio delle
ali (si vedano Paesi diversamente maggioritari quali la Francia, il
Regno Unito, gli Stati Uniti, etc.).
Ora, a prescindere dai motivi storici che fecero coincidere la Repubblica democratica col sistema proporzionale2,
la questione teorica dirimente è se il pluralismo e il conflitto
debbano essere rappresentati all’interno del massimo organo sovrano,
oppure no. Il sistema proporzionale è volto a riprodurre dentro lo Stato
il conflitto esistente a livello della società, assegnando al
Parlamento il ruolo di mediazione suprema. Un sistema maggioritario
presuppone invece quella mediazione come già avvenuta. Ha, cioè,
l’effetto opposto di occultare il pluralismo, mediante la costituzione
di partiti generalisti che sorgono dalla falsa idea di omogeneità sociale (partiti che non vogliono rappresentare una parte, ma aspirano al tutto).
Ciò è implicitamente, benché celata, una scelta a favore di alcuni
interessi a discapito di altri, non rappresentati come tali in sede
parlamentare e quindi esclusi dal canale politico, o comunque fortemente
depotenziati. Oltre a ciò, la contesa tra partiti maggioritari tende naturaliter
verso il centro, acuendo la distanza di determinati interessi dalla
rappresentanza politica; mentre lo Stato e i partiti maggiori negano in
via di principio l’esistenza del conflitto, proponendo una visione
unitaria della società.
Il conflitto nel Novecento era entrato dentro
lo Stato, anche a norma della Costituzione vigente, e col maggioritario
si cerca di espellernelo, virando verso un’idea di Stato molto simile a
ciò che Marx definiva come «comitato esecutivo della borghesia». Il
sistema proporzionale ricrea il conflitto esistente nella società (o
almeno lo consente); il sistema maggioritario ha già scelto il
vincitore.
La seconda questione su cui la scelta maggioritaria importa una precisa decisione è quella della forma di governo.
In tale ambito il risultato del maggioritario è il rafforzamento
dell’esecutivo sul Parlamento: il Governo, infatti, potendo disporre
della maggioranza parlamentare assoluta, non è sottoposto alle insidie e
alle perdite di tempo, e il rischio di perdere su una votazione è
relativamente basso: sicché il Parlamento ha un ruolo prevalente di
ratifica; il singolo parlamentare è totalmente fungibile, potendo
benissimo essere una nullità assoluta; la minoranza parlamentare ha un
mero diritto di tribuna.
L’argomento di solito usato contro il sistema proporzionale è quello della governabilità,
cioè dell’efficacia dell’azione di governo. Partitucoli e coalizioni
vaste, frammentate ed eterogenee non conducono a nulla di buono, si
dice. La forma decisionale garantita dal tramite diretto
Governo-Parlamento (meglio: Governo monocolore – maggioranza
parlamentare monopartitica) permette decisioni più rapide. Ma il punto
è: quali decisioni?
Senza volere (e potere) fare qui una valutazione
comparatistica sulla qualità della legislazione tra le cosiddette Prima e
Seconda Repubblica – che difficilmente avrebbe esiti favorevoli alla
seconda – occorre ricordare che la decisione politica è
decisione che regola interessi contrapposti. Meno tali interessi hanno
occasione di mediazione, meno la decisione politica e legislativa
risulta ponderata. Insomma, qualcuno dovrebbe dimostrare che un processo
legislativo più veloce (e comandato direttamente dal Governo) sia perciò stesso migliore di un processo decisionale che invece si forma in Parlamento3. La politica, che è mediazione di interessi conflittuali, richiede dibattito e tempo; non certo per vezzo da clasa discutidora,
per dirla con Donoso Cortés, bensì perché riducendo la mediazione
parlamentare e propriamente politica da un lato la si ‘esternalizza’,
rendendola affine al lobbismo, e dall’altro si privilegia implicitamente
uno dei contendenti, quello già rappresentato e comunque quello più
forte, spingendo interi gruppi sociali al di fuori dello spazio della
politica.
E questo chiama in causa la terza e ultima questione:
l’effetto pernicioso che i sistemi maggioritari hanno sulle
organizzazioni partitiche. Il fatto che i partiti in epoca maggioritaria
diventino generalisti, d’opinione, comitati elettorali, fattualmente o ex professo
dimentichi dell’organizzazione politica delle masse, non è un caso ma
una necessità. Il partito generalista non organizza gli interessi
conflittuali perché pretende di riassumerli tutti dentro di sé, perciò
non ha interesse a organizzare una collettività intorno a interessi parziali.
