Il voto delle comunali ci restituisce un Paese che continua nella sua discesa a destra. La sinistra si dibatte tra prosecuzione della linea neoliberale e ripensamenti nazionalisti. Intellettuali e movimenti politici radicali non sono esenti da ciò. Così, mentre i “sovranisti” di sinistra di Senso Comune si perdono in richiami alla patria e in tentativi maldestri di risemantizzare il linguaggio del nuovo tempo populista, il governo giallo-verde porta sempre più in là la provocazione xenofoba, negando fattualmente ogni possibilità di dare un senso altro a idee e pratiche proprie della destra peggiore.
Sulla pagina Facebook di questo collettivo alfiere del populismo di sinistra, animato da diversi ricercatori universitari – spesso anche molto bravi -, recentemente è uscito un fotomontaggio caricaturale di una prima pagina di Repubblica, con cui si sostiene che il progetto dei liberal cosmopoliti sarebbe quello di svendere il Paese a potenze straniere – come se le élite nazionali fossero invece una garanzia -, di sostituire diritti sociali con diritti civili – perché evidentemente si crede che i lavoratori siano tutti maschi eterosessuali bianchi – e di favorire la perdita e la sostituzione della cittadinanza nazionale con quella europea – identificata con la sottomissione diretta al potere delle odiate élite finanziarie e di Bruxelles.
Nel frattempo, alcuni vecchi esponenti della sinistra e del centrosinistra riemergono dalle macerie con nuovi vessilli. Da ultimi Carlo Freccero, che dal situazionismo è passato al nazionalismo di sinistra con grande disinvoltura (sublimemente dileggiato da Alessandro dal Lago sul manifesto) e Elio Lannuti, approdato dalla difesa dei consumatori contro il potere delle banche al cospirazionismo della destra radicale accusando le ong di essere al soldo di George Soros e del progetto di sostituzione di popolo, il cosiddetto “Piano Kalergi” di cui parlano, oltre ai vari neofascisti e al pessimo Fusaro, anche alcuni grillini.
Similmente, tra gli economisti il tema dell’euro ha creato gravi fratture e riassestamenti: l’economista Alberto Bagnai dal manifesto è arrivato alla Lega, che lo ha premiato con la presidenza della commissione Finanza al Senato, e per le critiche rivolte alla moneta unica ha attirato le simpatie e il consenso di molti altri economisti “di sinistra”- a dire il vero da tempo piuttosto nazionalisti- come Sergio Cesaratto o Stefano Fassina di LeU. Questi ultimi, in nome del contrasto dell’euro, sono disposti a chiudere un occhio sulla Flat tax, arrivando all’assurdo logico per cui l’esito dell’avversione alle politiche antipopolari di Bruxelles è quello di politiche ancora più antipopolari ma determinate in sovrana autonomia.
Sul lato debole della coalizione di governo, ovvero sui Cinque Stelle, oltre all’esigenza di notare con preoccupazione il grado di rischio insito in una forza al 30% incapace di avere una linea politica indipendente dalla Lega, che pur dovrebbe essere il socio di minoranza, bisogna ancora una volta criticare i troppi che hanno abboccato al nuovismo grillino – alcuni, magari, dopo esser transitati per quello renziano, in una consumistica ricerca di novità sul mercato politico. Tanti attivisti e militanti della sinistra radicale e non, dopo aver passato la primavera in compagnia del Movimento Cinque Stelle e della peggior destra nazionale contro il progetto renziano di riforma della Costituzione, oggi tacciono. Allora, la riforma fu salutata come un attentato alla democrazia, non senza alcune buone ragioni, ma con troppa disinvoltura nella lettura della fase e nella compagnia scelta, in nome della condivisione del nemico. Oggi, ci si divide tra il terrore per il mostro che si è contribuito ad evocare e il silenzio per le sciocchezze in cui si è creduto.
All’interno dell’insofferenza per un orizzonte politico depoliticizzato, schiacciato sulla tecnica neoliberale, unica politica possibile per la destra come per la sinistra, da tanti il Movimento Cinque Stelle è stato visto come un’enorme forza potenzialmente emancipatrice, vagamente ambigua, ma positiva in quanto portatrice di alcune battaglie storiche della sinistra di movimento, dall’acqua pubblica al no alla Tav. Certo, erano molto giustizialisti e sovente spuntavano toni xenofobi e nazionalisti (da “l’antifascismo non mi compete” di Grillo, all’accostamento tra topi e migranti nel descrivere Roma, dalle critiche alla gestione del Baobab, fino alla famigerata espressione “taxi del mare”, usata da Di Maio). Ma questi elementi passavano in secondo piano rispetto al sogno di tirare giù dal governo il centrosinistra neoliberale, da troppo tempo al potere. Passavano in secondo piano anche gli elementi di democrazia interna, di controllo privatistico, di demagogia tecnologica. E così, anche sotto questo benevolo sguardo della sinistra più attiva, il voto di protesta contro Renzi, da sinistra, non è andato né a LeU né a Potere al popolo.
