Il 18 marzo del 1871 il proletariato di
Parigi si solleva e dichiara la Comune. Un big bang da cui è nato oltre
un secolo di "lotta di classe cosciente" tra avversari costitutivamente
irriducibili: lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e la lotta per la sua
iiberazione.
141 anni appena, in cui è sucesso di tutto. L'ascesa del
movimento operaio e comunista, la Rivoluzione d'Ottobre, la lotta
vittoriosa al nazifascismo, le conquiste del movimento operaio a livello
globale.
Ma anche un trentennio di rovesci fin qui inarrestabili, che sembrano
riportare la ruota della Storia esattamente al punto di partenza. Per
questo l'anniversario dell'insurrezione di Parigi non è un omaggio
rituale, ma un invito alla riflessione coletiva. Non abbiamo bisogno di
gente che ci ripete formule prese dai libri e mai capite da chi le
pronuncia. Ci serve ri-vedere, con gli occhi e la mente svegli, dietro
il velo del senso comune e la cecità delle ricette ideologiche. Vedere
la realtà dei rapporti di classe e dei rapporti di forza. Vedere le vie
che portano alla costruzione del movimento e dei soggetti politici
adeguati ai tempi.
Il riportare qui i testi di Lenin e Marx dedicati alla Comune,
quindi, non hanno .significato liturgico. E' l'invito a leggerli
davvero, ascoltando il rumore del confitto in carne e ossa dietro un
racconto e un'analisi che, necessariamente, deve estrarre e astrarre
insiegnamenti dai fatti. Indicazioni per il fututo, insomma, non
celebrazioni del passato.
Lenin
In memoria della Comune
Quarantanni sono passati
dalla proclamazione della Comune di Parigi. Con comizi e manifestazioni
il proletariato francese ha commemorato, come d'uso, gli artefici della
rivoluzione del 18 marzo 1871. Negli ultimi giorni di maggio, esso andrà
nuovamente a deporre corone sulle tombe dei comunardi fucilati, vittime
dell'orribile «settimana di maggio» e a giurare ancora una volta di
combattere senza tregua fino al trionfo completo delle loro idee, fino
alla completa realizzazione dell'opera che ci hanno affidata.
Perché il proletariato, e
non solo il proletariato francese, ma di tutto il mondo, onora negli
artefici della Comune di Parigi i suoi precursori? Qual è l'eredità
della Comune?
La Comune nacque
spontaneamente. Nessuno l'aveva preparata coscientemente e
metodicamente. Una guerra disgraziata con la Germania, le sofferenze
dell'assedio, la disoccupazione del proletariato, la rovina della
piccola borghesia, l'indignazione delle masse contro le classi superiori
e contro le autorità, che avevano dato prova di assoluta inettitudine,
un fermento confuso nella classe operaia che malcontenta della propria
situazione, aspirava a. un nuovo regime sociale, la composizione
reazionaria dell'Assemblea nazionale, che suscitava timori per la sorte
della Repubblica: tutti questi fattori e molti altri concorsero a
spingere il popolo di Parigi alla rivoluzione del 18 marzo. Questa
rivoluzione fece passare improvvisamente il potere nelle mani della
guardia nazionale, della classe operaia e della piccola borghesia che si
era unita agli operai.
Fu un avvenimento senza
precedenti nella storia. Fino allora, il potere era stato sempre
generalmente nelle mani dei grandi proprietari fondiari e dei
capitalisti, cioè dei loro uomini di fiducia formanti il cosiddetto
governo. Dopo la rivoluzione del 18 marzo, dopo la fuga da Parigi del
governo del signor Thiers, delle sue truppe, della sua polizia e dei
suoi funzionari, il popolo rimase padrone della situazione e il potere
passò al proletariato. Ma, nella società attuale, il proletariato è
economicamente asservito al capitale, non può dominare politicamente
senza spezzare le catene che lo avvincono al capitale. Ecco perché il
movimento della Comune doveva inevitabilmente assumere un colore
socialista, tendere cioè all'abbattimento del dominio della borghesia,
del dominio del capitale, e alla demolizione delle basi stesse del regime sociale dell'epoca.
