Emilio Quadrelli, SULLA GUERRA. Crisi Conflitti Insurrezione, Red Star Press 2017, pp. 276, € 18,00
“Oggi la guerra non è più una tendenza bensì un dato di fatto” (E. Quadrelli)
Seguo
con estremo interesse e, ormai, da più di dieci anni il lavoro di
pubblicista di Emilio Quadrelli. A partire, almeno, da quegli
straordinari reportage pubblicati dieci anni fa su “Alias”, supplemento
settimanale del “Manifesto”,1
in cui l’autore dava voce alle donne protagoniste delle rivolte delle
banlieues oppure delle violenze collegate alla presenza militare della
Nato nei Balcani, soltanto per citarne due dei più interessanti.
Ne
ho sempre apprezzato la ricerca militante unita ad una passione che è
raro trovare persino nel pensiero antagonista e di sinistra. Non sempre
ho completamente condiviso i presupposti teorici ed ideologici2
su cui basa le sue analisi, ma ho comunque sempre ritenuto le sue
narrazioni e proposte un buon punto di partenza per discutere delle
contraddizioni del presente e delle prospettive della società e delle
lotte di classe in questa fase di senescenza dell’imperialismo
occidentale.
Tale impressione mi è stata confermata dal testo
edito di recente dalla Red Star Press che affronta, senza mezzi termini,
il problema della guerra in cui siamo già immersi. Anche se, troppo
spesso, molti sembrano non essersene ancora accorti.
Su tale problema Quadrelli spende parole sintetiche e prive di dubbi fin dalle prime righe:
“Il
mondo è nuovamente in guerra. La crisi sistemica cui è giunto il modo
di produzione capitalista non sembra avere altra via di uscita se non
quella di un’immane distruzione di capitale variabile e capitale
costante. Come le due guerre mondiali novecentesche sono lì a
testimoniare, solo distruggendo il capitalismo può dare vita ad un nuovo
ciclo di accumulazione. Il ricorso alla guerra, pertanto, diventa la
soluzione non solo possibile ma necessaria”.3
Mentre
i media e i governi continuano a coltivare l’illusione che il modo di
produzione capitalistico abbia superato le sua contraddizioni più
violente e che la guerra generalizzata sia soltanto un brutto ricordo,
di cui i conflitti attuali non costituiscono che un riflesso, in una
società destinata a durare in eterno, l’autore ci ricorda che la guerra
costituisce l’anima dell’imperialismo, sia nella sua forma finanziaria e
commerciale che in quella guerreggiata. Non un errore da correggere, ma
l’essenza del suo divenire e della sua sopravvivenza.
“Quanto
la triade crisi-guerra-ricostruzione sia, oggi, un semplice dato di
fatto è sotto gli occhi di tutti. Il mondo è già in guerra e la
generalizzazione di questa una possibilità che sembra darsi dietro ad
ogni angolo. In ciò vi è ben poco di soggettivo. La guerra non è il
frutto di qualche folle «volontà di potenza» bensì il sobrio approdo di
un processo oggettivo che nessuno è in grado di controllare. La
borghesia imperialista la quale, aspetto che non deve mai essere
ignorato, è l’agente «fenomenico» di forze storiche materiali e
oggettive di cui incarna le funzioni senza, però, governarle
coscientemente, precipita dentro la guerra non diversamente da come
piomba nella crisi.”4
I
nove saggi che costituiscono il volume, di cui quattro scritti con
Giulia Bausano, intorno al discorso della guerra che viene, ne
costruiscono però un altro, più articolato, che non esamina soltanto i
moventi oggettivi del conflitto, ma, e soprattutto, le forme
politico-sociali e militari che gli attori devono darsi per affrontarlo e
le loro possibili ricadute sulla lotta di classe e la sua
organizzazione, autonoma ed insorgente, che potrebbe derivarne.
