giovedì 22 marzo 2012

Lavoro, la fine del Pd

di Fabio Sabatini
L’attacco all’articolo 18 da parte di un governo sostenuto dal Pd promette di porre fine alla lenta agonia di un partito che non ha più ragione di esistere. Ecco, forse questo è l’aspetto più apprezzabile della proposta presentata ieri da Monti e Fornero.
Allo stato attuale, la riforma del mercato del lavoro disegnata dal governo comporta uno schiacciamento della forza contrattuale dei lavoratori dipendenti e lascia sostanzialmente inalterato il potere delle imprese e dei lavoratori autonomi. Che sono i veri vincitori di questa prima stagione politica del governo Monti, nato e vissuto finora con l’appoggio a tratti entusiastico del Partito Democratico.
È una situazione paradossale. Con il crollo del Pdl, il centrosinistra oggi è maggioranza relativa nel Paese, e vincerebbe le elezioni. Se volesse, Bersani potrebbe ribaltare il tavolo. Impedire al governo di cambiare l’articolo 18 oppure, meglio, presentare una proposta alternativa di riforma del mercato del lavoro.
Il leader del Pd potrebbe affermare che non è possibile cancellare la più importante forma di tutela del lavoro dipendente se contemporaneamente non si ridimensionano i privilegi delle categorie sociali antagoniste. Se non si svuotano di ogni potere monopolistico gli ordini e le associazioni professionali, se non si argina la prepotenza di Confindustria e se non diventa possibile licenziare per motivi economici anche i manager delle grandi imprese. Se non si elimina una volta per tutte la miriade di forme contrattuali che oggi consentono ai datori di lavoro di praticare le più becere forme di sfruttamento dei propri dipendenti. Se non si istituisce uno schema organico di assicurazione pubblica contro la disoccupazione corredato da interventi efficaci a sostegno della formazione professionale e del ricollocamento in posizioni dignitose, perché i lavoratori, anche i più svantaggiati, siano messi in condizione di maturare la capacità, gli incentivi e la possibilità materiale di adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro.
Una controriforma con tali contenuti avrebbe dovuto essere già pronta nel cassetto di Bersani, specie in un momento tanto favorevole dal punto di vista elettorale (negli ultimi due decenni il centrosinistra non è mai stato così avanti nei sondaggi).
Oggi invece il Pd sta perdendo una occasione storica, probabilmente l’ultima, per guidare il cambiamento del paese e porre le basi di una nuova stagione politica che, dopo venti anni di dominio del peggior centrodestra del mondo occidentale, avrebbe potuto ripristinare un briciolo di equità sociale in Italia.
Per Bersani sarebbe stato una sorta di match point. Non ci state? Bene, costruiamo una alleanza con tutte le forze di centrosinistra che condividono il nostro programma, scegliamo con le primarie di coalizione il candidato premier, vinciamo le elezioni e realizziamo il nostro progetto dai banchi del governo.
Un sogno. Il segretario continua a traccheggiare immerso in un brodo di “se” e di “ma”, tentando di mettere d’accordo un partito sostanzialmente diviso tra montiani entusiasti, montiani tiepidi, non montiani e anti-montiani. Sul sito del Pd stamattina l’apertura era dedicata all’ennesimo comunicato vuoto e scialbo, che riporto per intero perché a suo modo esemplare: “Credo che il governo abbia tutti gli elementi per capire le distanze da colmare e trovare i possibili punti di caduta. Spero che vada bene, che si trovi un punto di sintesi. E come sempre nei momenti difficili, l’Italia riesce a costruire la coesione sociale che mette il Paese sulla strada della fiducia per me questo è il messaggio che deve arrivare al mondo”.
Insomma non ha detto niente. Il leader del primo partito di centrosinistra italiano sembra inerme di fronte al più significativo indebolimento dei diritti dei lavoratori mai realizzato nel dopoguerra. L’immagine più incisiva di Bersani che le cronache ci hanno regalato in questi giorni rimane il sorriso un po’ imbarazzato e di circostanza con cui è stato ritratto nella foto a casa Monti postata da Casini su Twitter, della serie: “sono qui ma anche lì, vedremo, ragazzi, non mettetemi in mezzo” (come lo ha felicemente descritto Alessandro Gilioli sul suo blog).
Il Pd non è il partito dei lavoratori, questo era chiaro da un pezzo. È una scelta legittima, ci mancherebbe, ognuno è libero di adottare la linea politica che più gli è congeniale. Né del resto è il partito dei padroni, i cui interessi sono ben più efficacemente tutelati altrove. L’unica categoria sociale fedelmente rappresentata dal Pd oggi sono i dirigenti del Pd, che dettano la linea ignorando, a volte smaccatamente, le aspirazioni dei loro elettori.
Un partito del genere le prossime elezioni non può che perderle. Anche perché il lavoro non è certo l’unico tema su cui il Pd difetta di una posizione ufficiale. Basti pensare ai diritti civili degli omosessuali, su cui nessuno ha corretto la posizione nauseante espressa da Rosy Bindi qualche giorno fa, o al conflitto di interessi, che sembra diventato addirittura un tabù.
Nel frattempo Berlusconi si prepara a incassare. E ci riuscirà senz’altro, visto che il suo potere mediatico ed economico è intatto, e la sua strategia politica è per ora ben più accorta e lungimirante di quella del centrosinistra. L’ex premier sa che oggi non ci sono le condizioni per tornare al governo in prima persona. Quindi l’unica strada per rimanere al potere è allearsi col governo in carica, sommando quanto resta dei propri consensi con quelli di una ipotetica forza centrista guidata da Monti o da altri esponenti dell’esecutivo (un 20-25 per cento, secondo i sondaggi). Tale alleanza avrebbe l’appoggio incondizionato dell’impero mediatico di famiglia, e darebbe in cambio le consuete garanzie sul piano giudiziario e della tutela di Mediaset e delle sue consorelle.
Contro questo centrosinistra, la vittoria sarebbe assicurata. Il Pd subirebbe l’ennesimo, decisivo, ridimensionamento, e l’Italia rimarrebbe ancora, forse definitivamente, impantanata nel conflitto di interessi che ha paralizzato l’economia e la società negli ultimi venti anni.
Fonte: micromega - Da controlacrisi.org