All'inizio, il movimento,
fu estremamente eterogeneo e confuso. Vi aderirono anche i patrioti con
la speranza che la Comune avrebbe ripreso la guerra contro i tedeschi e
l'avrebbe condotta a buon fine. Il movimento era anche sostenuto dai
piccoli commercianti minacciati da rovina se il pagamento delle cambiali
e degli affitti non fosse stato prorogato (ciò che il governo aveva
rifiutato di fare e che invece la Comune accordò). Infine, nei primi
tempi, il movimento ebbe, in parte, la simpatia dei repubblicani
borghesi i quali temevano che l'Assemblea nazionale reazionaria (i
«rurali», i rozzi e brutali grandi proprietari fondiari) restaurasse la
monarchia. Ma la funzione principale fu evidentemente assolta dagli
operai (soprattutto dagli artigiani di Parigi), fra i quali, durante gli
ultimi anni del secondo Impero, era stata svolta un'attiva propaganda
socialista, e molti appartenevano anche all'Internazionale.
Gli operai furono i soli a
restare fino alla fine fedeli alla Comune. I repubblicani borghesi e i
piccoli borghesi se ne staccarono presto; gli uni furono spaventati dal
carattere proletario, rivoluzionario e socialista del movimento, gli
altri si ritirarono quando videro il movimento destinato a una sicura
disfatta. Soltanto i proletari francesi sostennero senza paura e senza
stanchezza il loro governo
Combatterono e morirono per la sua difesa, cioè per la causa
dell'emancipazione della classe operaia, per un avvenire migliore di
tutti i lavoratori.
Abbandonata dai suoi
alleati della vigilia e priva di qualsiasi appoggio, la Comune era
destinata alla disfatta. Tutta la borghesia francese, tutti i grandi
proprietari fondiari, tutti gli uomini della Borsa, tutti i fabbricanti,
tutti i ladri grandi e piccoli, tutti gli sfruttatori, si unirono
contro di essa. Questa coalizione borghese, sostenuta da Bismarck (che
liberò 100.000 prigionieri di guerra francesi per sottomettere Parigi
rivoluzionaria), riuscì a sollevare i contadini ignoranti e la piccola
borghesia provinciale contro il proletariato di Parigi e a chiuderne la
metà in un cerchio di ferro (l'altra metà era bloccata dall'armata
tedesca). In qualche grande città della Francia (Marsiglia, Lione,
Saint-Etienne, Digione, ecc.) gli operai tentarono anch'essi di prendere
il potere, di proclamare la Comune e di correre in aiuto di Parigi, ma i
loro tentativi fallirono rapidamente. E Parigi che, prima, aveva levato
lo stendardo dell'insurrezione proletaria, ridotta alle sole sue forze,
si trovò votata alla catastrofe inevitabile.
Due condizioni, almeno,
sono necessarie perché una rivoluzione sociale possa trionfare: il
livello elevato delle forze produttive e la preparazione del
proletariato. Nel 1871, queste due condizioni mancavano. Il capitalismo
francese era ancora poco sviluppato, e la Francia era ancora un paese
prevalentemente piccolo-borghese (di artigiani, contadini, piccoli
commercianti, ecc.). D'altra parte, non esisteva un partito operaio, la
classe operaia non era né preparata né lungamente addestrata e, nella
sua massa, non aveva un'idea chiara dei suoi compiti e dei mezzi per
assolverli. Non esistevano né una buona organizzazione politica del
proletariato, né grandi sindacati, né associazioni cooperative...
Ma, soprattutto, la
Comune non ebbe il tempo, la libertà di orientarsi, e di dar principio
alla realizzazione del suo programma. Non aveva ancora potuto mettersi
all'opera, e già il governo che sedeva a Versailles, appoggiato da tutta
la borghesia, apriva le ostilità contro Parigi. La Comune dovette,
prima di tutto, pensare a difendersi. E fino ai suoi ultimi giorni, che
vanno dal 21 al 28 maggio, essa non ebbe il tempo di pensare seriamente
ad altro.
Del resto, malgrado le
condizioni cosi sfavorevoli, malgrado la brevità della sua esistenza, la
Comune riuscì a adottare qualche misura che caratterizza
sufficientemente il suo vero significato e i suoi scopi. Essa sostituì
l'esercito permanente, strumento cieco delle classi dominanti, con
l'armamento generale del popolo, proclamò la separazione della Chiesa
dallo Stato, soppresse il bilancio dei culti (cioè lo stipendio statale
ai preti), diede all'istruzione, pubblica un carattere puramente laico,
arrecando un grave, colpo ai gendarmi in sottana nera.
