mercoledì 29 marzo 2017

Populismo, Europa e Terza Repubblica, di Aldo Giannuli

Tutto lascia pensare che si aprirà una stagione di forti conflitti sociali e politici sia fra i ceti dominanti e quelli popolari, sia all’interno delle classi dominanti per la redistribuzione delle quote di potere.
 
La prima linea di frattura, in ordine di importanza, è certamente quella fra classi dominanti e classi subalterne. Per quanto un regime possa essere elitario, per quanto una democrazia possa celare un contenuto oligarchico dietro una maschera, tuttavia le classi popolari hanno pur sempre una quota di potere che le consocia e ne giustifica il consenso. Se questo non ci fosse, il sistema crollerebbe (che è poi quello che sta accadendo un po’ dappertutto in occidente) perché non esiste sistema politico (fosse anche dittatoriale) che può reggersi a lungo senza il consenso popolare.
Magari può trattarsi di un consenso meramente passivo di un popolo che si comporta secondo le norme del sistema, influenzato da inganni ideologico-propagandistici, ma pur sempre deve esserci una forma di consenso, senza della quale la disapplicazione delle regole diverrebbe automatica e con essa la fine del regime. E, da questo punto di vista, la democrazia è più fragile degli altri sistemi, perché basata ideologicamente sul fondamento del consenso popolare.
Costruendo lo spettro magnetico che tiene unita una compagine sociale, occorre concedere alle classi dominate una quota di ricchezza attraverso forme di redistribuzione di essa ed una quota di potere attraverso i meccanismi rappresentativi. Nelle democrazie europee questo è stato il compromesso socialdemocratico (e negli Usa il compromesso newdealista) che ha concesso il welfarestate e la contrattazione collettiva e una quota di potere sociale attraverso il suffragio universale integrato da specifici strumenti di trasmissione della domanda politica, quali i partiti di massa ed i sindacati.
Questa formula è stata distrutta dall’ondata neoliberista che ha demolito in tutto o in parte il welfare e la contrattazione collettiva ed ha emarginato o distrutto i partiti di massa ed i sindacati. La nuova formula di compromesso sociale –che ha sostituito quella del compromesso socialdemocratico- prevedeva concessioni come l’offerta low cost di beni e servizi (basata sui bassi salari e la precarizzazione, sia all’interno interno sia, molto di più, nei paesi dove la produzione era delocalizzata), quote residue di assistenza sociale e, soprattutto, la creazione di denaro bancario generosamente dispensato.
Il “denaro bancario” ha creato per un certo periodo una liquidità aggiuntiva attraverso la concessione di carte di credito (che, di fatto, hanno procurato un mese in più di retribuzione), di più facili mutui (negli Usa soprattutto per l’acquisto della casa, e dappertutto per l’acquisto auto). In Italia, peraltro, ha sopperito, alla falcidia dei posti di lavoro ed al crollo dei salari, il welfare familiare basato sulle retribuzioni dei quaranta-cinquantenni che ancora godevano dei frutti dell’avanzata salariale degli anni settanta, sulla “pensione del nonno” e sui risparmi consentiti dall’epoca d’oro della contrattazione salariale.
Sul piano politico si è accentuata la nota videocratica a tutto danno della partecipazione politica reale e si è data l’ingannevole sensazione di un maggiore potere decisionale attraverso la scelta dell’uomo al comando, che, in realtà blindava il ceto politico attraverso il meccanismo del “voto utile” e mascherava la marginalizzazione del Parlamento a vantaggio dell’esecutivo e del suo capo. L’Italia è stata un importante laboratorio in questo senso.
Con la crisi finanziaria il meccanismo si è rotto: il denaro bancario si è rivelato un meccanismo ingannevole, che “mangiava” le risorse delle generazioni future. In concreto ha rimandato il problema dei bassi redditi di una dozzina di anni, ma solo a costo di una crisi finanziaria devastante e non ancora risolta; i margini assicurati dai resti del welfare e della contrattazione collettiva si vanno consumando e le nuove generazioni sono del tutto scoperte.
Di conseguenza anche la truffa della “democrazia plebiscitaria” dove il popolo sceglie solo il semi-dittatore temporaneo, si è dissolta ed i ceti popolari hanno rivolto la loro rabbia contro i rispettivi ceti politici, avidi, incapaci, corrotti.
Sin qui la rivolta popolare ha avuto tre aspetti centrali: una rivolta fiscale contro una pressione ormai poco sostenibile, che sta condannando molti paesi ad una recessione permanente, una rivolta contro l’Europa identificata con la cupola tecnocratico bancaria che sta dissanguando le economie nazionali, la richiesta di nuove forme di democrazia (come dappertutto accade con la richiesta di referendum).