Dal 4 marzo LeU si dibatte come un animale morente in attesa di capire se nel Pd cambierà qualcosa o meno, così da potersi finalmente tornare a dividere. Mdp da un lato, Sinistra Italiana dall’altro (Possibile ha già abbandonato). Il Pd timidamente inizia ad attaccare su Flat tax e xenofobia, ma sorge spontaneo chiedersi con quale coerenza ciò avvenga. Mirabile esempio della miseria della sinistra istituzionale veniva offerto da Repubblica il 5 giugno di quest’anno. La tesi del quotidiano era che i giallo-bruni vogliano quanto il Pd ha già fatto: Ape social come temperamento della Fornero, anticipatore della riforma del governo Conte, abbattimento delle tasse sulle imprese come predecessore della Flat tax, Minniti come apristrada per Salvini. Quindi, qualche giorno dopo, si sono rialzati i toni e, con il caso Aquarius e l’uscita sul censimento etnico, da Calabresi a Mauro è aumentato il livello dell’attacco al governo. In questo contesto, Martina in un’intervista recente, tra alcune affermazioni condivisibili, non è riuscito a risparmiarsi di rivendicare il fatto che il Pd abbia ridotto del 80% gli sbarchi.
Dal centrosinistra, non giungono autocritiche sulle aperture al nuovo corso xenofobo avviate da vent’anni. Addirittura, Livia Turco, sul manifesto non fa nessun passo indietro sulle politiche adottate precedentemente e indica nel sindacalista ivoriano dell’USB Aboubakar Soumahoro, compagno di Soumayla Sacko nella lotta per l’emancipazione delle campagne calabre dal caporalato, il modello di lotta politica e democratica da avviare. Nonostante questi avesse criticato aspramente la Bossi-Fini, tanto quanto la Turco-Napolitano.
Sovranità, neoliberismo e i luoghi comuni della sinistra
La china del nazionalismo a sinistra non è iniziata oggi, con Minniti. Ma c’è una accentuazione, come se l’incapacità di rappresentare gli interessi popolari non potesse che passare per posizioni più muscolari sulla sicurezza e sulla gestione dei confini, sul recupero della sovranità, oggi al centro del dibattito politico mediatico. Ma se non si volesse vedere, ai tempi della finanziarizzazione dell’economia-mondo capitalista, oltre alla dimensione spazialmente incompatibile di una simile categoria, la mistificazione che sottende, si potrebbe guardare alle politiche economiche reali dei nazionalisti. Come sappiamo tutti, l’Europa è scossa da forze che dichiarano di voler difendere il popolo – anche al costo di istituire democrazie illiberali, come afferma lo stesso Viktor Orbán – contro migranti ed élite, a volte solo politiche, altre anche economiche ma straniere.
Ciò che però non si tiene nel discorso e nella realtà è che queste forze praticano politiche fortemente neoliberali, in particolare in tema di fisco e welfare, assolutamente contrarie alla redistribuzione. Da Kurtz in Austria, a Putin, a Trump e Salvini, il regime fiscale che si vuole introdurre, o che si è già stabilito, è strutturato in maniera tale da redistribuire ricchezza dal basso verso l’alto.
La difesa del popolo è articolata quindi come attacco retorico a un nemico esterno, che da triplice – banchiere, politico e migrante – viene ridotto a migrante, in quanto più vulnerabile e facilmente attaccabile. La dinamica ha sicuramente a che fare con la perdita della capacità di incidere sull’economia da parte della politica e sulla necessità di forme di intervento spettacolari, che le diano un contenuto, altrimenti apparentemente inutile. Ma al netto di quanto già Marx diceva sul rapporto tra le due sfere, in tempi più recenti torna utile leggere Saskia Sassen sulle trasformazioni e le riconfigurazioni del potere ai tempi della globalizzazione.
I mercati sono diventati globali non per un assalto portato dai mercati alla sovranità statuale, spazio dove si dava il compromesso fordista-keynesiano tra capitale e lavoro, ma per un’autonoma scelta della politica – dei governi, dei parlamenti – di modificare la geometria del potere nello spazio globale.
Tra l’altro non è neanche vero che globalizzazione coincida con le mere delocalizzazioni produttive. Il vero nodo riguarda cosa si delocalizza e cosa si rilocalizza e come si sovrappongono i piani spaziali e temporali nella complessificazione dei rapporti di potere politico ed economico.
