E' tempo ottimamente speso quello che si volesse dedicare alla lettura dell'ultimo lavoro di Paolo Ciofi (La bancarotta del capitale e la nuova società,
Editori Riuniti university press, pp.182, 15 euro): un “saggio
popolare” che mantiene la freschezza polemica e incalzante del pamphlet e
contemporaneamente – cosa alquanto rara – maneggia con invidiabili
lucidità e chiarezza nodi teorici di grande complessità.
La chiave di lettura ci è offerta dall'autore stesso che ha voluto sottotitolare il suo testo con quella che è già un'eloquente dichiarazione di intenti: «Nel laboratorio di Marx per uscire dalla crisi». Perché è proprio alla straordinaria strumentazione del grande rivoluzionario di Treviri che Ciofi attinge per ricostruire una plausibile interpretazione delle dinamiche che regolano il funzionamento del mondo in cui viviamo e per svelare le ragioni sistemiche della crisi che sta precipitando l'intero pianeta in un vicolo cieco. Una crisi che non scaturisce da un'accidentale patologia, da un vizio degenerativo, da un tumore maligno impiantatosi clandestinamente in un corpo sano. Insomma, Ciofi ci ricorda (e dimostra) che la superfetazione finanziaria che sta distruggendo le forze produttive e abolendo la democrazia in favore di un'oligarchia di “proprietari universali” non è figlia di se stessa, ma affonda le radici nell'economia reale, vale a dire nei rapporti capitalistici di produzione. In altre parole, la crisi appartiene alla fisiologia della formazione economico-sociale che permea di sé il mondo moderno e di cui è fondamentale ri-scoprire l'anatomia, lo scheletro portante, il codice genetico occultato dentro l'involucro ideologico.
Se l'analisi conduce al cuore del problema, se si compie questo miracolo dell'intelligenza critica, allora la nebbia si dirada, «tutti i misteri vengono in chiaro» e diventa possibile non soltanto riconquistare la comprensione di ciò che altrimenti resta incomprensibile, ma anche imparare come si possa seriamente usare la politica per cambiare le cose in profondità.
Ciofi afferra dunque il toro per le corna e – tornando a Marx – rammenta che «il capitale non è una semplice “cosa”, un accumulo inerte di merci sotto forma di mezzi finanziari, di macchine e di materie prime, bensì un rapporto sociale». E, precisamente, un rapporto fondato sull'asservimento del lavorolavoro non pagato. Pertanto il capitalista è tale non in quanto “datore” di lavoro, ma al contrario in quanto “estortore” del lavoro immesso dal salariato nel processo produttivo». Ora che la bolla finanziaria – frutto delle escogitazioni fraudolente con le quali i moderni cerusici del capitale hanno cercato di rimettere in moto il meccanismo inceppato e mascherare l'impoverimento e la proletarizzazione di gran parte degli esseri umani - è deflagrata, ripercuotendosi sull'economia reale e distruggendo lo stesso capitale finanziario, ecco che banchieri e proprietari universali si risarciscono attraverso una colossale espropriazione sociale e assistiamo al «miracolo dei ricchi salvati dai poveri».
Il re, dunque, è nudo. E tuttavia - continua Ciofi - i terapeuti che si accalcano al letto del malato continuano a cucinare le loro salvifiche ricette nel perimetro del pensiero liberista. Questo vale per le tesi di orientamento liberaldemocratico, che si illudono di risolvere tutto quanto attraverso qualche anticorpo capace di mettere a freno “l'avidità dei banchieri”. Ma vale anche per le tesi di ispirazione liberalsocialista che individuando il male in una squilibrata distribuzione dei redditi pensano di venire a capo della difficoltà provocando un miracoloso «riorientamento etico del capitale». Nell'un caso e nell'altro non si riesce a comprendere che la “squilibrata distribuzione dei redditi” ha la sua origine strutturale nello “squilibrio” esistente nella distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione. Sicché continuando a non capire dove sta il problema si procede pestando acqua nel mortaio e si attribuisce alla febbre l'origine della malattia. E, vieppiù, riprecipita nell'arcano il tema di dove risieda l'origine della disuguaglianza, in crescita esponenziale in un mondo nel quale la scienza e la tecnica - nelle mani di esseri umani riuniti in libere e democratiche istituzioni – potrebbero debellare la fame, la sete, le malattie ed assicurare a tutti e a tutte un'esistenza libera e dignitosa, in una sana relazione di scambio organico con la natura e con l'ambiente.
