Non è certo per casualità che la reazione corporativa dei tassisti
sia brodo di coltura dell’estrema destra. Se ha ancora un senso storico
l’attualizzazione del concetto di fascismo (non quello di neofascismo,
attenzione), questo si ritrova esattamente nei tumulti corporativi dei
tassisti, a Roma come in Italia, in Europa e nel resto del globo. E’ la
reazione ad una perdita di status socio-economico quella che spinge i
tassisti alla mobilitazione. Ma se fosse solo questo, potrebbe apparire
speculare alla difesa degli altri innumerevoli diritti sociali
calpestati dal liberismo. In realtà, per i
tassisti il nocciolo della questione non è la lotta alla “sharing
economy” o alle varie articolazioni del capitalismo pervasivo
globalizzato: ogni tassista infatti, al di fuori del proprio problema
corporativo, è ben contento di aumentare il proprio apparente potere
d’acquisto girando il mondo con le compagnie low fares, pernottando su Airbnb, prenotando la cena su Foodora o Deliveroo, scaricando musica da Spotify, spostandosi con Blablacar, e
via elencando le innumerevoli altre applicazioni che “disintermediano”
il rapporto tra “produttore” e “consumatore”. Non fossero direttamente
coinvolti, non avrebbero problemi neanche a servirsi di Uber, ovviamente
fuori dal proprio territorio lavorativo. Alla protesta tassista, ovvero
al fascismo in essa contenuta, non interessa e anzi viene
esplicitamente rifiutato il discorso generale di critica dell’economia
politica contemporanea. Ai tassisti interessa unicamente difendere il
proprio status economico, che è quello di una piccola borghesia che vede
perdere il proprio potere di rendita stabilito dalla licenza. Una
licenza per cui si sono indebitati, e che li avrebbe dovuti trasformare,
nei sogni di gloria di questa borghesia pezzente, in rentier post-litteram. Questo
investimento viene ora messo in crisi dalle trasformazioni del
capitalismo liberista, che per definizione spezza ogni piccola rendita
di posizione che non sia fondata sulle grosse concentrazioni
finanziarie. Il resto dei rapporti sociali non verrebbero minimamente
intaccati dall’eventuale vittoria della lobby tassista sul governo. E’
una mobilitazione ad uso e consumo di una categoria, non generale né
generalizzabile. L’esatto opposto delle vertenze sindacali, che nello
stesso momento in cui risolvono un problema particolare (la singola
vertenza), guadagnano diritti per tutta la società salariata. Questa la
differenza tra protesta sindacale e lobbismo corporativo: quest’ultimo
si caratterizza come reazione a una perdita del privilegio, non
allargamento dei diritti erga omnes.
Ovviamente, alle spalle della retorica sulla sharing economy si
nasconde il frutto avvelenato del più complessivo attacco ai diritti
sociali dei lavoratori salariati. Un attacco che non avviene “per
decreto”, non è cioè volontà politica di questo o quel soggetto
ideologico. Sta, al contrario, nella dinamica stessa del capitalismo,
che innovando costantemente il proprio modo di riproduzione fa macerie
delle modalità non più utili alla valorizzazione del profitto. Uber, come il resto della sharing economy, non
è stato “inventato” o concepito assecondando qualche linea politica: è
l’inevitabile traiettoria del capitalismo nella sua forma liberista
contemporanea. I tassisti, in questo simili al mondo artigianale dei
mestieri dileguatosi alla fine dell’Ottocento, non possono più essere
compresi nel flusso economico-produttivo dell’economia globale. Per
questo spariranno, nel senso che rimarranno come curiosità turistica, ma
perderanno ogni funzione reale nella mobilità urbana. Come i risciò in
Cina, chi ne deterrà il monopolio continuerà magari a guadagnarci, ma
trasformando il proprio ruolo da centrale a marginale. D’altronde, il
fordismo non ha certo estinto il piccolo o medio artigianato. Ne ha
cambiato semplicemente di segno: da modello produttivo-riproduttivo
tipico di una certa società, a fantasia elitaria per ristrette cerchie
abbienti della popolazione.
Questo non si traduce evidentemente in una resa alla pervasività di
un liberismo che tende apparentemente alla “condivisione” riproduttiva,
in realtà al controllo monopolistico dei fattori di produzione. Ma è una
battaglia politica, non corporativa contro questa o quella fastidiosa
applicazione post-moderna. Ed è, per ciò stesso, una battaglia generale
contro un modello produttivo, che non preveda fughe all’indietro verso
bei mondi antichi, ma la capacità di controllo di quei flussi del
capitale oggi completamenti anarchici e, proprio per questo, controllati
dal capitale più grande su quello più piccolo. Non ci sarà alcuna
resistenza che non passi dal controllo pubblico, cioè politico, su quei
flussi del capitale. Ma questo è proprio ciò che i tassisti non
vogliono, perché manderebbe in crisi le fondamenta su cui si basa quel
sogno di gloria di questa borghesia pezzente: mimare un modo di
riproduzione capitalistico senza possederne i capitali.
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