Non c’è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico.
Il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37 miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito pubblico di un valore pari all’8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di qualche anno fa – che però è una storia un po’ diversa – la disfatta dell’offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d’anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i primi tre paesi fecero fu semplicemente trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i costi di gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. Semplicissimo.
Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici (come l’Inps) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione da anziani.
Con le privatizzazioni, invece, gli stessi 100 euro dell’esempio venivano devoluti a fondi pensione i quali li investivano nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni future non sarebbero state più erogate dallo stato, bensì dal riscatto dei fondi investiti incluso il rendimento realizzato. Ma è proprio così? Intanto gli enti mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti una volta che vengano meno i contributi (se questi vanno ai fondi pensione)? Ciò che accade è che il Tesoro emette titoli di stato (per 100 euro) per pagare le pensioni correnti. E chi li compra? Gli stessi fondi pensione coi contributi dei lavoratori. Insomma, prima della riforma i lavoratori davano 100 allo stato e questo ci pagava le pensioni. Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 titoli di stato con cui quest’ultimo ci paga le pensioni. È cambiato qualcosa? Nella sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le pensioni correnti – com’è nella logica di qualunque sistema pensionistico in cui chi lavora sostiene gli anziani – solo che fanno un giro più tortuoso. E in questo giro c’è chi ci perde e chi ci guadagna.
Lo stato deve pagare degli interessi sui titoli che emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 euro di pensioni deve pagare 5 euro di interessi all’anno su 100 di titoli emessi. E chi si intasca gli interessi? Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché nella veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano entrambi i ruoli) lo stato chiederà loro 5 euro di imposte di più all’anno. Inoltre è molto probabile che dei 100 euro di contributi investiti in titoli di stato, i fondi pensione ne restituiscano ai lavoratori quando andranno in pensione solo, diciamo, 80 o 90, per le spese di gestione, marketing e profitti. C’è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.
Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni ’90 a economisti come Stiglitz e altri. Meno chiari erano a presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra radicale).
Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni ’90 a economisti come Stiglitz e altri. Meno chiari erano a presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra radicale).
Gli economisti della World Bank, la principale paladina delle riforme, non erano così sciocchi da non vedere che si trattava di un gioco delle tre carte. Ma avevano un argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce perché, come s’è visto, lo stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Ma nella logica del tanto peggio tanto meglio della World Bank, ciò avrebbe aperto la strada a ridurre altre voci della spesa sociale.
«Il fatto eclatante – nota uno sconcertato Vittorio Da Rold su Il Sole del 6/9 – è che i fondi pensione non saranno minimamente risarciti». Ma il giornalista si dà da sé la ragione: il governo polacco ritiene, infatti, «che i bond siano stati acquistati con i contributi dei dipendenti che altrimenti sarebbero andati al governo». Lo stato cioè si riprende titoli che appartengono ai lavoratori, e li cancella dal proprio debito, garantendo a questi ultimi le pensioni future, probabilmente più certe ed elevate, visto che chi ci rimette sono solo i fondi pensione che dovranno smettere di fare la cresta alle spalle di stato, lavoratori e pensionati.
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