Ciofi ci rappresenta, in un raggelante affresco, come la globalizzazione sotto l'egida del capitale si sia risolta in un inaudito processo di privatizzazione universale, in una nuova, gigantesca accumulazione mediante esproprio, di lavoro e di natura, dove tutto acquista la forma di merce e dove la sola domanda interessante è quella solvibile, quella pagante. Accade così che le periodiche crisi di sovrapproduzione possano tranquillamente coesistere con milioni di morti per denutrizione.
Ciofi non lesina – e fa bene – le cifre che illustrano questa colossale predazione, questo mastodontico accumulo di ingiustizia, ma tiene soprattutto a dimostrare come il processo di privatizzazione investa anche la politica, anch'essa privilegio di élites proprietarie, dove il politico si trasforma in manager con la funzione di mantenere in equilibrio l'ordine esistente: un capitalismo ormai refrattario alla democrazia e che ha messo sotto controllo i suoi ipotetici controllori, «mandando in fumo l'utopia liberalriformista della civilizzazione del capitale».
Ciofi si occupa poi estesamente del caso italiano, mettendo a fuoco «il fallimento della cultura d'impresa come cultura politica di governo» assurta da oltre un ventennio a stella polare di chi ha retto il timone del paese: l'attacco al lavoro e a tutto ciò che è pubblico; lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici locali, la svalutazione del lavoro intellettuale («la manifestazione più clamorosa di un enorme spreco, quello dell'intelligenza, testimonianza indelebile della stupidità di un'intera classe dirigente»); l'aporia di una crescita che si farebbe colpendo salari, investimenti e ricerca; il nanismo industriale di un apparato produttivo disarticolato in una molteplicità autistica di sottosistemi; la latitanza di una classe imprenditoriale che lucra profitti sul lavoro, non reinveste e “patrimonializza” la ricchezza estorta al lavoro in forme totalmente improduttive.
L'analisi di Ciofi scandaglia tutto e documenta tutto con inesorabile precisione (dalla favola del denaro che figlia denaro in un processo di autoprocreazione, alla panzana che profetizzava l'estinzione del lavoro e, a fortiori, delle classi) per giungere alla conclusione che «i rapporti di proprietà capitalistici sono diventati una camicia di forza di cui occorre liberarsi per assicurare la sopravvivenza, il progresso e l'incivilimento del mondo» e che «per padroneggiare i frutti del proprio lavoro l'uomo deve disporre dei mezzi con i quali li produce» e, dunque, che «l'embrione di una società comunista sta nel rivendicare il controllo sociale dei beni comuni» sottraendoli alla voracità distruttiva del capitale, perché solo così democrazia ed uguaglianza possono saldarsi in un binomio inscindibile.
Il tema da svolgere è allora, per Ciofi, quello di come costruire il processo reale del cambiamento, con quali strumenti, con quali obiettivi e con quali forze portare avanti un'impresa “rivoluzionaria” capace di guardare oltre i confini della pura redistribuzione della ricchezza per aggredire il nodo del modo di produzione e intervenire nei rapporti di proprietà.
Il paradosso consiste nel fatto che alla crisi più profonda da cui il capitalismo sia stato attraversato nel corso della sua storia corrisponde, almeno in Occidente e massimamente in Italia, la frantumazione politica, culturale e organizzativa della sinistra, che fra una rimozione ed un'abiura ha mandato al macero un grande patrimonio di elaborazione ed un prezioso accumulo di esperienza politica, facendosi orba di un progetto e di una strategia
Si pone allora, o meglio, si ripropone – per l'autore – il tema di una sinistra che riacquisti la capacità di ricostruire nel lavoro (in tutto il mondo del lavoro) il proprio insediamento sociale e di ridefinire la propria strategia intorno ad un asse centrale: l'intervento della politica dentro i rapporti di produzione, per porre dei limiti alla proprietà privata, nel cuore del potere che orienta la produzione sociale e decide cosa si produce e per chi. E' la questione dell'autogoverno dei produttori associati, mai risolta nell'esperienza del socialismo realizzato e nell'intera storia dell'umanità.
