A sinistra va di moda l’ideologia dell’«oltrismo». Ma se invece riprendessimo le teorie del filosofo di Treviri e di Keynes?
Pochi giorni fa è comparso, con ovvio rilievo di stampa, un appello
italo-tedesco ai rispettivi parlamenti nazionali perché questi
ratifichino nello stesso giorno, e comunque prima del Consiglio europeo
previsto per fine giugno, il cosiddetto fiscal compact, ossia il nuovo
accordo che, dopo il Six Pack e il Patto Euro Plus, intende inferire un
nuovo colpo al residuo brandello di sovranità nazionale sui bilanci in
favore di una «sovranazionalità» retta da organismi del tutto
a-democratici. Naturalmente, secondo i proponenti l’appello, tale
ratifica andrebbe accompagnata da una dichiarazione politica «per un
nuovo passo in avanti verso una forte Unione politica con un governo
federale», ma si capisce che si tratta del fumo che accompagna
l’arrosto, visto che lo sciagurato patto rimarrebbe tale e addirittura
rafforzato, alla faccia dello stesso Hollande che ha dichiarato
l’intenzione, una volta vinte le elezioni francesi, di rinegoziarlo. Il
che comporta anche un ulteriore sostegno alla maggioranza bulgara che
sta approvando a tappe forzate la revisione dell’articolo 81 della
nostra Costituzione per introdurvi l’obbligo del pareggio di bilancio,
in modo tale da precludere anche un referendum confermativo.
L’appello in questione è firmato da eminenti personalità, alcune delle quali fanno parte del milieu della sinistra con ambizioni radicali. La giustificazione fornita è che non si può rinchiudersi in una nicchia di opposizione, che bisogna «scendere in campo», che si tratterebbe quindi di stabilire una nuova tappa nella costruzione dell’Europa da aggiustare poi in seguito. Argomentazioni infantili, potremmo dire, se non provenissero da persone assai avvertite e politicamente esperte. Bisogna quindi interrogarsi sulle ragioni che ci hanno condotto sino a questo punto. Perché siamo tornati indietro alla destra hegeliana, per cui tutto il reale (banalmente equiparato all’esistente) appare razionale? Perché si è interiorizzato un principio in virtù del quale ogni atteggiamento oppositivo è in partenza considerato di nicchia nel migliore dei casi, suicida nella maggioranza dei medesimi?
Sono domande che non dovrebbero lasciare nessuno indifferente, poiché sono rivolte in primo luogo a noi stessi. Potremmo anche riformularle nel modo seguente: perché la «società civile» europea, pur umiliata, taglieggiata, impoverita e deprivata di un futuro credibile, rimane – al di là di rilevanti e meritori sussulti, come quello greco – sostanzialmente passiva di fronte a quella che, col suo consueto aplomb, Mario Draghi ha definito la «fine del modello sociale europeo»? E perché anche i migliori intellettuali, che pure – come Ulrich Beck, tra i firmatari del citato appello – sono stati in passato tra i cantori di questo modello, si accodano ora, come in un nuovo tradimento dei chierici, al suo funerale?
Non crediamo ce la si possa cavare con risposte che pure facciano riferimento a una corretta contestualizzazione storica, né osservando che il neoliberismo, ideologia portante e inverata del moderno capitalismo, ha subito una vera e propria falsificazione. Se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa e in Europa – e, mutatis mutandis, in Cina – lo Stato è intervenuto a piene mani nell’economia finanziaria e in quella produttiva. Sta di fatto che neppure di tale protagonismo del «pubblico» la sinistra ha saputo avvantaggiarsi. E rispondere che la ragione di ciò sta nella sua estinzione come pensiero politico autonomo sarebbe accontentarsi di tautologia, benché purtroppo vera.
Se questo è vero, allora il problema è prima di tutto culturale – o, se vogliamo, ideologico. L’inazione e la passività dei corpi sociali dipendono dal fatto che questa crisi è letta, quindi subita, come la conseguenza di comportamenti errati: come la punizione per presunti errori commessi. Ed è con ciò giustificata. Per questa ragione – crediamo – si tende a non reagire: si mugugna, tutt’al più si eccepisce su aspetti marginali (bisognerebbe far pagare di più questo piuttosto che quello), ma non ci si contrappone in radice allo schema interpretativo (il «debito», lo sbilancio tra bisogni sociali e risorse disponibili) che, nella rappresentazione diffusa da politici e media, legittima le misure draconiane imposte al grosso dei corpi sociali, cioè al lavoro dipendente.
Quello che così scompare del tutto è la consapevolezza della causa immediata della crisi, che risiede proprio in uno dei pilastri del neoliberismo: la contrazione delle retribuzioni. Il detonatore è stato il debito privato, non certo quello pubblico. Quest’ultimo è giunto solo attraverso la “pubblicizzazione” del primo, cioè con l’aiuto al sistema bancario da parte degli Stati. Ma la diffusione capillare dell’indebitamento, nonché la presenza attiva dei fondi pensione – cui tanti lavoratori avevano affidato la sicurezza del loro futuro – sui mercati finanziari, ha congiunto interessi collettivi e individuali alla sorte di questi ultimi. Questo non solo ha reso in fondo desiderabile anche a livello di massa che gli istituti bancari venissero salvati dal denaro pubblico, malgrado il loro comportamento spesso delinquenziale, ma anche che il debito privato accumulato venisse percepito dalle singole persone come una colpa derivante da un eccesso dei propri desideri rispetto alle proprie possibilità. Quando dalla crisi del debito privato si è passati a quella del debito pubblico – il che è ciò che contraddistingue l’attuale fase soprattutto in un’Europa renitente politiche anticicliche – quel senso di colpa si è dilatato, introiettando la convinzione che interi popoli e nazioni fossero «vissuti al di sopra dei propri mezzi». Il tutto nel bel mezzo di una sovrapproduzione di merci tradizionali. I sacrifici diventerebbero quindi la penitenza per gli eccessi passati. E il pareggio di bilancio la medicina salvifica pronta a prevenire prima ancora che curare.
Un capolavoro ideologico, non c’è che dire, fondato su una fitta rete di cointeressenze materiali radicate e diffuse ma conseguente anche alla subalternità della sinistra moderata (così, del resto, sono state giustificate tutte le «riforme» pensionistiche) e – riconosciamolo – all’inadeguatezza culturale e politica della cosiddetta sinistra “radicale”, rivelatasi incapace di contrastare, nel senso comune, la prospettiva egemone. Non potendo far credere che sia la scarsità di risorse a rendere necessarie le sacrificali politiche di rigore, le classi dominanti si sono con successo adoperate per fare discendere i sacrifici dall’eccesso di opulenza. C’è di più. Per riproporsi, il neoliberismo aveva bisogno di un lavacro purificatore. La sua contaminazione con lo Stato ne aveva compromesso l’immagine in modo preoccupante. Bisognava chiarire che l’intervento statuale era solo transitorio e che comunque veniva limitato alla salvezza degli istituti finanziari, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento dell’economia reale. Per fare ciò erano e sono necessarie due grandi operazioni.
La prima si muove più su un terreno ideologico e consiste nel rilancio in grande stile della polemica contro le dottrine di John Maynard Keynes, individuato dagli attuali protagonisti e interpreti del sistema capitalista mondiale come un pericolo addirittura peggiore del ritorno a Marx, poiché considerato, a differenza di quest’ultimo, prossimo e interno al sistema. Il disarmo culturale prima che politico della sinistra ha lasciato spazio a sciocchezze di questo genere, facendo persino dimenticare che a spalancare le porte al nazismo non fu la grande inflazione dei tempi di Weimar – domata già alla metà degli anni Venti – bensì la sciagurata politica deflazionistica del «cancelliere della fame» Heinrich Brüning.
La seconda operazione cui il neoliberismo affida il proprio rilancio riguarda la capacità del soggetto impresa di fornire una ricetta per uscire dalla crisi. Il marchionnismo è niente altro che questo. Il tentativo di rilanciare la competizione e la catena del profitto al di là e indipendentemente dalle politiche statuali, quando non contro di esse. Per questo non solo Marchionne rivendica un nuovo carattere “apolide” per la Fiat, ma vuole imporre un sistema di relazioni e di regole specifico del gruppo tale da prescindere dai quadri legislativi nei vari paesi in cui opera. A questo scopo servono autorità sovranazionali che si preoccupino della stabilità monetaria e del rigore di bilancio, lasciando tutto il resto all’impresa. Questo è il senso della attuale governance europea e del suo ultimo prodotto, il fiscal compact.
