di Romina Velchi
Il nodo scorsoio si stringe sempre più attorno al collo del Pd. La
riforma del lavoro, con a corredo il boccone avvelenato della modifica
(leggi cancellazione) dell'articolo 18 rischia di diventare per il
partito di Bersani un vero Vietnam. Quello che, approfittando della
ghiotta occasione per sottrarre voti ai Democratici, promette Antonio Di
Pietro "in Parlamento e in piazza" per fermare il provvedimento del duo
Monti-Fornero.
Il Pd è nell'angolo, proprio mentre, al contrario, il Pdl può
permettersi il lusso di prendere le difese di Napolitano, il quale con
il suo intervento a favore dell'accordo ha suscitato molte polemiche
soprattutto a sinistra - da Cremaschi a Ferrero – e ancora insiste a
promuovere le mosse del governo (ieri ha detto che la riforma del
mercato del lavoro "non può essere identificata con la sola
modifica dell'articolo 18: per poter dare un giudizio bisogna vedere
il quadro di insieme" e che occorre "attenzione e misura da parte
tutti"). Tra il pressing del presidente della Repubblica e il no della
Cgil (che oltretutto adesso annuncia lo sciopero generale), i margini di
manovra per il partito di Bersani sono ridotti al minimo, al punto che
al Pd non resta che chiedere a Monti di tentare ancora l'intesa. Lo fa
il presidente dei deputati democratici, Dario Franceschini, secondo il
quale "di tutto il paese ha bisogno tranne che di un periodo di
tensioni" e dunque il premier farebbe bene a utilizzare le prossime ore
per "ricercare una sintesi sull'art.18", un ulteriore tentativo che "non
sarebbe un cedimento ma un atto di buonsenso". Lo fa la sua collega del
Senato, Anna Finocchiaro, la quale auspica "che il governo utilizzi le
prossime ore per ricercare il consenso più largo".
Così come al Pd non resta che sperare, almeno, che il governo, per
approvare la riforma, non ricorra a decreti e voti di fiducia. Lo chiede
esplicitamente Stefano Fassina: il parlamento, dice il responsabile
economia del partito, deve essere messo in condizione di esaminare il
nuovo assetto del mercato del lavoro; per questo Fassina "si augura" che
"la riforma del lavoro arrivi in Parlamento sotto forma di disegno di
legge". Un iter più lento e più lungo, ma che permetterebbe al Pd almeno
di tentare di ottenere qualche modifica, specie per quanto riguarda il
nodo dei licenziamenti per motivi economici (ieri si è svolta nella sede
del partito una riunione per cominciare a mettere a punto gli
emendamenti correttivi).
Sperano, auspicano, si augurano. Tutta qui l'opposizione del Pd. Ma
le contraddizioni sono lì dietro l'angolo, pronte ad esplodere. Per
esempio: come si comporteranno i democratici nei confronti dello
sciopero della Cgil? Replicheranno la magra figura della manifestazione
della Fiom alla quale non hanno partecipato perché erano invitati i
NoTav? Quale scusa inventeranno, stavolta, per chiamarsi fuori? E cosa
faranno "quando verrà calendarizzata al Senato la nostra mozione che
chiede di togliere l'art.18 dal tavolo delle trattative e chiederemo al
Pd di votare a favore" come annuncia Di Pietro? Ma soprattutto, qual è
il vero Pd: quello di Fassina che ieri sulla Stampa sosteneva che
"l'art.18 è stato svuotato, sembrava di sentire Sacconi" o quello di
Fioroni che dalle stesse colonne esultava: "Questa è una riforma seria e
noi dobbiamo appoggiarla"?
Che il momento per il Pd sia grave lo dimostra lo sfogo di Bersani,
colto nel Transatlantico (il lungo salone adiacente all'Aula) di
Montecitorio mentre con l'ex ministro Damiano esclama: "Non morirò
monetizzando il lavoro". E lo dimostrano i messaggi non esattamente di
complementi lasciati via web da militanti ed elettori inferociti, mentre
Rosy Bindi quasi ringhia: "Questo governo è sostenuto da diverse forze
politiche e può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze
che lo sostengono"; e auspica (anche lei) che "il Parlamento sia davvero
sovrano e possa modificare profondamente la riforma del lavoro".
Brucia, in particolare, l'evidente poco impegno del premier a ricercare
l'accordo anche con la Cgil, visto che "il mandato a Monti era di
chiudere con tutte parti sociali". Invece, niente.
Monti non può non sapere che se i democratici dovessero implodere,
anche per lui le cose potrebbero mettersi male, tanto più con le
elezioni amministrative alle porte. Ma evidentemente, lui guarda ai
mercati, di fronte ai quali i mal di pancia del Pd devono sembrargli ben
poca cosa. E stupisce che i democratici non l'abbiano capito. Resta che
anche il premier sta rischiando grosso. Casini, annusato il pericolo,
rinfocola il suo ruolo di mediatore e paciere: "La riforma del lavoro è
coraggiosa", dice il leader Udc, il maggior sostenitore di Monti, ma "il
Parlamento potrà migliorarla" (senza però "annacquarla"). Anche
Angeletti (Uil) avvisa che sull'art.18 il giudizio è condizionato alle
modifiche e che la fine dell'unità sindacale non è "definitiva". Come
dire che, se Monti pensa di portare a Bruxelles la riforma del lavoro
sventolando lo scalpo della Cgil, potrebbe avere brutte sorprese.
E' in questo clima che ora Monti deve decidere come muoversi. A
giudicare dalle parole di Napolitano ("Il governo decida la forma
legislativa, poi la parola passerà al Parlamento") il Quirinale avrebbe
consigliato al premier di non ricorrere al decreto, che significherebbe
andare allo scontro frontale con mezzo Parlamento. Una mossa di
"igiene", che oltretutto permetterebbe all'esecutivo di scavallare
l'insidioso appuntamento di primavera con le urne. In ogni caso, per il
Pd il problema è solo rinviato, perché c'è da dubitare che Monti
accetterà modifiche sostanziali.
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