Ebbene, Ciofi ritiene che la Costituzione repubblicana indichi (nei 14 articoli che compongono il suo titolo III, dedicato ai rapporti economico-sociali) una strada originale, un progetto riformatore in progress, non solo mai attuato, ma neppure compiutamente esplorato nelle sue intuizioni più feconde, ove esso «trasmette una visione indiscutibilmente pluralistica della proprietà dei mezzi di produzione e di comunicazione», stabilendo il primato dell'interesse sociale su quello privato, sino ad affermare che l'impresa privata «può essere espropriata per motivi di interesse generale». Nella possibilità di organizzare un nuovo tipo di impresa, indirizzandola al soddisfacimento dei bisogni collettivi «nell'equilibrio con l'ambiente naturale e nel rispetto della salute e dei diritti dei produttori», Ciofi intravede la possibilità di assegnare al valore d'uso la preminenza sul valore di scambio. Non, dunque, una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, ma un controllo sociale sui fini e sui destini della produzione, che abbandonata nei tentacoli del capitale genera disoccupazione, emarginazione, sfruttamento e distruzione cieca ed irreversibile dell'ambiente naturale. La sentenza è lapidaria: «Nella lunga transizione della Repubblica, le sinistre avevano nelle mani il progetto per cambiare l'Italia. Ma non l'hanno usato» preferendo, almeno in parte cospicua, «trovare riparo sotto l'ombrello della cultura d'impresa» e così favorendo una controffensiva della destra che ha diametralmente piallato, sino ai disastrosi esiti attuali, le organizzazioni del movimento operaio e la loro autonomia: «al culmine dell'esaltazione della proprietà privata – commenta Ciofi – la privatizzazione della politica segue il suo corso: non più spazio pubblico a disposizione dell'agire collettivo di grandi masse, ma bene di mercato commerciale e commerciabile per chi dispone della ricchezza».
Proprio da qui, invece, Ciofi ritiene sia necessario ripartire: dalla ricostruzione del partito politico di classe, oggi in larga parte convertitosi in strumento di potere a sostegno del leader. Se la critica di Ciofi non lascia scampo al Pd («una forza moderata e centrista»), non è certo indulgente con la «sinistra alternativista», oscillante verso schematizzazioni di vario tipo che hanno conseguito il non esaltante esito di spezzare il nesso tra il sociale e il politico, col risultato che «l'annunciata scelta di classe non ha portato con sé il consenso e la rappresentanza di classe».
Occorre dunque un soggetto politico che esplicitamente metta a tema l'obiettivo che la proprietà sia piegata ai principi di “utilità generale” e “funzione sociale”: «Se manca un soggetto politico che si proponga tali finalità, il disegno di un modello alternativo resta solo un castello in aria». Perché ciò possa avvenire serve anche una riforma democratica del partito, che Ciofi delinea così: «Al posto di signorsì in transito c'è bisogno di teste pensanti al servizio di una causa di liberazione, perché si tratta di organizzare una nuova lotta di liberazione. Senza gruppi dirigenti che siano sottoposti al giudizio e al controllo della base, il partito è un partito del leader, vale a dire un non-partito personale, che torna allo stato liquido di movimento e ha bisogno di una figura carismatica che lo padroneggi, o perché ne è letteralmente il padrone, o perché ne assume la leadership attraverso operazioni mediatico-plebiscitarie». altrui da parte di uomini che posseggono in esclusiva i mezzi di produzione. E' in questo «presupposto tacito» - penetrato come un mantra nel senso comune, quasi fosse una legge di natura - che risiede il genoma del capitale, l'uovo del serpente da estirpare. Da qui, insiste Ciofi, si deve immancabilmente procedere, «perché il pensiero neo-liberista prescinde totalmente dalla realtà dello sfruttamento e, dunque, dalle radici più profonde della disuguaglianza. Il plusvalore è all'altezza della sfida che è data. Il capolavoro del capitale – osserva Ciofi – la più grande opera di mistificazione di cui esso si è reso protagonista, quindi «la più alta forma della lotta di classe che esso ha scatenato è consistita proprio nel negare l'esistenza delle classi e dell'avversario di classe: spossessarlo della sua identità, della sua memoria, della sua organizzazione».