Si sente spesso dire, anche nel campo della sinistra “radicale”, che bisogna andare «oltre Keynes», visto che al tempo suo questioni oggi cruciali e corresponsabili della crisi, come il disastro ambientale, non occupavano la scena con l’attuale ineludibile centralità. Il guaio è che questo oltrismo ha la stessa vaghezza di quello che, ancora più tempo addietro, predicava la necessità di andare «oltre Marx». Allora, piuttosto che evocare improbabili orizzonti salvifici, varrebbe forse la pena di rimettere i piedi per terra e di tornare a declinare il ragionamento critico incentrato sulla potenza distruttiva di un modello sociale che impedisce l’impiego delle forze produttive sociali (oggi virtualmente sufficienti a garantire all’umanità intera adeguati standard di vita) se (nella misura in cui) esso non comporta la remunerazione del capitale privato. Insomma, se, invece di precipitarsi «oltre», si tornasse intanto a Marx e a Keynes, tentando anche inedite e fertili contaminazioni, forse si opererebbe utilmente per la ricostruzione di un pensiero di sinistra.
L’appello in questione è firmato da eminenti personalità, alcune delle quali fanno parte del milieu della sinistra con ambizioni radicali. La giustificazione fornita è che non si può rinchiudersi in una nicchia di opposizione, che bisogna «scendere in campo», che si tratterebbe quindi di stabilire una nuova tappa nella costruzione dell’Europa da aggiustare poi in seguito. Argomentazioni infantili, potremmo dire, se non provenissero da persone assai avvertite e politicamente esperte. Bisogna quindi interrogarsi sulle ragioni che ci hanno condotto sino a questo punto. Perché siamo tornati indietro alla destra hegeliana, per cui tutto il reale (banalmente equiparato all’esistente) appare razionale? Perché si è interiorizzato un principio in virtù del quale ogni atteggiamento oppositivo è in partenza considerato di nicchia nel migliore dei casi, suicida nella maggioranza dei medesimi?
Sono domande che non dovrebbero lasciare nessuno indifferente, poiché sono rivolte in primo luogo a noi stessi. Potremmo anche riformularle nel modo seguente: perché la «società civile» europea, pur umiliata, taglieggiata, impoverita e deprivata di un futuro credibile, rimane – al di là di rilevanti e meritori sussulti, come quello greco – sostanzialmente passiva di fronte a quella che, col suo consueto aplomb, Mario Draghi ha definito la «fine del modello sociale europeo»? E perché anche i migliori intellettuali, che pure – come Ulrich Beck, tra i firmatari del citato appello – sono stati in passato tra i cantori di questo modello, si accodano ora, come in un nuovo tradimento dei chierici, al suo funerale?
Non crediamo ce la si possa cavare con risposte che pure facciano riferimento a una corretta contestualizzazione storica, né osservando che il neoliberismo, ideologia portante e inverata del moderno capitalismo, ha subito una vera e propria falsificazione. Se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa e in Europa – e, mutatis mutandis, in Cina – lo Stato è intervenuto a piene mani nell’economia finanziaria e in quella produttiva. Sta di fatto che neppure di tale protagonismo del «pubblico» la sinistra ha saputo avvantaggiarsi. E rispondere che la ragione di ciò sta nella sua estinzione come pensiero politico autonomo sarebbe accontentarsi di tautologia, benché purtroppo vera.
Se questo è vero, allora il problema è prima di tutto culturale – o, se vogliamo, ideologico. L’inazione e la passività dei corpi sociali dipendono dal fatto che questa crisi è letta, quindi subita, come la conseguenza di comportamenti errati: come la punizione per presunti errori commessi. Ed è con ciò giustificata. Per questa ragione – crediamo – si tende a non reagire: si mugugna, tutt’al più si eccepisce su aspetti marginali (bisognerebbe far pagare di più questo piuttosto che quello), ma non ci si contrappone in radice allo schema interpretativo (il «debito», lo sbilancio tra bisogni sociali e risorse disponibili) che, nella rappresentazione diffusa da politici e media, legittima le misure draconiane imposte al grosso dei corpi sociali, cioè al lavoro dipendente.
