Quarant’anni fa: l'11 settembre 1973 in Cile il golpe fascista sostenuto dall'amministrazione USA, dal segretario di stato Henry Kissinger, col massacro di migliaia di cileni pose fine al Governo di sinistra, democraticamente eletto, di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende.
Un'esperienza politica avanzata di democrazia
e socialismo, quella di Unidad Popular, che avrebbe potuto cambiare il corso
della storia del Cile, avere ripercussioni internazionali, essere d'esempio per
diversi altri Paesi del mondo.
La vicenda cilena, che pure diede origine a un
ampio dibattito nel movimento comunista internazionale e in particolare in
quello italiano attraverso la riflessione avviata nel PCI dal segretario Enrico
Berlinguer, deve rimanere nella memoria collettiva come un esempio e un monito
incancellabili, in particolare in questi tempi dove davvero si sta cancellando
tutto quanto è stato fatto, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, per il
riscatto del proletariato di tutto il mondo.
Quel giorno
la lama tagliente della tragedia attraversò la vita dei cileni e dei militanti
di sinistra o semplicemente democratici in tutto il mondo.
Cadeva, armi
in pugno, il governo del “Compagno Presidente” Salvador Allende e si apriva
nella lontana, eppur sentita sempre così vicina nazione, chiusa al mondo dalla cordigliera delle Ande
una stagione di massacri e di ferocissima repressione poliziesca.
Con ogni
probabilità, in quel drammatico frangente, si chiuse anche una fase della
storia della sinistra, a livello internazionale: arrivava a compimento una
strategia nata qualche decennio avanti.
La sinistra
europea, in particolare, fu chiamata, all’interno della ferrea logica dei
blocchi in allora ancora imperante, a cercare nuove strade e da questa
constatazione di fatto prese l’avvio della già ricordata riflessione proposta
al PCI proprio da quei fatti e che si tradusse in due proposte politiche,
quella del “compromesso storico” riferita al quadro interno e quella
dell’“eurocomunismo” riguardante il quadro internazionale.
Entrambe
ebbero vita difficile e breve.
Torniamo però
al Cile e al significato politico profondo, si potrebbe dire epocale, che ebbe
l’esito di quella vicenda, contrassegnata – è bene ricordarlo – da un
complesso, anche contradditorio, ma sicuramente avanzato tentativo di governo
all’interno di un sistema capitalistico del resto molto particolare e specifico
come quello cileno.
Il Cile degli
inizi degli anni’70 indicava il culmine di un processo attraverso il quale un
partito “operaista” era riuscito a realizzare la strategia frontista del VII
Congresso dell’Internazionale Comunista (Il Congresso appunto dei “Fronti
Popolari” e della relazione Dimitrov).
A quel
livello l’esperienza di Unidad Popular, il suo trionfo e la successiva
disfatta, trascesero le frontiere politiche e ideologiche dell’America Latina.
La sinistra
cilena, in effetti, conservava fin dai tempi della sua fondazione una capacità
di presenza autonoma del socialismo, nel quadro sociale e politico del Paese.
Una presenza
autonoma che è stata definita come “operaista”, le cui origini strutturali
possono essere spiegate dalla particolare conformazione storica della classe
operaia cilena come “massa isolata”: una conformazione storica precipua che
ebbe, tuttavia, come risultato la costituzione del più potente rapporto fra
lavoratori e cultura socialista che il continente latino americano avesse mai
conosciuto.
Questa
prospettiva di autonomia con cui si costituì politicamente la classe operaia
cilena rappresentò una barriera contro la penetrazione del populismo e spinse
verso la presenza indipendente dei lavoratori verso ognuno dei diversi
tentativi frontisti che, dal 1938 fino all’elezione di Allende, si svilupparono
in Cile alla ricerca di nuovi equilibri politici.
Al momento
dell’elezione di Allende, però i partiti di sinistra cedettero il passo a una
concezione strettamente “sociologizzante” della politica, secondo la quale lo
Stato non rappresentava altro che un campo passivo in cui si riflettevano gli
interessi di gruppi e di categorie sociali.
Non fu così possibile , come scrive Juan
Carlos Portantiero nel saggio sul marxismo latinoamericano contenuto nella
Storia del Marxismo edita da Einaudi nel 1982, “ far valere i margini di
produttività politica che il potere genera autonomamente”.
In sostanza
era assente, nella strategia di Unidad Popular una vera e propria “teoria dello
stato”: un limite complessivo che si era
già presentato nel corso dell’intera esperienza dei “Fronti Popolari” che,
appunto, con la tragedia cilena chiuse il suo ciclo aperto dalla duplica
vittoria elettorale in Spagna e in Francia nel 1936.
In quel varco
aperto si infilò, vincente, il colpo di stato del generale Pinochet,
Un “golpe” appoggiato
e forse organizzato dagli USA, che risultò alla fine un insieme di
conservatorismo e di irrompente novità; da un lato il regime conservò i tratti
tipici dei regimi militari degli anni’70 (con forti assonanze con quello dei
colonnelli greci), compiendo esecuzioni e massacri da parte delle forze
dell’ordine o di gruppi paramilitari, esercitando la tortura sistematica dei
prigionieri, costringendo all’esilio in massa gli oppositori politici.
Dall’altra
parte, sul piano economico, si sviluppò una politica ultraliberista, dando così
dimostrazione tra l’altro, che il liberalismo politico e la democrazia non
debbono essere naturalmente associati al liberismo economico.
Nel “caso
cileno”, però, c’era qualcosa di più: la volontà di sperimentazione per una
nuova fase dell’economia a livello internazionale; quella del liberismo sfrenato
che abbiamo conosciuto universalmente denominato come “reaganismo –
tachterismo”.
Un sistema risultato, alla fine, in grado di
produrre egemonia, non soltanto rispetto all’andamento del ciclo capitalistico,
ma rispetto alla cultura, al senso comune, all’agire politico in una dimensione
globale.
Un’egemonia
che perdura tuttora, anche perché le forze politiche semplicemente
progressiste, se non socialdemocratiche, se non comuniste situate in quella
parte del mondo non vincolata al regime sovietico e al suo successivo crollo,
non sono riuscite a proporre nulla d’alternativo, anzi – alla fine - si sono
mimetizzate all’interno di quel sistema assumendone, sul piano politico –
culturale, i tratti salienti in un gigantesco processo di omogeneizzazione da
quale non sono più uscite e che, nella sostanza ha rappresentato l’elemento
fondativo della crisi globale che stiamo vivendo.
L’11
Settembre 1973 in Cile non rappresentò, quindi, soltanto la sconfitta di Unidad
Popular e il tentativo di costruire, in un angolo peculiare del Sud America, un
fronte popolare non venato da populismo:
si trattò dell’avvio di una sconfitta storica per le forze socialdemocratiche,
socialiste e comuniste a livello internazionale.
Una
sconfitta, prima di tutto politica e culturale, nella quale sono mutati
distintivi sia di una sinistra “possibile” , sia di una sinistra posta in grado
di riproporre “l’Assalto al Cielo”.
Una sconfitta
della quale stiamo pagando ancora adesso amare conseguenze, smarriti come siamo
sul piano dell’identità e privi di una strategia politica complessiva.
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