La chiave di lettura ci è offerta dall'autore stesso che ha voluto sottotitolare il suo testo con quella che è già un'eloquente dichiarazione di intenti: «Nel laboratorio di Marx per uscire dalla crisi». Perché è proprio alla straordinaria strumentazione del grande rivoluzionario di Treviri che Ciofi attinge per ricostruire una plausibile interpretazione delle dinamiche che regolano il funzionamento del mondo in cui viviamo e per svelare le ragioni sistemiche della crisi che sta precipitando l'intero pianeta in un vicolo cieco. Una crisi che non scaturisce da un'accidentale patologia, da un vizio degenerativo, da un tumore maligno impiantatosi clandestinamente in un corpo sano. Insomma, Ciofi ci ricorda (e dimostra) che la superfetazione finanziaria che sta distruggendo le forze produttive e abolendo la democrazia in favore di un'oligarchia di “proprietari universali” non è figlia di se stessa, ma affonda le radici nell'economia reale, vale a dire nei rapporti capitalistici di produzione. In altre parole, la crisi appartiene alla fisiologia della formazione economico-sociale che permea di sé il mondo moderno e di cui è fondamentale ri-scoprire l'anatomia, lo scheletro portante, il codice genetico occultato dentro l'involucro ideologico.
Se l'analisi conduce al cuore del problema, se si compie questo miracolo dell'intelligenza critica, allora la nebbia si dirada, «tutti i misteri vengono in chiaro» e diventa possibile non soltanto riconquistare la comprensione di ciò che altrimenti resta incomprensibile, ma anche imparare come si possa seriamente usare la politica per cambiare le cose in profondità.
Ciofi afferra dunque il toro per le corna e – tornando a Marx – rammenta che «il capitale non è una semplice “cosa”, un accumulo inerte di merci sotto forma di mezzi finanziari, di macchine e di materie prime, bensì un rapporto sociale». E, precisamente, un rapporto fondato sull'asservimento del lavorolavoro non pagato. Pertanto il capitalista è tale non in quanto “datore” di lavoro, ma al contrario in quanto “estortore” del lavoro immesso dal salariato nel processo produttivo». Ora che la bolla finanziaria – frutto delle escogitazioni fraudolente con le quali i moderni cerusici del capitale hanno cercato di rimettere in moto il meccanismo inceppato e mascherare l'impoverimento e la proletarizzazione di gran parte degli esseri umani - è deflagrata, ripercuotendosi sull'economia reale e distruggendo lo stesso capitale finanziario, ecco che banchieri e proprietari universali si risarciscono attraverso una colossale espropriazione sociale e assistiamo al «miracolo dei ricchi salvati dai poveri».
Il re, dunque, è nudo. E tuttavia - continua Ciofi - i terapeuti che si accalcano al letto del malato continuano a cucinare le loro salvifiche ricette nel perimetro del pensiero liberista. Questo vale per le tesi di orientamento liberaldemocratico, che si illudono di risolvere tutto quanto attraverso qualche anticorpo capace di mettere a freno “l'avidità dei banchieri”. Ma vale anche per le tesi di ispirazione liberalsocialista che individuando il male in una squilibrata distribuzione dei redditi pensano di venire a capo della difficoltà provocando un miracoloso «riorientamento etico del capitale». Nell'un caso e nell'altro non si riesce a comprendere che la “squilibrata distribuzione dei redditi” ha la sua origine strutturale nello “squilibrio” esistente nella distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione. Sicché continuando a non capire dove sta il problema si procede pestando acqua nel mortaio e si attribuisce alla febbre l'origine della malattia. E, vieppiù, riprecipita nell'arcano il tema di dove risieda l'origine della disuguaglianza, in crescita esponenziale in un mondo nel quale la scienza e la tecnica - nelle mani di esseri umani riuniti in libere e democratiche istituzioni – potrebbero debellare la fame, la sete, le malattie ed assicurare a tutti e a tutte un'esistenza libera e dignitosa, in una sana relazione di scambio organico con la natura e con l'ambiente.
