mercoledì 1 febbraio 2017

Little America

cina
La complementarità della prima potenza e della prima impotenza economica
Ecco che ad una trumpfobia isterica subentra una trumpmania insensata, come se un'alternanza politica alla presidenza federale della seconda più grande democrazia al mondo fosse suscettibile di produrre un cambiamento tangibile, positivo o negativo, nella politica di questo paese. Si evocano prospettive fatali per suscitare sentimenti di paura o di speranza.
In primo luogo, si specula a proposito di una guerra commerciale che gli Stati Uniti starebbero dichiarando alla Cina. Tuttavia, quella che di solito viene chiamata guerra commerciale è una competizione commerciale fra due paesi concorrenti, e non una discussione fra un cliente ed il suo fornitore, o fra un debitore ed il suo creditore; schemi questi che servono a definire quali sono le relazione fra gli Stati Uniti e la Cina. A tal proposito, questi due paesi non sono affatto rivali, ma sono complementari; anche se la Cina fa del suo meglio per cercare di ridurre questa interdipendenza.
Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina in quanto non sono in grado di produrre tutto ciò che consumano (altresì, sono in grado di pagare solo il 20% di ciò che consumano). Di contro, nonostante ciò che gli Stati Uniti vogliono far credere, la Cina non ha bisogno di loro. A partire dal 2008 - anno in cui la Cina ha capito che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di tentare di sanare le proprie finanze - in tutti i suoi settori, l'industria cinese produce ormai più per il mercato interno che per l'esportazione. Non solo in materia di beni strumentali - dove la Cina aveva un ritardo, rispetto alle altre potenze economiche, che doveva essere recuperato - ma anche in materia di beni di consumo, il cui sviluppo  il governo cinese ha finalmente accettato per disinnescare ogni velleità di cambiamento politico, la soddisfazione dei bisogni della Cina e delle aspirazioni dei cinesi è ora una priorità nazionale. Contrariamente a quello che vorrebbero far credere alcuni economisti americani, la Cina ha superato da tempo lo stadio dei paese "emergente" disposto ad esportare qualsiasi cosa a qualsiasi condizione per ottenere in tal modo valuta estera. E, soprattutto, non vuole più dei dollari, in quanto sa qual è il loro valore reale.
Gli economisti europei hanno fatto il gioco degli Stati Uniti in maniera ammirevole, diffondendo il mito della guerra monetaria, che consiste in un dogma falso ed in un'asserzione inesatta. Il dogma, involontariamente erroneo o volutamente menzognero, è quello per cui la svalutazione facilita l'esportazione, una teoria largamente professata in tutte le facoltà di macro-economia e di politica, e della quale ci si prende garbatamente gioco nelle scuole di commercio e di gestione, dove si insegna che la competitività si costruisce sulla qualità, sulla fiducia, sulla coerenza e sulla reputazione, piuttosto che su un vantaggio di prezzo momentaneamente ed involontariamente ottenuto grazie ad una svalutazione inattesa, o per mezzo di una politica di ribasso sistematico fatta attraverso la sottovalutazione del cambio, cosa fra l'altro sleale e come tale proibita dagli accordi commerciali internazionali.
L'asserzione falsa è quella secondo la quale, in ragione del vantaggio strutturale che questo fornirebbe (secondo il dogma erroneo), ci sono numerosi paesi che sono attivamente impegnati nel sottovalutare la propria moneta. Se ciò è certamente vero per la zona euro, governata dagli interessi statunitensi piuttosto che da quelli europei, non lo è sicuramente per gli Stati Uniti i quali fanno tutto ciò che è in loro potere per ritardare il crollo del dollaro al suo vero valore economico ed aritmetico, ed almeno dal 1971 è proprio questa del resto la missione essenziale del governo federale. È difficilmente immaginabile che un governo possa voltare la spalle a tale politica e lasciare che la sua moneta crolli irrimediabilmente nel nome della trasparenza o dell'ortodossia. In politica, l'unica morale legittima è la ricerca del benessere o della salvezza (a seconda del livello di materialismo o di trascendenza dello Stato) dei cittadini che gli sono affidati, e non la soddisfazione di principi estranei o inutili per la cittadinanza.
La Cina non ha alcun interesse ad una sottovalutazione dello yuan, di cui solo la stabilità e la giusta valutazione permettono, da un lato, che sia sempre più utilizzato negli scambi mondiali e, dall'altro lato, che i paesi altri vogliano tesorizzarlo; due fattori, questi, che contribuiscono all'indipendenza, alla sovranità ed al potere economico della Cina. La Cina ha interesse a che i prodotti che esporta, anziché utilizzarli al suo interno, vengano compensati correttamente al fine di permetterle di importare quel che manca alla sua popolazione (in particolare, prodotti alimentari) o alla sua economia (materie prime). Ma la Cina non ha affatto interesse a che il dollaro crolli troppo e troppo rapidamente, prima che, da un lato, sia riuscita a non essere più pagata con tale moneta e prima che, dall'altro lato,  abbia finito di liquidare la sua montagna di credito espresso in dollari, come le obbligazioni statunitensi.
Da parte loro, gli Stati Uniti, checché ne dica il loro nuova presidente, non possono fare a meno delle importazioni, e soprattutto, come il resto del mondo, delle importazioni cinesi. Le competenze che i paesi avanzati hanno volontariamente condiviso attraverso dei contratti di trasferimento di tecnologie, o hanno involontariamente lasciato che venissero saccheggiate attraverso lo spionaggio, sono ormai controllate da tutti i paesi industriali. Il giorno in cui delle imprese cinesi delocalizzano la loro produzione in India per delle ragioni di costo della manodopera, bisognerà ridurre drasticamente (perfino eliminare) i costi e quindi le prestazioni di istruzione, di copertura sociale e pensionistica per tentare di allineare il salario di un operaio o di un ingegnere statunitense con quello del suo omologo indiano o indonesiano. È impossibile. Quel che è sicuramente possibile in teoria, è quello che questi liberiscambisti chiamano protezionismo, ossia la creazione di barriere doganali. Si tratta di applicare ai prodotti importati una tassa che, ripercuotendosi dall'importatore al cliente finale, porta il prezzo di vendita del prodotto importato allo stesso livello del prezzo di vendita del prodotto locale. Contrariamente a ciò che dicono alcuni detrattori, queste tasse quindi non vengono imposte ai produttori dei paesi esportatori, bensì ai consumatori del paese importatore, dal momento che sono questi alla fine a pagare il prodotto tassato e distribuito, laddove una parte del prezzo di vendita rimborsa certamente il costo di produzione e di trasporto, ed un altra parte rimborsa le tasse pagate dall'importatore. Quanto a pensare che l'impossibilità di importare a poco prezzo incoraggi a produrre nei paesi di vendita, si tratta di una scorciatoia da parte dell'economista o del politico più avvezzi al dibattito di idee che alla costruzione di linee di produzione. In primo luogo, bisogna che ci sia un mercato certo e sufficiente a sviluppare una produzione locale, poi occorre un senso di stabilità giuridica a medio-lungo termine (l'industriale non deve credere che alla prossima alternanza politica le tasse verranno rimosse), infine bisogna che ci sia la disponibilità di materie prime, di competenze e, eventualmente, una rete di subappalti o di produzione di semilavorati. Alcuni paesi ex-industriali hanno perduto definitivamente la capacità di produrre questo o quel caposaldo della tecnologia (computer, armi avanzate...) in quanto hanno smantellato l'ultimo loro fiore all'occhiello industriale ed hanno lasciato che sparisse tutto un settore di piccole imprese subappaltanti e tutta una filiera di formazione tecnologica. La politica argentina degli anni dal 2011 al 2015 ha fatto scomparire decine di migliaia di negozi di computer e periferiche (nessuno ha più prodotto mouse), ed ha portato al ritorno del gas e dell'elettricità in decine di migliaia di case dal momento che i tubi ad energia solare per il riscaldamento dell'acqua sono prodotti solo in Cina; ogni settore produttivo ha manovrato per cercare di ottenere l'autorizzazione ad importare i suoi componenti insostituibili, dal momento che l'alternanza politica ha fatto perdere tutti gli investimenti per una produzione alternativa. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, questo paese la cui tassazione è negativa da decenni non ha la capacità di mettere delle tasse ai suoi cittadini, i dollari che stampa senza ritegno sarebbero più utili se venissero direttamente distribuiti ai disoccupati anziché essere usati per sovvenzionare dei lavori non redditizi. Dal momento che per aumentare di un dollaro il Prodotto Interno Lordo bisogna indebitare lo Stato per 6 dollari, se guardiamo l'aumento proporzionale del PIL e quello del debito negli ultimi vent'anni, perfino l'ozio economico sovvenzionato è meno dispendioso della falsa attività in perdita. Il solo mezzo per resuscitare l'economia (che è sinonimo di consumo) potrebbe essere creare un grande mercato del tutto aperto con il Messico, in cui 400 milioni di consumatori godrebbero di un livello messicano di vita e di un livello statunitense di indebitamento.
Gli Stati Uniti sono insolventi, e la Cina lo sa. Non sono in grado di rimborsare il loro debito in qualcosa che sia diverso dai dollari, poiché producono meno di quello che consumano (il risparmio è assai negativo), non hanno delle riserve e perfino la loro massa monetaria nominale è niente a confronto del loro colossale debito. I trumpomani che immaginano che il ripristino della serietà degli Stati Uniti passa per il ripristino del Gold Standard non hanno calcolato che in primo luogo bisognerebbe dividere il valore nominale del dollaro per 55 - dal momento che, dall'agosto del 1971 al settembre del 2011 (fine della quotazione libera dell'oro), è passato a valere da 1/35° di oncia ad 1/1921° di oncia (ancora sopravvalutato) - e poi forse ancora per 9, in quanto da allora è passato da 1/10° di bitcoin ad 1/920°. L'unico bene statunitense che potrebbe interessare la Cina è. come in Africa, in Asia del Nord ed in America del Sud, la terra; ma essa non potrà essere alienata prima del totale crollo istituzione e militare degli Stati Uniti.
Quindi gli interessi della Cina e degli Stati Uniti sono complementari; un ipotetico confronto economico non corrisponde alla realtà ed un confronto militare sarebbe insensato. La Cina non prenderà l'iniziativa, la prima potenza economia ed il primo produttore mondiale non farà niente contro la prima impotenza economica ed il primo debitore mondiale.
- Stratediplo - Pubblicato il 31 gennaio 2017 -
fonte: Stratediplo

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