venerdì 27 settembre 2013

"Dalla recessione non si esce. La lotta tra capitali ci stritola". Intervista ad Antonella Stirati

"Dalla recessione non si esce. La lotta tra capitali ci stritola". Intervista ad Antonella Stirati
Da una parte le elezioni in Germania, dall’altra i numeri sul Pil negativo dell’Italia, insomma stiamo entrando in una fase in cui le politiche di austerità si svelano in tutta la loro drammatica infondatezza…
Il protrarsi di un periodo così lungo della contrazione del pil ha conseguenze cumulative. All’inizio il sistema regge nel senso che le imprese aspettano a licenziare e cercano di resistere magari indebitandosi e man mano che la contrazione continua via via aumenta il numero delle imprese che sono costrette ad adeguare produzione ed occupazione allo stato reale della domanda.
Gli unici valori positivi sono i dati sull’esportazione…
E’ vero, col mercato interno che si contrae, le imprese che ci riescono stanno cercando di esportare. E un po’ il risultato si vede. Però con l’avvertenza che si può cercare di aumentare le vendite dei propri prodotti in zone extraeuro ma all’interno dell’euro, con tanti paesi in recessione, c’è il rischio che diminuiscano. Non vedo comunque segnali di ripresa significativa che possano determinare una inversione di tendenza. E così si perdono pezzi del sistema produttivo con molte imprese che chiudono, e a questo si aggiungono le acquisizioni estere. Nel 2010, quando in molti sottoscrivemmo la ‘lettera degli economisti’, era già chiaro che i paesi in difficoltà e costretti a politiche recessive, sia a causa della caduta dei valori azionari sia per le difficoltà delle imprese e delle banche determinate dalla recessione si esponevano al rischio di acquisizioni estere a basso prezzo. Una tendenza pericolosa per il Paese. Si perdono infatti grandi imprese e settori strategici potenzialmente importanti per lo sviluppo tecnologico e la politica industriale.
E tutta la retorica dell’attrazione degli investimenti esteri?
L’Italia è un mercato in contrazione e quindi è piuttosto difficile che sia la meta di investimenti che vengono a creare una capacità produttiva aggiuntiva. E' più probabile che gli investimenti esteri prendano la forma di acquisizioni di imprese già esistenti e che sono in difficoltà e a basso costo. Per chi le acquisisce hanno spesso un valore importante anche perché servono ad acquisire posizioni di monopolio e a ridurre la concorrenza. Attirare investimenti esteri non è sempre un fatto positivo in se. In circostanze particolari, grazie al dumping fiscale, al fatto di essere stata la testa di ponte per entrare nei mercati europei e direi anche grazie alla lingua inglese, l’Irlanda ha potuto crescere grazie a forti investimenti esteri. Ma ha comunque pagato un prezzo elevato,per esempio in termini di esportazione dei profitti fatti dalle multinazionali che avevano investito lì.
Torniamo al tema euro. La Germania va avanti per la sua strada, ma i mercati non le vengono a mancare?
Il funzionamento del capitalismo comporta sempre anche la concorrenza tra capitali. Non è si deve pensare che i capitalisti come classe abbiano particolare interesse a politiche macroeconomiche di sostegno alla domanda. Se fallisce Fiat si amplia il mercato per Bmw. Se i rivali li fai morire accumuli vantaggio. Vale per le imprese e anche per il sistema bancario. Chi risentirà della caduta della domanda nei paesi satelliti in prospettiva saranno semmai i lavoratori tedeschi, se e quando questo avrà conseguenze per occupazione e salari in Germania. Ad esempio la fortissima disoccupazione in molti paesi Europei sta già causando forti flussi di manodopera verso la Germania. Comunque per ora i tedeschi hanno la percezione di star bene, o comunque molto meglio degli altri, e questo si riflette nel voto.
I tassi di interesse sul debito pubblico nei paesi europei in difficoltà hanno valori elevati, che rendono molto oneroso il tentativo di ridurre il debito E quindi l’economia reale è come condannata. Cosa prevedi?
Se noi rispettiamo i paletti che ci sono stati dati ho qualche dubbio che la ripresina dell'1% prevista per il prossimo anno si materializzi. Penso che comunque la situazione dei paesi 'periferici' rimarrà molto grave nei prossimi anni. Credo che con l’intervento sulla liquidità e quindi di fatto sui tassi di interesse Draghi abbia preso in mano il controllo sugli 'spread' (cioè i tassi di interesse sul debito pubblico), che non sono più in balia dei mercati finanziari. Diventa quindi più difficile che il sistema imploda per effetto di attacchi speculativi, anche se un'implosione potrebbe essere forse causata se emergessero gravi problemi nel sistema bancario. Nell’immediato ho l’impressione che più che un crollo repentino quello a cui assisteremo è la persistenza, e anzi l'aggravamento della attuale situazione dell'economia reale e dell'occupazione. I paesi 'periferici', a meno che non ci sia uno scatto delle classi dirigenti, o una esplosione dello scontento popolare e del conflitto sociale, andranno avanti nelle politiche di austerità e quindi nella recessione. E gli effetti tendono ad essere cumulativi: così come le imprese, all’inizio le famiglie resistono e lo fanno grazie ai risparmi, agli ammortizzatori sociali, all’indebitamento. Ma a un certo punto non ce la fanno più. L’esito di questi processi dipende però dalle reazioni politiche e sociali, non è facile capire cosa accadrà.
Il governo italiano, come al solito, ci mette del suo, in senso negativo.
Sono stupefatta dalla mancanza del senso della gravità delle cose della classe dirigente italiana. Da mesi si discute sul nulla. Come con il dibattito su Iva e Imu. Se si accetta il quadro complessivo della politica di bilancio (che io credo invece dovrebbe essere messo in discussione), la somma deve dare un certo risultato, se tagli un’imposta ne devi mettere un’altra, e abolire completamente l’Imu su tutte le prime case per poi aumentare l’Iva ha un effetto chiaramente sfavorevole ai redditi più bassi
Tra le ipotesi di cui si discute apertamente è una modifica in aree differenziate partendo dall’euro.
All’interno di aree valutarie un po’ più omogenee i problemi all’inizio si attenuerebbero ma poi col tempo si porrebbero comunque. Questa idea che si debba per forza fare la moneta unica e per poi arrivare a maggiore unità politica mi sembra una follia. In America latina stanno facendo il contrario: integrazione economica e coordinamento delle politiche economiche, ma non una moneta unica. La sovranità monetaria è un pezzo importante di cosa definisce una nazione e uno strumento essenziale nella gestione della politica economica. Un processo ordinato richiede che prima si faccia la nazione (o lo stato federale) e poi, o contestualmente, la moneta. Finché esistono paesi con propri governi, bilanci, ordinamenti, essi devono avere anche la sovranità monetaria. La moneta a due velocità mi sembra una proposta messa lì per non avere il coraggio di dire che la moneta unica è fallita. Non mi appassiona molto. L’unica cosa che potrebbe forse consentire di non mettere in discussione la moneta unica è andare verso un assetto delle istituzioni e delle politiche europee che consenta a tutti i paesi di crescere e di avere bassa disoccupazione. Il miglioramento delle condizioni di tutti favorisce la coesione sociale e politica. Queste condizioni potrebbero essere create da un lato dando mandato alla banca centrale di essere garante di ultima istanza dei debiti pubblici, e di mantenere bassi tassi di interesse sul debito pubblico di tutti i paesi, dall’altro consentendo ai singoli paesi di utilizzare gli strumenti della spesa pubblica e della politica industriale per mantenere sul proprio territorio una base produttiva sufficiente. Se ci fosse un assetto più keynesiano allora forse si potrebbe salvare la moneta unica senza uccidere democrazia e cittadini. Ma non credo proprio che sia questa la tendenza che emergerà nel prossimo futuro. In realtà in un certo senso si potrebbe dire che la moneta unica nasce proprio, al contrario, per creare dei vincoli che rendano impraticabile il cosiddetto modello sociale europeo, che può sopravvivere solo in parallelo ad un assetto ‘keynesiano’ delle istituzioni e della politica economica e di livelli elevati di occupazione.
* da Controlacrisi.org

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