Ciofi ci rappresenta, in un raggelante affresco, come la globalizzazione sotto l'egida del capitale si sia risolta in un inaudito processo di privatizzazione universale, in una nuova, gigantesca accumulazione mediante esproprio, di lavoro e di natura, dove tutto acquista la forma di merce e dove la sola domanda interessante è quella solvibile, quella pagante. Accade così che le periodiche crisi di sovrapproduzione possano tranquillamente coesistere con milioni di morti per denutrizione.
Ciofi non lesina – e fa bene – le cifre che illustrano questa colossale predazione, questo mastodontico accumulo di ingiustizia, ma tiene soprattutto a dimostrare come il processo di privatizzazione investa anche la politica, anch'essa privilegio di élites proprietarie, dove il politico si trasforma in manager con la funzione di mantenere in equilibrio l'ordine esistente: un capitalismo ormai refrattario alla democrazia e che ha messo sotto controllo i suoi ipotetici controllori, «mandando in fumo l'utopia liberalriformista della civilizzazione del capitale».
Ciofi si occupa poi estesamente del caso italiano, mettendo a fuoco «il fallimento della cultura d'impresa come cultura politica di governo» assurta da oltre un ventennio a stella polare di chi ha retto il timone del paese: l'attacco al lavoro e a tutto ciò che è pubblico; lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici locali, la svalutazione del lavoro intellettuale («la manifestazione più clamorosa di un enorme spreco, quello dell'intelligenza, testimonianza indelebile della stupidità di un'intera classe dirigente»); l'aporia di una crescita che si farebbe colpendo salari, investimenti e ricerca; il nanismo industriale di un apparato produttivo disarticolato in una molteplicità autistica di sottosistemi; la latitanza di una classe imprenditoriale che lucra profitti sul lavoro, non reinveste e “patrimonializza” la ricchezza estorta al lavoro in forme totalmente improduttive.
L'analisi di Ciofi scandaglia tutto e documenta tutto con inesorabile precisione (dalla favola del denaro che figlia denaro in un processo di autoprocreazione, alla panzana che profetizzava l'estinzione del lavoro e, a fortiori, delle classi) per giungere alla conclusione che «i rapporti di proprietà capitalistici sono diventati una camicia di forza di cui occorre liberarsi per assicurare la sopravvivenza, il progresso e l'incivilimento del mondo» e che «per padroneggiare i frutti del proprio lavoro l'uomo deve disporre dei mezzi con i quali li produce» e, dunque, che «l'embrione di una società comunista sta nel rivendicare il controllo sociale dei beni comuni» sottraendoli alla voracità distruttiva del capitale, perché solo così democrazia ed uguaglianza possono saldarsi in un binomio inscindibile.
Il tema da svolgere è allora, per Ciofi, quello di come costruire il processo reale del cambiamento, con quali strumenti, con quali obiettivi e con quali forze portare avanti un'impresa “rivoluzionaria” capace di guardare oltre i confini della pura redistribuzione della ricchezza per aggredire il nodo del modo di produzione e intervenire nei rapporti di proprietà.
Il paradosso consiste nel fatto che alla crisi più profonda da cui il capitalismo sia stato attraversato nel corso della sua storia corrisponde, almeno in Occidente e massimamente in Italia, la frantumazione politica, culturale e organizzativa della sinistra, che fra una rimozione ed un'abiura ha mandato al macero un grande patrimonio di elaborazione ed un prezioso accumulo di esperienza politica, facendosi orba di un progetto e di una strategia
Si pone allora, o meglio, si ripropone – per l'autore – il tema di una sinistra che riacquisti la capacità di ricostruire nel lavoro (in tutto il mondo del lavoro) il proprio insediamento sociale e di ridefinire la propria strategia intorno ad un asse centrale: l'intervento della politica dentro i rapporti di produzione, per porre dei limiti alla proprietà privata, nel cuore del potere che orienta la produzione sociale e decide cosa si produce e per chi. E' la questione dell'autogoverno dei produttori associati, mai risolta nell'esperienza del socialismo realizzato e nell'intera storia dell'umanità.