Le città globali ci parlano di questo – di una potente rilocalizzazione di competenza ad alta intensità tecnologica, innovativa, decisionale -, mostrando ancora una volta l’insufficienza dello spazio nazionale nel contrastare le dinamiche dell’attuale fase capitalista. Anche su questo a sinistra si potrebbe fare autocritica. Negli anni dell’austerity, molto si è insistito sulla possibilità di decidere, sulla volontà popolare mortificata. Ma forse già allora bisognava articolare meglio il legame che corre tra popolo, sovranità e decisione democratica. Si immaginava un popolo omogeneamente vessato, una sovranità unilateralmente espropriata e una decisione democratica, da ristabilire dal basso, e/o con la mediazione della società civile.
Rispetto al popolo, è utile ripetere che esso è inteso come gruppo culturalmente o etnicamente omogeneo, fratello dell’idea di nazione, concepito al di là delle differenze di classe. Da questa idea è partita la politica razziale e coloniale europea. Un popolo inteso come classi subalterne è quanto si cerca di evocare nei diversi discorsi populisti, ma in Europa, essendo al di qua della linea coloniale, il senso non può che essere ambiguo.
Sulla sovranità vale quanto detto rispetto al rapporto tra politica e globalizzazione. Sul piano delle forme politiche, nella critica ai partiti, si idealizzava la società civile, a volte usata strumentalmente per intendere i movimenti sociali, non si sa perché considerati immuni dalla putrescenza che infetta il campo della sinistra, altre per volgere il momento tecnocratico in una variante progressista e illuminata: intellettuali e professori neoliberali i primi, socialdemocratici e liberali di sinistra i secondi.
Insomma, dalla crisi della democrazia si è tentato di uscire prima con la tecnocrazia, ora con il cosiddetto “populismo” che della deformata società civile fa un discreto uso, oltre che dei tecnici neoliberali, come possiamo vedere dalla composizione del governo Conte. E sulla decisionalità democratica dal basso, bisogna ripetere che senza un certo tipo di politicizzazione, nei rapporti di forza dati, l’esito del “ripristino” della volontà popolare potrebbe non essere dei migliori. Infatti, in questa fase, la volontà popolare che ne emergerebbe non coincide con il giusto odio di classe. Le barricate a Gorino o gli attacchi a Tor Sapienza contro un centro di accoglienza non sono forme di attivismo, di partecipazione, per quanto mobilitata dalle destre, finalizzate all’esclusione? E le campagne per il decoro e contro i marginali, a Roma pompate da un sito come Roma fa schifo? Mentre questi fenomeni si manifestavano, parallelamente, si affermava il mito della partecipazione, del tutto dequalificata, elevata a valore in sé e per sé, come se i temi della coscienza e degli strumenti con cui la si manipola fossero temi del passato (e invece con il fiorire delle teorie del complotto abbiamo visto quanto sia allegra l’alternativa all’eterno presente dell’assenza di alternative del neoliberismo).
In quest’ottica, rispetto alla ripresa di posizioni precedentemente emarginate nel dibattito pubblico, magari in quanto affiancate ad argomenti complottisti, è utile ripensare anche ad alcuni riferimenti intellettuali – come Noam Chomsky – che ci hanno abituato a pensare i rapporti internazionali in termini bipolari, come se ci fosse ancora l’Unione Sovietica a fronteggiare gli Stati Uniti. Per questi, nessun’altra potenza globale è in azione. Si tratta solo di Stati che difendono legittimamente i propri interessi. Anche se il multipolarismo delle politiche di potenza non può essere racchiuso in quella griglia, gli “antimperialisti” concepiscono un solo imperialismo, quello Usa e così si schierano con dittatori come Bashar Assad in Siria, minimizzando l’autoritarismo putiniano in quanto, almeno, esterno all’asse atlantico. Il nazionalismo di sinistra oggi passa anche per questi riferimenti internazionali.
Aboubakar Soumahoro, il ritorno della politica oltre lo spettacolo?
