di Fabrizio Marcuzzi, Umbrialeft.it
Quello sulla sicurezza a Perugia è un dibattito drogato. E non a causa dei quintali di sostanze che vengono consumati in città. A corromperlo sono titoli di giornale roboanti quanto superficiali, esternazioni demagogiche di politici a caccia di consensi facili. Ma soprattutto la tentazione in cui cadono in moltissimi perché rassicurante e in grado di risollevare chiunque: quella di attribuire sempre ad altri o a qualcos’altro la responsabilità di ciò che non ci piace, della situazione disagevole in cui ci troviamo. Succede perché la sicurezza di una comunità è un rompicapo per risolvere il quale occorre agire tenendo conto di diverse variabili. E come tutte le questioni complesse necessita di un lavoro lungo, paziente e mirato al quale in questo caso si deve aggiungere un’assunzione piena di responsabilità da parte di diversi soggetti. In assenza di questi ingredienti la comunità cede ai luoghi comuni, agli abbagli che soddisfano gli istinti ma negano la possibilità di giungere a soluzioni efficaci.
È un abbaglio quello che fa coincidere la sicurezza con l’inasprimento della repressione. Quest’ultima rappresenta solo uno dei tanti componenti per garantire l’incolumità dei cittadini, e neanche il più importante. Anzi. Dai luoghi in cui la sicurezza viene mantenuta con le divise in strada e i coprifuoco in genere si tenta di scappare. La repressione è un po’ come l’antibiotico che si assume quando ci si ammala. Medicina che fiacca l’organismo e di cui si farebbe volentieri a meno se solo una situazione straordinaria non la rendesse necessaria. Certo è che un organismo che voglia considerarsi sano non può vivere d’antibiotico.
È un abbaglio il ritenere che impegnando uomini e risorse solo per inseguire il piccolo spacciatore con tre dosi in tasca nei vicoli del centro si possa risolvere il problema delle sostanze. Tolto di mezzo quello, ci saranno altri tre-quattro disperati pronti a prendere il suo posto. Il fiume di eroina e cocaina - enorme in questa città, e che coinvolge anche molti insospettabili in giacca e cravatta - lo si blocca alla sorgente. Con un’azione di intelligence sovra-territoriale mancata in tutti questi anni a causa - oltre che di pura e semplice miopia - di incrostazioni burocratiche che parcellizzano l’attività delle forze dell’ordine, rendendola sterile perché concentrata troppo sul particolare e incapace di individuare i flussi e le organizzazioni attraverso i quali le polveri inondano la città.
E lo si prosciuga, il fiume di sostanze, anche agendo alla foce. E qui si arriva al cuore del problema. Perché, come per qualsiasi altro bene, anche per eroina e cocaina vale il principio della domanda e dell’offerta: non ci sarebbero tanti spacciatori pronti a vendere le loro mercanzie a ogni ora del giorno e della notte se non ci fossero tanti, tantissimi acquirenti. Solo che, come per proteggere gli occhi da uno spettacolo che non piace, la comunità è portata a vedere solo una metà del problema, quella dei fornitori - in genere altri, stranieri - sorvolando sui fruitori. Perché in questo caso la comunità dovrebbe parlare di sé. E anche qui potrebbe farsi facilmente accecare dagli abbagli di chi propaganda la repressione-contro-i tossici-punto-e-basta. Ma se i tossici sono in così grande numero, vale la pena domandarsi se per caso c’è qualcosa che non va in noi. In come viviamo le città, in come ci rapportiamo gli uni con gli altri, nelle aspirazioni negate, nel futuro rapito, nelle vite a metà che in tanti sono costretti a trascinare avanti.
È la città, cioè la cornice dell’agire di tutti noi, che occorre ripensare collettivamente trovando il coraggio e la forza. Trasformandola dall’attuale scatola contenente atomi che non interagiscono a teatro a misura delle persone che si trovano a viverci dentro. Perché, questo è il punto, sicurezza non è sinonimo né di divise, né di repressioni cieche e inutili, né di sindaci-sceriffo, come vorrebbero in molti, in troppi. Sicurezza è “vivere bene”. In quartieri pensati per chi li vivrà, accoglienti e pullulanti di persone le più diverse, con bambini liberi di giocare in strada senza l’assillo delle auto che sfrecciano, col commercio che prospera perché serve e non specula, con musica e chiasso allegro, anche.
La sicurezza viene da sé laddove c’è una comunità consapevole di essere tale, attenta e per questo esigente nei confronti di chi la governa; anzi, tendente all’autogoverno; spinta a chiedere il meglio, in termini di inedite e multidisciplinari politiche di animazione territoriale, perché dà a sua volta del suo meglio.
L’esatto contrario di quello che è ben rappresentato da alcune aree della Perugia desertificata, incupita, guardinga e malfidata di questi ultimi quindici anni. Quella delle cantine del centro senza neanche finestre per guardare fuori date in affitto per pagarsi il mutuo per la villetta in collina. Quella di strade storiche per secoli operose e gaie dove ora regnano un silenzio ottundente ai limiti del mortifero e i cartelli “affittasi” e “vendesi”. Un panorama in cui la parola sicurezza ha perso di senso. Sfigurata da abbagli che appagano gli istinti e sono diventati comodi alibi. Ma che la negano in radice la sicurezza. Perché dimenticano che quella parola fa rima con “vivere bene”. Consapevoli. Responsabili. E liberi.
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