Da
qui la particolare attenzione che Quadrelli riserva sia alla diffusione
della militanza islamica radicale, tanto nel Medio Oriente che nelle
metropoli imperialistiche, e allo scontro militare che ne deriva, sia
alla rinascita dei movimenti populisti negli stati occidentali e alle
ragioni della loro affermazione. In tutti e due i fenomeni, che l’autore
non esita a ricollegare al neo-imperialismo arabo (il primo) e ad una
più moderna riproposizione del fascismo degli anni Venti e Trenta (il
secondo), è però già possibile ravvisare una manifestazione di
contraddizioni di classe insolute che, in riferimento ad alcune opere di
Karl Marx ed Friedrich Engels, possono essere definite come “gemito
degli oppressi”.5
Per quanto riguarda il primo, l’autore afferma:
”Nel
campo dell’imperialismo arabo-fondamentalista sono presenti masse
proletarie e subalterne attratte dalle retoriche «anticoloniali» che
questo imperialismo sfrutta in maniera intelligente e che, questo il
punto, poggiano su contraddizioni reali e materiali […] Bisogna
comprendere, cioè, che nella relazione crociato-colono a essere
determinante per i combattenti islamici è l’aspetto coloniale che il
crociato riveste e che lo «scontro di civiltà», nel mondo contemporaneo,
non è altro che una forma alienata di un conflitto politico che affonda
le sue radici nelle contraddizioni materiali prodotte dal sistema
imperialista”6
Quindi,
facendo riferimento alle personali conoscenze dovute alle sue
precedenti indagini e ricerche condotte sulle banlieues parigine, può
ricollegare la militanza islamica radicale alle trasformazioni della
condizione della classe avvenute nelle metropoli occidentali, in cui
illegalismo e attività precarie costituiscono il cuore di una condizione
materiale di sopravvivenza, e di rabbia, in cui sono state fatte
sprofondare milioni di persone. Di entrambi i sessi.
Proprio
parlando degli attentatori di Charlie Hebdo e del susseguente attacco ad
un piccolo supermercato nel quartiere ebraico di Parigi, l’autore può
rilevare che:
“I
tre provengono da quei mondi sociali dove attività legali ed illegali
si intrecciano in permanenza in quella complessa e variegata
articolazione a cui è approdata “la giornata lavorativa” di quote non
secondarie di forza lavoro globalizzata in basso, i cui numeri
cominciano a essere particolarmente consistenti anche dentro le
metropoli imperialiste europee […] Lì, in aperta contrapposizione al
nulla nichilista dei territori metropolitani, l’Islam politico ha buon
gioco nell’offrire un’identità forte, una prospettiva di vita, un
obiettivo storico/politico a quote di popolazione alle quali, il
capitalismo globale, non riserva altro che un’esistenza prossima al
servaggio”.7
Citando
un autore cui fa più volte riferimento Quadrelli nel corso dei suoi
scritti, si potrebbe affermare che cogliere appieno le contraddizioni di
classe e della Storia
“non
è possibile se non nello spazio vuoto e popolato, al tempo stesso, di
tutte quelle parole senza linguaggio che fanno udire a chi tende
l’orecchio un rumore sordo che proviene da sotto la storia, il mormorio
ostinato di un linguaggio che dovrebbe parlare da solo: senza soggetto
parlante e senza interlocutore”.8
E’
nel silenzio delle periferie e del malessere privato della parola e
della possibilità di esprimersi, anche e soprattutto dalla sinistra
istituzionale, che occorre infatti individuare le radici profonde della
rabbia e delle rivolte che verranno. Con modalità e manifestazioni
inaspettate e talora, come nel caso del radicalismo islamico o dei
populismi, stravolte nella loro intima essenza.
Deviate dall’
”affermarsi
di un modello dove non esiste più alcun collante collettivo. Anzi, a
essere rimossa, come nella nota asserzione di Margaret Tatcher – «La
società non esiste» – è l’esistenza stessa dei mondi sociali.