In controtendenza rispetto a ciò, è interessante notare come l’Espresso abbia lanciato – dopo una notevole intervista di “Propaganda live” su La7 – il sindacalista Aboubakar Soumahoro come l’anti-Salvini con una bella copertina e un inserto su razzismo istituzionale e nazionalismo, a cui è seguito un secondo numero, in cui si sono accentuate le critiche al centrosinistra. La sinistra socialdemocratica infatti continua a battere la strada del neoliberalismo e del nazionalismo a tinte chiare, e si potrebbe dire che a quest’ultimi almeno si possa contestare l’ipocrisia, mentre a Salvini o Orbán no, essendo l’identità tra discorsi e fatti, completa. L’effetto prodotto nella società di parole così violente segna un radicale approfondimento delle dinamiche razziste rispetto al periodo Minniti, che pure ha arato il terreno (si pensi agli attacchi razzisti a Caserta al grido di “Salvini, Salvini!”). Certo, c’è da diffidare quando i media lanciano un leader. Da tempo viviamo nella società dello spettacolo, che è “il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (Guy Debord), i fenomeni politici sono determinati in laboratorio, la televisione plasma il consenso e i discorsi diventano sempre più schematici e brutali. I social amplificano le falsità dando a chi le condivide l’aura dello scopritore di nuovi mondi celati dalle oligarchie del denaro globale. Ma le parole di Soumahoro, oltre a brillare nell’assordante silenzio della sinistra di cui sopra, sono vivificate dalla radicalità di un percorso di lotta reale portato avanti con altri compagni sfruttati nelle campagne d’Italia.
Radicalità utile anche contro i discorsi utilitaristi di certa “sinistra” (“se non ci fossero gli immigrati, nessuno andrebbe a prendere i pomodori e le olive”, disse Emma Bonino questo gennaio). E forse sta qui l’antidoto al populismo e al culto del capo: nel riconoscimento di un percorso collettivo di cui Soumahoro rappresenta solo l’emersione mediatica. Così l’emersione di un sindacalista nero, con la galassia di istanze politiche di cui riesce ad essere portavoce, articolando in un solo discorso giustizia sociale, genere e razza appare estremamente avanzata, utile e positiva rispetto al quadro attuale. Ed è proprio ciò che serve per attaccare – all’altezza dei tempi – la nuova egemonia politica.
Da quando i cicli di accumulazione si sono basati sul saccheggio di risorse esterne all’Europa, la legittimazione di tale violenza è stata fornita dall’idea di “razza”. La nozione di sovranità, in Europa e Stati Uniti, agitata anche da certa sinistra nei termini più deleteri, cerca di disarticolare il rapporto tra razza e capitalismo, agitando un popolo nazionale contro i mercati globali, ma sia i popoli che i mercati non sarebbero tali senza le violenze coloniali con cui si sono formati.
Rivolgendosi contro gli usurpatori della capacità decisionale esercitata su scala nazionale – i mercati, Bruxelles – per porre fine ad un’ingiustizia, al riparo delle consolatorie classi dirigenti nazionali, ne vorrebbero accentuare altre, quelle che corrono lungo la linea del colore o della redistribuzione al contrario con la Flat tax e l’aumento dell’Iva che tanto piace al “moderato”, e molto liberista, nuovo ministro dell’Economia Giovanni Tria (si faccia un giro nell’archivio online del Foglio per farsi un’idea).
Soumahoro in tutte le interviste e gli interventi fatti riesce a tenere insieme questo piano con molta più efficacia e coerenza di tanti esponenti della sinistra politica. Le leggi dello Stato italiano producono la razza, l’inferiorizzazione del migrante è finalizzata alla produzione di vulnerabilità e ricattabilità. L’economia italiana, per colmare la carenza di offerta di lavoro in alcuni settori e stabilire condizioni di profitto migliori, strutturalmente richiede forza lavoro debole, senza diritti, fatta filtrare attraverso le frontiere in condizioni di illegalità. Più che di business dell’accoglienza bisognerebbe parlare di business del respingimento, tra esigenze del mercato del lavoro italiano e imprese belliche e del controllo. Quest’ultime fanno miliardi sui droni e le tagliole costruite contro chi attenta al benessere del Nord del mondo, cercando di tenere lontana la cattiva notizia portata da chi fugge dal deserto che l’Europa stessa ha edificato fuori da sé.
Viviamo il tempo del riassesto del neoliberismo “progressista”, se è accettabile la definizione di Nancy Fraser, in una forma autoritaria globale – da Trump a Modi, da Duterte all’Europa. La sinistra globale riesce a esprimere qualche forma di risposta con differente intensità in diversi Paesi e continenti. L’Italia è tra le eccezioni negative. Nella miseria attuale, mentre il Pd continua imperterrito a sbagliare lungo il tracciato della Terza Via che ha prodotto l’emorragia di voti tra le classi popolari, e la sinistra “socialdemocratica” e radicale è ridotta al lumicino dimenandosi nell’inconsistenza, forse la figura e l’impegno di Soumahoro e delle soggettività migranti possono far riaffiorare utili discorsi offuscati dal dominante rumore di fondo, oltre il quale si può tornare ad attaccare il cupissimo tempo in cui viviamo.
Link articolo: Le macerie della sinistra, tra sovranisti e neoliberisti
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