Nel campo puramente
sociale, essa potè far poco; ma questo poco dimostra con sufficiente
chiarezza il suo carattere di governo del popolo, di governo degli
operai. Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema
delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito;
infine, la Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le
officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro
proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della
produzione. Per accentuare il suo carattere realmente democratico e
proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi
funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario
normale degli operai e in nessun caso superare i 6000 franchi all'anno
(meno di 200 rubli al mese).
Tutte queste misure
dimostrano abbastanza chiaramente che la Comune costituiva un pericolo
mortale per il vecchio mondo fondato sull'asservimento e sullo
sfruttamento. Perciò, finché la bandiera rossa del proletariato
sventolava sul Palazzo comunale di Parigi, la borghesia non poteva
dormire sonni tranquilli. E quando, infine, le forze governative
organizzate riuscirono ad avere il sopravvento sulle forze male
organizzate della rivoluzione, i generali bonapartisti, sconfitti dai
tedeschi, ma valorosi contro i compatrioti vinti, questi Rennenkampf e
Möller-Zakomelski francesi compirono una carneficina quale Parigi non
aveva mai visto. Circa 30.000 parigini furono massacrati dalla
soldataglia scatenata, circa 45.000 furono arrestati; di questi ultimi
molti furono uccisi in seguito; a migliaia furono gettati in carcere e
deportati. In complesso, Parigi perde circa 100.000 dei suoi figli, e
fra essi i migliori operai di tutti i mestieri.
La borghesia era
soddisfatta. «Ora il socialismo è finito per molto tempo», diceva il suo
capo, il mostriciattolo sanguinario Thiers, dopo il bagno di sangue che
egli e i suoi generali avevano fatto subire al proletariato parigino.
Ma i corvi borghesi gracchiavano a torto. Sei anni circa dopo lo
schiacciamento della Comune, quando molti dei suoi combattenti gemevano
ancora nella galera e nell'esilio, il movimento operaio rinasceva in
Francia. La nuova generazione socialista, arricchita dall'esperienza dei
suoi predecessori, e per nulla scoraggiata per la loro sconfitta,
impugnava la bandiera caduta dalle mani dei combattenti della Comune e
la portava avanti con mano ferma e coraggiosa al grido di «Evviva la
rivoluzione sociale! Evviva la Comune!». Due-quattro anni più tardi il
nuovo partito operaio e l'agitazione che esso scatenava nel paese
obbligavano le classi dominanti a restituire la libertà ai comunardi
rimasti nelle mani del governo.
Il ricordo dei
combattenti della Comune è venerato non solo dagli operai francesi, ma
dal proletariato di tutti i paesi. Perché la Comune non combattè per una
causa puramente locale o strettamente nazionale, ma per l'emancipazione
di tutta l'umanità lavoratrice, di tutti i diseredati e di tutti gli
offesi. Combattente avanzata della rivoluzione sociale, la Comune si è
guadagnata le simpatie dovunque il proletariato soffre e combatte. Il
quadro della sua vita e della sua morte, la visione del governo operaio
che prese e conservò per oltre due mesi la capitale del mondo, lo
spettacolo della lotta eroica del proletariato e delle sue sofferenze
dopo la sconfitta, tutto questo ha rinvigorito il morale di milioni di
operai, ha risvegliato le loro speranze, ha conquistato le loro simpatie
al socialismo. Il rombo dei cannoni di Parigi ha svegliato dal sonno
profondo gli strati sociali più arretrati del proletariato e ha dato
ovunque nuovo impulso allo sviluppo della propaganda rivoluzionaria
socialista. Ecco perché l'opera della Comune non è morta; essa rivive in
ciascuno di noi.
La causa della Comune è
la causa della rivoluzione socialista, la causa dell'integrale
emancipazione politica ed economica dei lavoratori, è la causa del
proletariato mondiale. In questo senso essa è immortale.
Rabociaia Gazieta, n. 4-5, 15 (28) aprile 1911
da Lenin, Opere Complete, vol. 17, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 123-127
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