Palesemente ciò che emerge è il venir meno di qualunque retorica
incentrata sulle masse. Queste spariscono dalla scena storica. Per il
potere imperialistico non esistono più.”9
Accade
così, paradossalmente, che le masse giovanili espropriate di qualsiasi
diritto delle banlieues e gli operai timorosi di perdere il lavoro,
oppure che già l’hanno perso,10
finiscano col proiettare il loro scontento, nella totale assenza di una
sinistra capace di rappresentarli, su forme di organizzazione politica e
all’interno di proposizioni ideologiche tra di loro soltanto
specularmente rovesciate: il radicalismo islamico e il populismo.
Entrambi nazionalisti ed identitari su basi non classiste. Entrambi
prodotti da borghesie già avviate ad una deflagrazione bellica mondiale
in cui il ruolo partecipativo delle masse tornerà ad essere decisivo.
Sia durante che dopo. Con buona pace di coloro che dell’esclusione delle
stesse dalla partecipazione attiva avevano fatto uno degli obiettivi
prioritari del liberismo sovranazionale di cui la Tatcher sintetizzava
così chiaramente il pensiero e l’attitudine.
Gabbie autentiche in
cui il moderno proletariato delle suddette metropoli è paradossalmente
tornato alle condizioni di partenza del XVIII secolo11
grazie alla globalizzazione produttiva, ma anche alla progressiva
perdita della propria identità di classe dovuta a decenni di illusorio
“benessere” e di campagne di ricomposizione ideologica condotte dalle
forze sindacali e delle sinistre istituzionali.
Una trasformazione
passata anche attraverso una riformulazione in chiave individualistica
dei rapporti di lavoro di cui i giuslavoristi, come ben individua
Quadrelli,12 portano una significativa responsabilità. Anche se
“Centrale,
in tutto ciò, è la liquidazione di tutta una procedura formale, fondata
sui resti di un modello di rappresentanza politica, sostituita
attraverso la «messa in scena» della comunicazione diretta del leader
con il popolo”.13
Forma
di comunicazione che, se è servita in tempi di liberismo trionfante ad
annullare la “società” in quanto insieme di organi rappresentativi, oggi
fonda il populismo trionfante che, in tempi di crisi e di tendenza
esplicita alla guerra, deve illudere masse de/classate di essere
nuovamente protagoniste del proprio destino.
“Il
Movimento 5 Stelle sotto tale aspetto è esemplificativo, acquista
consensi e organizza quote di popolazione, per lo più subalterne, a
partire da un programma sociale all’interno del quale vi è tutto e il
contrario di tutto” così, prosaicamente “i movimenti populisti
di destra si occupano di negozi che chiudono, di mercati rionali che
spariscono, di officine che abbassano le serrande, di fabbriche che
cessano la produzione, di case che mancano, di pensioni insufficienti,
di degrado e insicurezza urbana e di lavoro che non c’è. I politici, i
potenti in generale, le banche, le multinazionali sono individuati come i
soli e veri responsabili della crisi e, in virtù di ciò, identificati
come gli elementi antinazionali e antipopolari di cui occorre
sbarazzarsi”.14
Insomma, non diversamente dai riformisti di un tempo, il populismo “coltiva e propaganda l’illusione di un capitalismo buono contro un capitalismo cattivo”.15
Immagine
tutta interna, però, alle differenti forze imprenditoriali ed
imperialistiche che nella loro lotta a livello nazionale ed
internazionale si preparano a ripartirsi, ancora una volta sui campi di
battaglia, la ricchezza socialmente prodotta.
Un grande gioco in
cui la “nazionalizzazione” delle masse torna ad essere un elemento
portante, ma che, per altri versi, potrebbe condurre ad effetti
destabilizzanti e indesiderati per la classe al potere ed insperati, in
prospettiva, per la lotta di classe.
Ancora inconsapevole, almeno in parte qui in Europa,16 di questo suo indubbio fine storico, il populismo
“volta
per volta fornisce, senza alcun problema di coerenza, risposte
apparentemente forti e risolutive alle domande che i vari segmenti di
subalterni o di borghesia in piena decadenza gli pongono. La sua vera
forza e capacità, tuttavia, non consiste in questa sorta di equilibrismo
permanente bensì nel saper convogliare tutte le istanze provenienti dal
basso verso un nemico”.17
Esattamente come il radicalismo islamico sa fare.