Articolo18. Divaricazioni a cielo aperto nel Pd

22/03/2012 - 11:03
di Sergio Cararo
Alla fine è sbottato anche Bersani. Il Pd rischia di spaccarsi in Parlamento sull'art.18? Difficile ma al momento le posizioni interne non coincidono del tutto. Monti e Napolitano si sono presi il tempo necessario per “cucinare” le eventuali opposizioni e presentare un piatto indigerible senza troppe rotture.
“Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro” si è sfogato oggi il leader Pd, consapevole che sull'art.18 si gioca anche la tenuta del partito - diviso tra chi è orientato a votare no al diktat di Monti e chi non mette in discussione il sostegno al governo. La tensione tra una parte del Pd, più sensibile alle proteste degli elettori di sinistra, e il governo sembra raggiungere livelli di guardia. Per Rosy Bindi “Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono”. Il no al governo Monti sulla riforma del lavoro è una parola al momento ancora indicibile ma dentro il Pd le aree dei lettiani e dei veltroniani temono che Bersani possa mettersi di traverso se la riforma in Parlamento non verrà modificata e cominciano a pensare ad una rottura del Pd stesso.
“Ci sono parti positive quando si parla di riduzione della flessibilità in entrata, tuttavia c'è il punto caldo dell'articolo 18 che non va bene perchè è profondamente sbagliato aumentare la possibilità di licenziamento per motivi economici” commenta oggi il dirigente del Pd (ed ex sindacalista Cgil) Cesare Damiano, il quale aggiunge “Io non so se il Pd rischia di spaccarsi, dico solo che non prendiamo a scatola chiusa quello che decide il governo. Noi lavoreremo per trovare un punto d'incontro comune dentro al partito», conclude Damiano. “Quando Monti in conferenza stampa ha parlato di accordo di tutti, tranne che della Cgil, mi è parso di risentire Sacconi” è il giudizio di Stefano Fassina del Pd in un'intervista a Repubblica “il Pd sarà in prima linea per cercare di modificare la riforma in Parlamento, valuterà autonomamente nel merito e proporremo i nostri emendamenti”.
Se quelle segnalate sopra sono le valutazioni di esponenti del Pd scettici o contrari al diktat del governo Monti sull'art.18, c'è un'altra parte del Pd che suona una musica completamente differente.”Lavoreremo ancora, fino alla fine, per soluzioni più condivise ma il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere in discussione” afferma ad esempio il vicesegretario del Pd Enrico Letta in merito alla trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Ed ancora “se il governo presenterà un testo conforme ai principi finora largamente condivisi, il Pd non potrà che sostenerlo” sostiene un altro dirigente del Pd come Beppe Fioroni a Repubblica. L'esponente del Pd giudica positivamente la trattativa sulla riforma del lavoro. Non poteva mancare il commento positivo di uno dei mandanti politici e intellettuali dell'abolizione dell'art.18 “Vivere questo progetto di riforma dell'articolo 18 come una medicina amara e indigesta da ingerire con il naso tappato da parte del Pd a me sembra molto fuori luogo” ha detto il senatore Pietro Ichino questa mattina ai microfoni di Rcf. Secondo il giuslavorista “è necessario combattere prioritariamente una battaglia contro il dualismo del mercato tra protetti e non protetti. Questa battaglia – ha comentato Pietro Ichino - è il cuore di questo progetto del governo Monti che attinge in larga parte a materiale programmatico elaborato in questi anni all'interno del Pd”.
Fonte: contropiano.org

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