Ebbene, Ciofi ritiene che la Costituzione repubblicana indichi (nei 14 articoli che compongono il suo titolo III, dedicato ai rapporti economico-sociali) una strada originale, un progetto riformatore in progress, non solo mai attuato, ma neppure compiutamente esplorato nelle sue intuizioni più feconde, ove esso «trasmette una visione indiscutibilmente pluralistica della proprietà dei mezzi di produzione e di comunicazione», stabilendo il primato dell'interesse sociale su quello privato, sino ad affermare che l'impresa privata «può essere espropriata per motivi di interesse generale». Nella possibilità di organizzare un nuovo tipo di impresa, indirizzandola al soddisfacimento dei bisogni collettivi «nell'equilibrio con l'ambiente naturale e nel rispetto della salute e dei diritti dei produttori», Ciofi intravede la possibilità di assegnare al valore d'uso la preminenza sul valore di scambio. Non, dunque, una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, ma un controllo sociale sui fini e sui destini della produzione, che abbandonata nei tentacoli del capitale genera disoccupazione, emarginazione, sfruttamento e distruzione cieca ed irreversibile dell'ambiente naturale. La sentenza è lapidaria: «Nella lunga transizione della Repubblica, le sinistre avevano nelle mani il progetto per cambiare l'Italia. Ma non l'hanno usato» preferendo, almeno in parte cospicua, «trovare riparo sotto l'ombrello della cultura d'impresa» e così favorendo una controffensiva della destra che ha diametralmente piallato, sino ai disastrosi esiti attuali, le organizzazioni del movimento operaio e la loro autonomia: «al culmine dell'esaltazione della proprietà privata – commenta Ciofi – la privatizzazione della politica segue il suo corso: non più spazio pubblico a disposizione dell'agire collettivo di grandi masse, ma bene di mercato commerciale e commerciabile per chi dispone della ricchezza».
Proprio da qui, invece, Ciofi ritiene sia necessario ripartire: dalla ricostruzione del partito politico di classe, oggi in larga parte convertitosi in strumento di potere a sostegno del leader. Se la critica di Ciofi non lascia scampo al Pd («una forza moderata e centrista»), non è certo indulgente con la «sinistra alternativista», oscillante verso schematizzazioni di vario tipo che hanno conseguito il non esaltante esito di spezzare il nesso tra il sociale e il politico, col risultato che «l'annunciata scelta di classe non ha portato con sé il consenso e la rappresentanza di classe».
Occorre dunque un soggetto politico che esplicitamente metta a tema l'obiettivo che la proprietà sia piegata ai principi di “utilità generale” e “funzione sociale”: «Se manca un soggetto politico che si proponga tali finalità, il disegno di un modello alternativo resta solo un castello in aria». Perché ciò possa avvenire serve anche una riforma democratica del partito, che Ciofi delinea così: «Al posto di signorsì in transito c'è bisogno di teste pensanti al servizio di una causa di liberazione, perché si tratta di organizzare una nuova lotta di liberazione. Senza gruppi dirigenti che siano sottoposti al giudizio e al controllo della base, il partito è un partito del leader, vale a dire un non-partito personale, che torna allo stato liquido di movimento e ha bisogno di una figura carismatica che lo padroneggi, o perché ne è letteralmente il padrone, o perché ne assume la leadership attraverso operazioni mediatico-plebiscitarie». altrui da parte di uomini che posseggono in esclusiva i mezzi di produzione. E' in questo «presupposto tacito» - penetrato come un mantra nel senso comune, quasi fosse una legge di natura - che risiede il genoma del capitale, l'uovo del serpente da estirpare. Da qui, insiste Ciofi, si deve immancabilmente procedere, «perché il pensiero neo-liberista prescinde totalmente dalla realtà dello sfruttamento e, dunque, dalle radici più profonde della disuguaglianza. Il plusvalore è all'altezza della sfida che è data. Il capolavoro del capitale – osserva Ciofi – la più grande opera di mistificazione di cui esso si è reso protagonista, quindi «la più alta forma della lotta di classe che esso ha scatenato è consistita proprio nel negare l'esistenza delle classi e dell'avversario di classe: spossessarlo della sua identità, della sua memoria, della sua organizzazione».
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