La negazione della dialettica amico/nemico
o, perlomeno, lo spostamento del suo significato su altri piani (per
esempio quello dei diritti umani generici e privati di qualsiasi
caratteristica di classe oppure l’”educazione alla legalità”), è stato
lo strumento essenziale per disarmare i lavoratori e le classi
subalterne del loro pieno diritto all’odio nei confronti del modo di
produzione capitalistico che continua a devastare le loro vite e
l’ambiente in cui vivono.18 Mentre questa è tornata oggi ad essere maneggiata da segmenti di borghesia in chiave bellicista, razzista e giustizialista.
“Pertanto,
e qua la cosa si fa interessante, l’emergere del populismo indica il
passaggio da una forma politica ad un’altra […] Ovviamente le rotture
storiche che permettono l’affermarsi del populismo da un lato, insieme
al decisionismo che immancabilmente si porta appresso, intervengono
dentro contesti determinati e ogni volta assumono forme e aspetti
diversi”19
Occorre che le contraddizioni economiche e politiche tra le borghesie imperialiste stesse siano giunte al punto da far sì che
“le stesse classi dominanti mostrino segni di insofferenza verso il proprio ceto politico.20 Deve
cioè prodursi un corto circuito tra tutte le classi sociali e gli
istituti e i partiti politici chiamati a rappresentarle […] Perché il
populismo sortisca un qualche effetto occorre che i subalterni non si
riconoscano più dentro determinati vincoli e forme di rappresentanza e
che, al contempo, quegli stessi vincoli si mostrino superati e
inadeguati per le medesime classi dominanti”.21
Cosa che l’attuale crisi delle istituzioni e dei vincoli europei comincia a dimostrare piuttosto bene.
La
sinistra, non solo istituzionale, sembra non saper cogliere pienamente i
segnali che giungono in tal senso e neppure quelli provenienti dalle
rivolte, anche se ancora sporadiche, delle periferie.
“Nel
momento in cui la banlieu è insorta, la sinistra bianca, la quale detto
per inciso a quei territori è del tutto estranea, ha catalogato
quell’insorgenza come insorgenza degli esclusi e degli emarginati
nell’accezione classica che questa comporta. Non si è resa conto, cioè,
che quella marginalizzazione non era il frutto di residui sociali del
passato, non era eccedenza (tanto per usare un termine caro alla
sinistra intellettuale) ma la prosaica materializzazione di un
proletariato moderno, filiazione diretta delle punte più avanzate del
modello capitalistico, Quel soggetto sociale rappresentava la storia del
nostro futuro non la storicizzazione del nostro passato. Quella
condizione marginale era l’esatta configurazione di gran parte della
forza lavoro del presente. Con questa forza lavoro, palesemente, la
sinistra bianca non vuole avere a che fare o, meglio, non vuole avere a
che fare su un piano di parità. Ciò è diventato palese quando, nel 2006,
nelle lotte degli studenti universitari e liceali contro le riforme del
lavoro prospettate dal governo, universitari e liceali hanno
volutamente cercato di tener fuori i coetanei dei tecnici e i
banlieusards in generale”.22
Lo
stesso atteggiamento discriminante caratterizza oggi la sinistra
istituzionale nei confronti di un movimento come quello NoTav, accusato
di essere localistico, primitivo, arretrato e antiquato quando, invece,
può rappresentare un valido modello per l’organizzazione futura delle
lotte.
Su tutto questo invita e induce a ragionare il testo di
Quadrelli, ma non certo per il gusto della conoscenza e dell’astrazione.
Al termine l’obiettivo non può infatti essere altro che quello della
definizione, teorica e pratica, di quella che dovrà essere
l’organizzazione destinata ad aiutare la storia a partorire una nuova
comunità umana, libera dal capitale e dallo sfruttamento dell’uomo e
della natura.
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