Su tutto questo si è sovrapposta la reazione anti immigrazione, determinata da un insieme di cause: la sensazione che questa gente sottragga risorse ed occasioni di lavoro ai nativi, il timore per la sicurezza che indica negli immigrati una massa di criminali, ma soprattutto una reazione identitaria che teme di vedere sopraffatta la propria cultura, una reazione perfettamente simmetrica a quella dei popoli “altri” (mediorientali, indiani, russi, africani ecc.) che vedono –magari con maggiore fondamento- nell’Occidente il sopraffattore.
La globalizzazione, al contrario delle aspettative che immaginavano una crescente convergenza delle diverse identità culturali verso un modello unico ha avuto, per ora, l’effetto opposto di una generale rivolta identitaria di ciascuno dei soggetti coinvolti. Il fatto che gran parte dei motivi di questa reazione, soprattutto in Occidente, siano infondati non toglie che essa sia reale e, di fatto agisca come diversivo rispetto ad una rivolta sociale contro il l’ iper capitalismo finanziario che è alla base dell’attuale disastro sociale e contribuisce ad orientare a destra la rivolta in atto.
E’ difficile dire che evoluzioni avrà il fenomeno, ma è evidente che è uno dei principali terreni di scontro nel prossimo futuro. La proposta dei poteri finanziari per spegnere la protesta è quella del “reddito di cittadinanza” o, se si preferisce ”di sussistenza”, in cambio dell’accettazione dell’attuale ordinamento da parte delle classi subalterne. Si concede qualche briciola dei profitti della delocalizzazione, della speculazione finanziaria, del sotto salario generalizzato in cambio della rinuncia a mettere in discussione gli aspetti di potere esistenti, ma si sbaglia chi pensa che si tratti del classico “piatto di lenticchie”, questo è meno di un piatto di lenticchie.
E’ interessante notare come questa proposta sia tanto popolare anche a sinistra (e parlo della sinistra radicale): trenta anni di diseducazione politica e di svalutazione culturale del lavoro hanno generosamente posto le premesse di questo naufragio politico ed ideale della sinistra.
Realisticamente, il cuore dello scontro sarà un altro e riguarderà la qualità del sistema democratico. Sbaglia chi pensa che gli equilibri istituzionali attuali di democrazia più o meno basata sullo Stato di diritto, sulla rappresentanza e sulle libertà di espressione, sciopero ecc. possa restare come è. Dopo i brividi procurati dalla Brexit, dall’elezione di Trump, eccetera non è realistico pensare che le classi dominanti accettino di mantenere questi margini di partecipazione popolare: la prima misura da mettere in conto è la limitazione crescente dell’istituto referendario. Dopo verranno, in un modo o nell’altro, misure di ridimensionamento del suffragio universale: c’è chi propone una ulteriore riduzione di potere dei parlamenti a tutto vantaggio delle èlite tecnocratiche (la “democrazia a trazione èlitaria” cara a Mario Monti e fatta proprio dal “Foglio”, tanto per dirne una), chi vorrebbe una seconda camera tutta di nomina dall’alto, chi progetta riforme del sistema elettorale pensate per blindare il blocco tecnocratico di centro, per certi versi il “pacchetto Renzi” anticipava alcune di queste tendenze.
Ma c’è anche chi pensa di agire non attraverso i meccanismi istituzionali, quanto attraverso la repressione selettiva e la limitazione del diritto di espressione (la polemica sulle fake news e la “post verità” serve solo ad aprire la strada in questo senso). Ma verranno anche altre misure tese a garantire le èlite politiche dal rischio di inopportune inchieste sulla corruzione o sui rapporti con la borghesia mafiosa.
Dall’altro lato, la protesta popolare ormai chiede maggiore potere decisionale e, soprattutto, di controllo. Non si tratta solo della rabbia contro la cupola tecno-finanziaria della Ue, ma dell’esigenza di garantire la domanda politica dei ceti subalterni attraverso meccanismi che vadano oltre la democrazia rappresentativa. Si tratta di innestare sul tronco delle nostre democrazie forti elementi di democrazia diretta che lo rivitalizzino, si tratta di estendere la democrazia oltre la sfera politica, facendola penetrare anche nella produzione, nella cultura, nella ricerca, nell’informazione. E si tratta anche di “mettere al guinzaglio” i poteri extrapolitici, a cominciare dai poteri finanziari che godono oggi di una libertà inconciliabile con il bene comune, di una impunità penale e di una franchigia fiscale ormai intollerabili. Ed insieme ai poteri finanziari occorre mettere “sotto controllo” anche la classe politica troppo spesso incline ad entrare il rotta di collusione con i poteri finanziari e con la borghesia mafiosa, e troppo facile a corrompersi.
Dunque, delle due l’una: o i nostri regimi prenderanno la strada di una trasformazione in senso partecipativo e democratico, oppure l’involuzione elitaria, finanziaria e para criminale del sistema finirà per compiersi.

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