Non vuole essere parte ma Tutto (un tutto, certo, pieno di vacche nere e
gatti bigi). Ritenendosi espressione diretta e sufficiente di quel
tutto, il rapporto concreto con la collettività è questione puramente
accidentale, che ben può essere limitata a momenti puntuali come le
elezioni.
Per riassumere: il sistema proporzionale riconosce in
via di principio l’esistenza del conflitto e lo porta all’interno del
massimo organismo rappresentativo, il Parlamento; costringe, per via
della probabile mancanza di maggioranze assolute, a un serrato confronto
parlamentare che produce non solo lungaggini, ma anche mediazione;
costringe i partiti a rivolgersi con maggior forza all’organizzazione
delle collettività e degli interessi sociali, e a fare più seriamente da
tramite tra questi interessi parziali e conflittuali e il dibattito
parlamentare non monopolizzato. L’equazione maggioritario = meno
partiti, governi più forti, decisioni più rapide e dinamiche, decisioni
più giuste conduce invece all’esclusione delle masse dalla vita politica
e all’indebolimento della politica stessa.
Il mito della governabilità; il mito delle elezioni
che in un giorno solo (la sera stessa) designano il Governo e assegnano
la coppa del vincitore, a guisa di partita di calcio; il terrore per il
Governo che si forma in Parlamento: tutti questi sono invero dogmi antipolitici.
Imboccare il sentiero più semplice, che permette di governare in modo
celere e indolore, è una scelta (non necessariamente inconsapevole) di subalternità
agli interessi dei gruppi sociali dominanti. Il sentiero tortuoso è
invece quello del conflitto, della mediazione, del pluralismo (sociale,
elettorale, parlamentare).
Un ultimo cenno merita la questione delle preferenze, dei capilista ‘bloccati’ e delle liste ‘bloccate’ tout court. Essa invero è, come tale, una falsa questione. Che la scelta diretta di quel candidato generi una maggiore vicinanza
tra elettore ed eletto (sia perché si esprime una preferenza, sia
perché si vota un candidato in un collegio uninominale, etc.) è
un’affermazione parziale. “Vicino” è termine ambiguo, che può essere
inteso in senso empirico o in senso organico. Scegliere proprio quel
candidato lo rende empiricamente più vicino, senza dubbio. Ma è questa
la vicinanza tra elettore ed eletto di cui la sinistra si può
accontentare, tanto più in un periodo di crudele disaffezione politica
ed elettorale? Il candidato preferito fa parte di una lista di nomi
scelta da un partito, così come sono scelti all’interno dei partiti i
candidati alle primarie, come lo sono i capilista, etc. Ma se manca alla
radice una vicinanza organica tra elettore-cittadino e partito, si può forse pensare che la vicinanza empirica al nome del candidato annulli in un sol colpo la distanza tra politica e società?
Si tratta di un tentativo di demandare
l’organizzazione politica delle masse al mero momento elettorale, quando
invece essa dovrebbe esistere prima di questo; e anzi il momento elettorale dovrebbe essere solo la conferma
di un rapporto che preesiste, sia logicamente sia cronologicamente.
L’idea di avvicinare l’elettore e l’eletto con l’ausilio di una
formuletta elettorale è una colossale ingenuità.
1
Sentenza n. 1/2014, che interviene sul D.P.R. 361/1957 (sistema
elettorale della Camera dei deputati) e sul D.Lgs. 533/1993 (Senato)
così come modificati dalla legge 270/2005 (cioè il cosiddetto Porcellum).
2
L’Assemblea Costituente, pur non inserendo nel testo della Costituzione
il sistema elettorale proporzionale, si espresse in suo favore – per la
Camera – con due o.d.g., sia nella Commissione dei 75, sia in Aula.
L’on. Giolitti, che difese la proposta in Aula, descrisse il
proporzionale come «più idoneo e adeguato allo sviluppo della democrazia
moderna. Non è il caso che io ricordi quale significato, anche
rivoluzionario, abbia avuto l’introduzione del sistema proporzionale
[…]. E infine voglio anche ricordare la garanzia che il sistema
proporzionale costituisce per i diritti delle minoranze» (Atti
dell’Assemblea costituente, seduta del 23/9/1947, p. 436). Su analoga
linea si espresse Mortati in Commissione.
3 Sulla maggior qualità legislativa di un modello proporzionalistico rispetto a uno maggioritario si veda A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Bologna, il Mulino, 2014.
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