Quello che così scompare del tutto è la consapevolezza della causa immediata della crisi, che risiede proprio in uno dei pilastri del neoliberismo: la contrazione delle retribuzioni. Il detonatore è stato il debito privato, non certo quello pubblico. Quest’ultimo è giunto solo attraverso la “pubblicizzazione” del primo, cioè con l’aiuto al sistema bancario da parte degli Stati. Ma la diffusione capillare dell’indebitamento, nonché la presenza attiva dei fondi pensione – cui tanti lavoratori avevano affidato la sicurezza del loro futuro – sui mercati finanziari, ha congiunto interessi collettivi e individuali alla sorte di questi ultimi. Questo non solo ha reso in fondo desiderabile anche a livello di massa che gli istituti bancari venissero salvati dal denaro pubblico, malgrado il loro comportamento spesso delinquenziale, ma anche che il debito privato accumulato venisse percepito dalle singole persone come una colpa derivante da un eccesso dei propri desideri rispetto alle proprie possibilità. Quando dalla crisi del debito privato si è passati a quella del debito pubblico – il che è ciò che contraddistingue l’attuale fase soprattutto in un’Europa renitente politiche anticicliche – quel senso di colpa si è dilatato, introiettando la convinzione che interi popoli e nazioni fossero «vissuti al di sopra dei propri mezzi». Il tutto nel bel mezzo di una sovrapproduzione di merci tradizionali. I sacrifici diventerebbero quindi la penitenza per gli eccessi passati. E il pareggio di bilancio la medicina salvifica pronta a prevenire prima ancora che curare.
Un capolavoro ideologico, non c’è che dire, fondato su una fitta rete di cointeressenze materiali radicate e diffuse ma conseguente anche alla subalternità della sinistra moderata (così, del resto, sono state giustificate tutte le «riforme» pensionistiche) e – riconosciamolo – all’inadeguatezza culturale e politica della cosiddetta sinistra “radicale”, rivelatasi incapace di contrastare, nel senso comune, la prospettiva egemone. Non potendo far credere che sia la scarsità di risorse a rendere necessarie le sacrificali politiche di rigore, le classi dominanti si sono con successo adoperate per fare discendere i sacrifici dall’eccesso di opulenza. C’è di più. Per riproporsi, il neoliberismo aveva bisogno di un lavacro purificatore. La sua contaminazione con lo Stato ne aveva compromesso l’immagine in modo preoccupante. Bisognava chiarire che l’intervento statuale era solo transitorio e che comunque veniva limitato alla salvezza degli istituti finanziari, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento dell’economia reale. Per fare ciò erano e sono necessarie due grandi operazioni.
La prima si muove più su un terreno ideologico e consiste nel rilancio in grande stile della polemica contro le dottrine di John Maynard Keynes, individuato dagli attuali protagonisti e interpreti del sistema capitalista mondiale come un pericolo addirittura peggiore del ritorno a Marx, poiché considerato, a differenza di quest’ultimo, prossimo e interno al sistema. Il disarmo culturale prima che politico della sinistra ha lasciato spazio a sciocchezze di questo genere, facendo persino dimenticare che a spalancare le porte al nazismo non fu la grande inflazione dei tempi di Weimar – domata già alla metà degli anni Venti – bensì la sciagurata politica deflazionistica del «cancelliere della fame» Heinrich Brüning.
La seconda operazione cui il neoliberismo affida il proprio rilancio riguarda la capacità del soggetto impresa di fornire una ricetta per uscire dalla crisi. Il marchionnismo è niente altro che questo. Il tentativo di rilanciare la competizione e la catena del profitto al di là e indipendentemente dalle politiche statuali, quando non contro di esse. Per questo non solo Marchionne rivendica un nuovo carattere “apolide” per la Fiat, ma vuole imporre un sistema di relazioni e di regole specifico del gruppo tale da prescindere dai quadri legislativi nei vari paesi in cui opera. A questo scopo servono autorità sovranazionali che si preoccupino della stabilità monetaria e del rigore di bilancio, lasciando tutto il resto all’impresa. Questo è il senso della attuale governance europea e del suo ultimo prodotto, il fiscal compact.
Si sente spesso dire, anche nel campo della sinistra “radicale”, che bisogna andare «oltre Keynes», visto che al tempo suo questioni oggi cruciali e corresponsabili della crisi, come il disastro ambientale, non occupavano la scena con l’attuale ineludibile centralità. Il guaio è che questo oltrismo ha la stessa vaghezza di quello che, ancora più tempo addietro, predicava la necessità di andare «oltre Marx». Allora, piuttosto che evocare improbabili orizzonti salvifici, varrebbe forse la pena di rimettere i piedi per terra e di tornare a declinare il ragionamento critico incentrato sulla potenza distruttiva di un modello sociale che impedisce l’impiego delle forze produttive sociali (oggi virtualmente sufficienti a garantire all’umanità intera adeguati standard di vita) se (nella misura in cui) esso non comporta la remunerazione del capitale privato. Insomma, se, invece di precipitarsi «oltre», si tornasse intanto a Marx e a Keynes, tentando anche inedite e fertili contaminazioni, forse si opererebbe utilmente per la ricostruzione di un pensiero di sinistra.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua