di Fabio Sabatini
L’attacco all’articolo 18 da parte di un governo sostenuto dal Pd
promette di porre fine alla lenta agonia di un partito che non ha più
ragione di esistere. Ecco, forse questo è l’aspetto più apprezzabile
della proposta presentata ieri da Monti e Fornero.
Allo stato attuale, la riforma del mercato del lavoro disegnata dal
governo comporta uno schiacciamento della forza contrattuale dei
lavoratori dipendenti e lascia sostanzialmente inalterato il potere
delle imprese e dei lavoratori autonomi. Che sono i veri vincitori di
questa prima stagione politica del governo Monti, nato e vissuto finora
con l’appoggio a tratti entusiastico del Partito Democratico.
È una situazione paradossale. Con il crollo del Pdl, il
centrosinistra oggi è maggioranza relativa nel Paese, e vincerebbe le
elezioni. Se volesse, Bersani potrebbe ribaltare il tavolo. Impedire al
governo di cambiare l’articolo 18 oppure, meglio, presentare una
proposta alternativa di riforma del mercato del lavoro.
Il leader del Pd potrebbe affermare che non è possibile cancellare
la più importante forma di tutela del lavoro dipendente se
contemporaneamente non si ridimensionano i privilegi delle categorie
sociali antagoniste. Se non si svuotano di ogni potere monopolistico gli
ordini e le associazioni professionali, se non si argina la prepotenza
di Confindustria e se non diventa possibile licenziare per motivi
economici anche i manager delle grandi imprese. Se non si elimina una
volta per tutte la miriade di forme contrattuali che oggi consentono ai
datori di lavoro di praticare le più becere forme di sfruttamento dei
propri dipendenti. Se non si istituisce uno schema organico di
assicurazione pubblica contro la disoccupazione corredato da interventi
efficaci a sostegno della formazione professionale e del ricollocamento
in posizioni dignitose, perché i lavoratori, anche i più svantaggiati,
siano messi in condizione di maturare la capacità, gli incentivi e la
possibilità materiale di adattarsi ai cambiamenti della domanda di
lavoro.
Una controriforma con tali contenuti avrebbe dovuto essere già
pronta nel cassetto di Bersani, specie in un momento tanto favorevole
dal punto di vista elettorale (negli ultimi due decenni il
centrosinistra non è mai stato così avanti nei sondaggi).
Oggi invece il Pd sta perdendo una occasione storica, probabilmente
l’ultima, per guidare il cambiamento del paese e porre le basi di una
nuova stagione politica che, dopo venti anni di dominio del peggior
centrodestra del mondo occidentale, avrebbe potuto ripristinare un
briciolo di equità sociale in Italia.
Per Bersani sarebbe stato una sorta di match point. Non ci state?
Bene, costruiamo una alleanza con tutte le forze di centrosinistra che
condividono il nostro programma, scegliamo con le primarie di coalizione
il candidato premier, vinciamo le elezioni e realizziamo il nostro
progetto dai banchi del governo.
Un sogno. Il segretario continua a traccheggiare immerso in un brodo
di “se” e di “ma”, tentando di mettere d’accordo un partito
sostanzialmente diviso tra montiani entusiasti, montiani tiepidi, non
montiani e anti-montiani. Sul sito del Pd stamattina l’apertura era
dedicata all’ennesimo comunicato vuoto e scialbo, che riporto per intero
perché a suo modo esemplare: “Credo che il governo abbia tutti gli
elementi per capire le distanze da colmare e trovare i possibili punti
di caduta. Spero che vada bene, che si trovi un punto di sintesi. E come
sempre nei momenti difficili, l’Italia riesce a costruire la coesione
sociale che mette il Paese sulla strada della fiducia per me questo è il
messaggio che deve arrivare al mondo”.
Insomma non ha detto niente. Il leader del primo partito di
centrosinistra italiano sembra inerme di fronte al più significativo
indebolimento dei diritti dei lavoratori mai realizzato nel dopoguerra.
L’immagine più incisiva di Bersani che le cronache ci hanno regalato in
questi giorni rimane il sorriso un po’ imbarazzato e di circostanza con
cui è stato ritratto nella foto a casa Monti postata da Casini su
Twitter, della serie: “sono qui ma anche lì, vedremo, ragazzi, non
mettetemi in mezzo” (come lo ha felicemente descritto Alessandro Gilioli
sul suo blog).
Il Pd non è il partito dei lavoratori, questo era chiaro da un
pezzo. È una scelta legittima, ci mancherebbe, ognuno è libero di
adottare la linea politica che più gli è congeniale. Né del resto è il
partito dei padroni, i cui interessi sono ben più efficacemente tutelati
altrove. L’unica categoria sociale fedelmente rappresentata dal Pd oggi
sono i dirigenti del Pd, che dettano la linea ignorando, a volte
smaccatamente, le aspirazioni dei loro elettori.
Un partito del genere le prossime elezioni non può che perderle.
Anche perché il lavoro non è certo l’unico tema su cui il Pd difetta di
una posizione ufficiale. Basti pensare ai diritti civili degli
omosessuali, su cui nessuno ha corretto la posizione nauseante espressa
da Rosy Bindi qualche giorno fa, o al conflitto di interessi, che sembra
diventato addirittura un tabù.
Nel frattempo Berlusconi si prepara a incassare. E ci riuscirà
senz’altro, visto che il suo potere mediatico ed economico è intatto, e
la sua strategia politica è per ora ben più accorta e lungimirante di
quella del centrosinistra. L’ex premier sa che oggi non ci sono le
condizioni per tornare al governo in prima persona. Quindi l’unica
strada per rimanere al potere è allearsi col governo in carica, sommando
quanto resta dei propri consensi con quelli di una ipotetica forza
centrista guidata da Monti o da altri esponenti dell’esecutivo (un 20-25
per cento, secondo i sondaggi). Tale alleanza avrebbe l’appoggio
incondizionato dell’impero mediatico di famiglia, e darebbe in cambio le
consuete garanzie sul piano giudiziario e della tutela di Mediaset e
delle sue consorelle.
Contro questo centrosinistra, la vittoria sarebbe assicurata. Il Pd
subirebbe l’ennesimo, decisivo, ridimensionamento, e l’Italia rimarrebbe
ancora, forse definitivamente, impantanata nel conflitto di interessi
che ha paralizzato l’economia e la società negli ultimi venti anni.
Fonte: micromega - Da controlacrisi.org
Articolo18. Divaricazioni a cielo aperto nel Pd
22/03/2012 - 11:03
di Sergio Cararo
Alla fine è sbottato anche Bersani. Il Pd rischia di spaccarsi in
Parlamento sull'art.18? Difficile ma al momento le posizioni interne non
coincidono del tutto. Monti e Napolitano si sono presi il tempo
necessario per “cucinare” le eventuali opposizioni e presentare un
piatto indigerible senza troppe rotture.
“Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro” si è
sfogato oggi il leader Pd, consapevole che sull'art.18 si gioca anche
la tenuta del partito - diviso tra chi è orientato a votare no al diktat
di Monti e chi non mette in discussione il sostegno al governo. La
tensione tra una parte del Pd, più sensibile alle proteste degli
elettori di sinistra, e il governo sembra raggiungere livelli di
guardia. Per Rosy Bindi “Questo governo può andare avanti se rispetta la
dignità di tutte le forze che lo sostengono”. Il no al governo Monti
sulla riforma del lavoro è una parola al momento ancora indicibile ma
dentro il Pd le aree dei lettiani e dei veltroniani temono che Bersani
possa mettersi di traverso se la riforma in Parlamento non verrà
modificata e cominciano a pensare ad una rottura del Pd stesso.
“Ci sono parti positive quando si parla di riduzione della
flessibilità in entrata, tuttavia c'è il punto caldo dell'articolo 18
che non va bene perchè è profondamente sbagliato aumentare la
possibilità di licenziamento per motivi economici” commenta oggi il
dirigente del Pd (ed ex sindacalista Cgil) Cesare Damiano, il quale
aggiunge “Io non so se il Pd rischia di spaccarsi, dico solo che non
prendiamo a scatola chiusa quello che decide il governo. Noi lavoreremo
per trovare un punto d'incontro comune dentro al partito», conclude
Damiano. “Quando Monti in conferenza stampa ha parlato di accordo di
tutti, tranne che della Cgil, mi è parso di risentire Sacconi” è il
giudizio di Stefano Fassina del Pd in un'intervista a Repubblica “il Pd
sarà in prima linea per cercare di modificare la riforma in Parlamento,
valuterà autonomamente nel merito e proporremo i nostri emendamenti”.
Se quelle segnalate sopra sono le valutazioni di esponenti del Pd
scettici o contrari al diktat del governo Monti sull'art.18, c'è
un'altra parte del Pd che suona una musica completamente
differente.”Lavoreremo ancora, fino alla fine, per soluzioni più
condivise ma il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può
essere in discussione” afferma ad esempio il vicesegretario del Pd
Enrico Letta in merito alla trattativa sulla riforma del mercato del
lavoro. Ed ancora “se il governo presenterà un testo conforme ai
principi finora largamente condivisi, il Pd non potrà che sostenerlo”
sostiene un altro dirigente del Pd come Beppe Fioroni a Repubblica.
L'esponente del Pd giudica positivamente la trattativa sulla riforma del
lavoro. Non poteva mancare il commento positivo di uno dei mandanti
politici e intellettuali dell'abolizione dell'art.18 “Vivere questo
progetto di riforma dell'articolo 18 come una medicina amara e indigesta
da ingerire con il naso tappato da parte del Pd a me sembra molto fuori
luogo” ha detto il senatore Pietro Ichino questa mattina ai microfoni
di Rcf. Secondo il giuslavorista “è necessario combattere
prioritariamente una battaglia contro il dualismo del mercato tra
protetti e non protetti. Questa battaglia – ha comentato Pietro Ichino -
è il cuore di questo progetto del governo Monti che attinge in larga
parte a materiale programmatico elaborato in questi anni all'interno del
Pd”.
Fonte: contropiano.org
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua