Siamo di nuovo qui, alla ricerca della sinistra perduta. Anime volonterose tentano di suggerire rimedi e proporre rilanci dopo la caduta: l’ennesima. Volti noti, perlopiù, dirigenti o ex dirigenti dei partiti, intellettuali d’area, ai quali di tanto in tanto si aggiunge qualche figura nuova. Sintetizzando rozzamente, le proposte in campo sono tre. Ritentare di rimettere insieme i cocci, partendo dall’asse Prc-Pdci. Puntare sulla scissione del Pd, recuperando la sua anima «di sinistra».
Realizzare un rassemblement democratico in nome della difesa della Costituzione e della legalità. Riprovare con i movimenti, partendo dai bisogni reali, dai “territori”, dalla richiesta di partecipazione, ricuperando “lo spirito dei referendum”. La fluidità della situazione sociale, nel precipitare di una crisi di cui non si intravvede la fine, forse perché la fine sarebbe il venir meno di un’arma letale nelle mani del padronato e delle classi dirigenti.
La crisi è il pretesto formidabile per imprimere una drastica accelerazione all’azione avviata da tempo, a livello internazionale, di riduzione del sistema di protezione delle fasce deboli della popolazione, che chiamiamo anglofonicamente welfare state. E l’Europa – entità presentata come frutto di una più avanzata democrazia sovranazionale, il sogno dei Rossi e degli Spinelli e così via, ma in realtà, come ben sappiamo, una congregazione di banchieri che disegna un progetto di rinnovato dominio di oligarchie a livello continentale – l’Europa una promessa trasformatasi in minaccia è divenuta l’alibi altrettanto forte per giustificare qualsiasi efferatezza sociale. «È l’Europa che ce lo chiede», accanto agli “impegni internazionali”, i “vincoli delle alleanze”, ha portato a teorizzazioni come «meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli», che stanno giustificando mostruosità come il progetto Tav, il Muos, l’acquisto degli F35 e così via.
Sempre più, i governi sovranazionali, nazionali e locali – senza apprezzabile differenza fra centrodestra e centrosinistra (ci sarà pure qualche riflessione da fare non puramente nominalistica al riguardo) – si stanno rivelando l’espressione di una concezione politica che potremmo definire alla Botero: no, non Fernando, il pittore contemporaneo, ma Giovan Battista, il teorico italiano del XVI secolo, che nell’opera Della ragion di Stato , aveva definito lo Stato «dominio fermo sui popoli». Ecco, noi stiamo smarrendo l’essenza, il senso e le ragioni della democrazia, e di nuovo, la distanza tra gli schieramenti politici, in Italia, in particolare, si è talmente assottigliata da diventare pressoché invisibile.
Le “larghe intese”, con il loro grottesco contorno politico e mediatico, ne sono l’estrinsecazione. Possibile che il presidente della Repubblica proceda, con ammirevole coerenza, a uno smantellamento sistematico della legalità istituzionale, e trovi incoraggiamento nei grandi organi di stampa? Possibile che in nome della stabilità – che, naturalmente, ci chiedono “i mercati finanziari” (ah, lo spread !) – dobbiamo accettare una postdemocrazia che sta diventando ex democrazia? Ma non c’è in Italia, addirittura al governo del paese, come di innumerevoli enti territoriali, e di istituzioni finanziarie, culturali, politiche, un partito che si chiama “democratico”? E torniamo al Pd, dunque.
I conti con questo imponente rudere della storia vanno fatti non tra un anno ma ora. Subito. Il problema si riassume nel quesito: il Pd vuole ammettere che la sua stessa fondazione è stata una forzatura storica? Non è possibile ricuperare certo l’identità di partito nato dal Pci, ma è possibile, e credo necessario, che la parte più sensibile e intelligente della dirigenza, se opportunamente sospinta dalla base (ma dov’è finito Occupy Pd?), faccia una autocritica e provi a far una marcia indietro, che sarebbe la sola vera marcia in avanti. Occorrerebbe una rottura epocale, però. E personalmente la vedo come una possibilità assai remota, quand’anche si verificasse una scissione. È ormai avvenuta una triste mutazione genetica, in seno al partito, e la nuova generazione dei T-Q appare assai peggiore della precedente. I rottamatori appaiono solo più cinici dei rottamandi.
E che la speranza del rinnovamento sia legata al mero tratto generazionale – un discorso che richiama la parte più becera del messaggio politico di Beppe Grillo – appare penosa. D’altro canto, il rilancio della sempre reclamata e fallita (anche quando realizzata sul piano formale) unità a sinistra, dopo l’ultima prova elettorale non sembra avere prospettive di respiro, anche quando.
Che cosa rimane? Forse la chance maggiore di tentare una ennesima ripartenza risiede nell’effettivo superamento della forma partito, nella rinuncia alle identità politiche, e nello sforzo di uscire dallo stesso recinto del “popolo di sinistra”: il popolo dei referendum, quello di “Se non ora quando?”, i piemontesi e i siciliani automobilitati contro le devastazioni ambientali decise da chi neppure li ha consultati, i pastori sardi presi a manganellate dalle forze dell’ordine, i comitati spontanei che sorgono ogni settimana qua e là per la penisola per altrettante piccole ma buone cause, i cassintegrati e gli esodati, gli immigrati di cui una opinione pubblica assopita accetta la riduzione in schiavitù… Costoro rappresentano un bacino politico assai più ampio, al quale occorre parlare con un linguaggio diretto, estraneo agli alchimismi della politica professionale, capace di intercettare i loro bisogni, sollecitandoli a porre domande, prima di dare ricette che non rispondano veramente alle necessità di cui quelle domande sono espressione.
Occorre forse una politica dal basso, diffusa, e soprattutto trasparente. L’esperienza fallimentare di Rivoluzione civile deve insegnarci qualcosa: tutto quello che fu fatto per mettere su quel baraccone grottesco (che pure all’inizio ho sostenuto, anche se ho pubblicamente messo in guardia dai rischi, che puntualmente si sono materializzati diventando la spiegazione della catastrofe) va preso a modello e rovesciato. Si può tentare di costruire un blocco sociale, ma senza demiurghi, senza tavole segrete che decidano mentre pubblicamente si parla di democrazia, raccogliendo le istanze delle varie realtà locali, sociali, intellettuali.
Disegnando un programma politico, ai diversi livelli, solo sulla base di una discussione larga e partecipata: la democrazia prima di essere un ideale deve essere una pratica. Solo su tali basi si potrà dar vita a una pur indispensabile leadership. Tutto il resto mi sembra destinato a fallire. Ancora una volta.
Realizzare un rassemblement democratico in nome della difesa della Costituzione e della legalità. Riprovare con i movimenti, partendo dai bisogni reali, dai “territori”, dalla richiesta di partecipazione, ricuperando “lo spirito dei referendum”. La fluidità della situazione sociale, nel precipitare di una crisi di cui non si intravvede la fine, forse perché la fine sarebbe il venir meno di un’arma letale nelle mani del padronato e delle classi dirigenti.
La crisi è il pretesto formidabile per imprimere una drastica accelerazione all’azione avviata da tempo, a livello internazionale, di riduzione del sistema di protezione delle fasce deboli della popolazione, che chiamiamo anglofonicamente welfare state. E l’Europa – entità presentata come frutto di una più avanzata democrazia sovranazionale, il sogno dei Rossi e degli Spinelli e così via, ma in realtà, come ben sappiamo, una congregazione di banchieri che disegna un progetto di rinnovato dominio di oligarchie a livello continentale – l’Europa una promessa trasformatasi in minaccia è divenuta l’alibi altrettanto forte per giustificare qualsiasi efferatezza sociale. «È l’Europa che ce lo chiede», accanto agli “impegni internazionali”, i “vincoli delle alleanze”, ha portato a teorizzazioni come «meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli», che stanno giustificando mostruosità come il progetto Tav, il Muos, l’acquisto degli F35 e così via.
Sempre più, i governi sovranazionali, nazionali e locali – senza apprezzabile differenza fra centrodestra e centrosinistra (ci sarà pure qualche riflessione da fare non puramente nominalistica al riguardo) – si stanno rivelando l’espressione di una concezione politica che potremmo definire alla Botero: no, non Fernando, il pittore contemporaneo, ma Giovan Battista, il teorico italiano del XVI secolo, che nell’opera Della ragion di Stato , aveva definito lo Stato «dominio fermo sui popoli». Ecco, noi stiamo smarrendo l’essenza, il senso e le ragioni della democrazia, e di nuovo, la distanza tra gli schieramenti politici, in Italia, in particolare, si è talmente assottigliata da diventare pressoché invisibile.
Le “larghe intese”, con il loro grottesco contorno politico e mediatico, ne sono l’estrinsecazione. Possibile che il presidente della Repubblica proceda, con ammirevole coerenza, a uno smantellamento sistematico della legalità istituzionale, e trovi incoraggiamento nei grandi organi di stampa? Possibile che in nome della stabilità – che, naturalmente, ci chiedono “i mercati finanziari” (ah, lo spread !) – dobbiamo accettare una postdemocrazia che sta diventando ex democrazia? Ma non c’è in Italia, addirittura al governo del paese, come di innumerevoli enti territoriali, e di istituzioni finanziarie, culturali, politiche, un partito che si chiama “democratico”? E torniamo al Pd, dunque.
I conti con questo imponente rudere della storia vanno fatti non tra un anno ma ora. Subito. Il problema si riassume nel quesito: il Pd vuole ammettere che la sua stessa fondazione è stata una forzatura storica? Non è possibile ricuperare certo l’identità di partito nato dal Pci, ma è possibile, e credo necessario, che la parte più sensibile e intelligente della dirigenza, se opportunamente sospinta dalla base (ma dov’è finito Occupy Pd?), faccia una autocritica e provi a far una marcia indietro, che sarebbe la sola vera marcia in avanti. Occorrerebbe una rottura epocale, però. E personalmente la vedo come una possibilità assai remota, quand’anche si verificasse una scissione. È ormai avvenuta una triste mutazione genetica, in seno al partito, e la nuova generazione dei T-Q appare assai peggiore della precedente. I rottamatori appaiono solo più cinici dei rottamandi.
E che la speranza del rinnovamento sia legata al mero tratto generazionale – un discorso che richiama la parte più becera del messaggio politico di Beppe Grillo – appare penosa. D’altro canto, il rilancio della sempre reclamata e fallita (anche quando realizzata sul piano formale) unità a sinistra, dopo l’ultima prova elettorale non sembra avere prospettive di respiro, anche quando.
Che cosa rimane? Forse la chance maggiore di tentare una ennesima ripartenza risiede nell’effettivo superamento della forma partito, nella rinuncia alle identità politiche, e nello sforzo di uscire dallo stesso recinto del “popolo di sinistra”: il popolo dei referendum, quello di “Se non ora quando?”, i piemontesi e i siciliani automobilitati contro le devastazioni ambientali decise da chi neppure li ha consultati, i pastori sardi presi a manganellate dalle forze dell’ordine, i comitati spontanei che sorgono ogni settimana qua e là per la penisola per altrettante piccole ma buone cause, i cassintegrati e gli esodati, gli immigrati di cui una opinione pubblica assopita accetta la riduzione in schiavitù… Costoro rappresentano un bacino politico assai più ampio, al quale occorre parlare con un linguaggio diretto, estraneo agli alchimismi della politica professionale, capace di intercettare i loro bisogni, sollecitandoli a porre domande, prima di dare ricette che non rispondano veramente alle necessità di cui quelle domande sono espressione.
Occorre forse una politica dal basso, diffusa, e soprattutto trasparente. L’esperienza fallimentare di Rivoluzione civile deve insegnarci qualcosa: tutto quello che fu fatto per mettere su quel baraccone grottesco (che pure all’inizio ho sostenuto, anche se ho pubblicamente messo in guardia dai rischi, che puntualmente si sono materializzati diventando la spiegazione della catastrofe) va preso a modello e rovesciato. Si può tentare di costruire un blocco sociale, ma senza demiurghi, senza tavole segrete che decidano mentre pubblicamente si parla di democrazia, raccogliendo le istanze delle varie realtà locali, sociali, intellettuali.
Disegnando un programma politico, ai diversi livelli, solo sulla base di una discussione larga e partecipata: la democrazia prima di essere un ideale deve essere una pratica. Solo su tali basi si potrà dar vita a una pur indispensabile leadership. Tutto il resto mi sembra destinato a fallire. Ancora una volta.
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