Un bell’intervento dell’editore Giuseppe
Laterza (titolare della casa editrice che pubblicò Benedetto Croce)
apparso su la Repubblica del 25 febbraio scorso affronta, sotto il
titolo “Ma la politica non è morta”, un tema assolutamente fondamentale.
Laterza mette in discussione, infatti, un punto decisivo partendo da una valutazione molto precisa “Dopo
la caduta del muro di Berlino in effetti si brindò non solo alla fine
dell’ideologia comunista ma di tutte le ideologie, considerandole
camicie di forza del pensiero, strumenti di autoritarismo culturale e
politico. Molti liberali non consideravano la loro come ideologia: la
intendevano piuttosto come l’unica concessione del mondo possibile per
chi avesse a cuore la libertà”.
La conclusione che Laterza trae da questo assunto la si trova più avanti nel testo: “Date
per morte tutte le ideologie, la maggioranza dei professionisti della
politica ha smesso da tempo di citare i libri che ha letto mentre si
dedica con passione ad inseguire i ritmi e le logiche della
comunicazione televisiva. Siamo alla politica del giorno per giorno, la
cui agenda è dettata dai sondaggi e in cui la personalità dei capi fa
premio sulla qualità dei programmi”.
Insiste Laterza “Certo, bisogna fare
una rivoluzione culturale. Compito molto difficile ma (la storia ci
dice) non impossibile. E oggi quanto mai necessario”.
Un discorso antico, quello di Laterza,
ma sempre attuale e che pone un interrogativo: come si passa dalle idee
alle opinioni e dalle opinioni all’azione politica?
Attraverso quali strumenti d’iniziativa
culturale, di aggregazione sociale, di raccolta di consenso, di
formazione e sviluppo delle decisioni a tutti i livelli?
Interrogativi ai quali fornivano una
risposta le grandi agenzie e le grandi strutture politiche organizzate, i
partiti, le fondazioni culturali, i sindacati: soggetti oggi tutti
azzerati nella pratica dall’omologazione avvenuta attorno al feticcio
dell’immagine intesa quale esaustivo veicolo per condurre al potere in
tutti i campi.
Nel frattempo sono cresciute le
contraddizioni, si sono spazzati i fili dell’intreccio sociale, non
esiste più rapporto tra progresso, sviluppo, eguaglianza : anzi quel
rapporto si è rovesciato in un quadro di assoluta dequalificazione
dell’agire politico.
Restiamo in Italia.
Ormai la condizione culturale del Paese è talmente ai minimi termini laddove la situazione si presenta in queste condizioni:
- Nel 2015 si stima che le famiglie
residenti in condizione di povertà assoluta siano pari a 1 milione e 582
mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila (il numero più alto dal
2005 a oggi).
L’incidenza della povertà assoluta si mantiene sostanzialmente stabile sui livelli stimati negli ultimi tre anni per le famiglie, con variazioni annuali statisticamente non significative (6,1% delle famiglie residenti nel 2015, 5,7% nel 2014, 6,3% nel 2013); cresce invece se misurata in termini di persone (7,6% della popolazione residente nel 2015, 6,8% nel 2014 e 7,3% nel 2013).
Quest’andamento nel corso dell’ultimo anno si deve principalmente all’aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9 a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4 a 28,3%), in media più numerose. - I nuovi dati riguardano l’Italia nel
2016 arrivano dall’Ocse, che nel suo rapporto sulle disuguaglianze
calcola che l’1% più benestante della popolazione della Penisola detiene
il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo
rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9 per cento degli
attivi totali. La crisi ha inoltre accentuato le differenze, dato che la
perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata del 4% per
il 10% più povero della popolazione e solo dell’1% per il 10% più
ricco. Quanto ai redditi, nel 2013 il 10% più ricco della popolazione
guadagnava undici volte di più del 10% più povero.
La ricchezza nazionale netta, riporta ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (il cosiddetto “primo quintile”) detiene infatti il 61,6% della ricchezza e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, di cui appena lo 0,4% per il 20% più povero.
Anche nella fascia più alta, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il vertice della piramide, cioè 5% più ricco della popolazione, detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco. - 40,1 è il tasso di disoccupazione
giovanile in Italia 22%, è la percentuale media di disoccupazione
giovanile nell’Eurozona 19,4%, è il tasso di disoccupazione giovanile
avuto in Italia nel 2007, uno dei tassi più bassi mai registrati.
Uno dei grandi problemi del nostro Paese è sicuramente la disoccupazione giovanile (15-24 anni), un male non solo economico ma anche psicologico e culturale per i giovani italiani. Le cause della disoccupazione sono ricondotte al sistema scolastico, ai cattivi collegamenti fra scuola e impresa, ad una diffusa mentalità anti-impresa e alla criminalità organizzata .Secondo una rilevazione datata dicembre 2015, il tasso di disoccupazione in Italia è del 37,9%, in Germania del 7%, in Grecia del 48,6%. Il tasso medio dell’Eurozona è del 22%.
Nel 2007 il nostro Paese ha avuto un livello di disoccupazione basso (disoccupazione giovanile al 19,4%, disoccupazione totale al 5,9%) a dimostrazione della cattiva conduzione della cosa pubblica così come è stata attuata in Italia nella fase delle crisi della globalizzazione a causa del processo di finanziarizzazione dell’economia e di crescita dei conflitti armati nel mondo.
Dove si sviluppa allora, nella
situazione data, la battaglia delle idee in Italia: non certo rispetto
ai temi che Laterza suggerisce nel suo intervento (che in realtà appare
del tutto anomalo rispetto al quadro politico – culturale corrente) ma
attorno al tetto degli stipendi alla RAI fissato in 240.000 euro
all’anno e al riguardo del quale alcuni inamovibili che si aggirano
attorno ai 2 milioni protestano e c’è chi argomenta che riducendo i
compensi come previsto dalla legge la RAI finirebbe “fuori mercato”.
E’ questo il livello drammatico della
situazione nella quale ci troviamo e questo il livello infimo della
discussione di merito che si sta sviluppando: ben oltre lo scenario
delle mosse delle contromosse che il vieto politicismo corrente ci sta
mostrando.
Non ci si venga, alla fine, a replicare
che descrivere le cose in questo modo (come effettivamente stanno) alla
fine alimenta il cosiddetto populismo (le cui espressioni meramente
verbali, nel caso italiano, alla fine risultano tra l’altro complici
della conservazione di quel potere che ha costruito il disastroso stato
di cose in atto).
Non servirebbe forse portare avanti
un’ideologia alternativa a quella dominante (che non vuol definirsi
tale) adottata da tutti e che ha portato a questi esiti?
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