venerdì 16 dicembre 2016

Le macerie e la cartapesta di Alfredo Morganti


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I quotidiani oggi raccontano un disastro. Il PD renziano è in briciole, e nemmeno un congresso lo salverà. La maggioranza non gode nemmeno della fiducia reale di chi ne fa parte. Il clima è da fine impero, da barbari antisistema alle porte. Alle porte c’è pure il referendum sul jobs act, che potrebbe essere il colpo di maglio finale sul renzismo. La legge elettorale, pessima e mai usata pur essendo, diceva Lui, la “più bella del mondo”, dovrà essere cancellata prima del 24 gennaio, perché nel caso ci penserà la Consulta. È il degno e coerente finale di tre anni tutti giocati sulla cartapesta. Perché non è vero che le macerie le ha prodotte il No al referendum boschiano. Le macerie già c’erano, e si accumulavano, ed erano solo nascoste da scenari e sfondi finti, abborracciati, tirati su in fretta e furia da una cooperativa di geni assoluti della comunicazione asserragliati a Palazzo Chigi e guidati, recentemente, da un guru americano costosissimo.
Le macerie sono testimoniate da un Paese diviso, privo di coesione, diseguale, che viene da dieci anni di crisi e da altri dieci almeno di politiche che hanno depotenziato l’apparato amministrativo, ridotto se non cancellato i servizi pubblici, peggiorato scuola e sanità, e rincorso il mito del ‘privato è bello’. Oggi si distribuiscono milioni di voucher e si ingrassa la precarietà non per caso, ma per ragioni storiche, genetiche, ventennali. Dinanzi a questo sfacelo sociale, invece di porre concreto rimedio, abbiamo alzato scenari finti e realizzato aiuole coprenti di piante ornamentali, come fece Berlusconi a Pratica di Mare ai suoi esordi. Negli ultimi tre anni c’è stata persino una recrudescenza, con una pioggia di bonus e scarpe destre a creare uno spettacolo pirotecnico per distrarre gli elettori. Le ricerche statistiche parlano tutte di un Paese che, in ampia maggioranza, teme il proprio futuro, lo vede nero. Se l’intento dell’ex premier fosse stato davvero quello di riconsegnare un’Italia migliore, be’, ha fallito sonoramente. Senza attenuanti.
Oggi è chiarissimo come le disuguaglianze non sono soltanto un danno per chi le subisce e si impoverisce, ma una catastrofe per l’intero Paese, le cui divisioni, i cui baratri, le cui ingiustizie sono la vera zavorra, altro che la Costituzione o l’articolo 18. In questo ventennio abbiamo lavorato a ingigantire l’abisso, sostenendo persino che fosse la strada giusta per diventare più moderni e più ‘competivi’. Ma è stato come dire che gli eserciti sono più forti se i generali e gli stati maggiori assistono alla battaglia da una terrazza dove si distribuiscono apericene e olivette a bordo piscina, mentre la truppa viene mandata alla carneficina armata di mazzafionde o a mani nude. È chiaro che i nemici prima o poi sfonderanno la linea e arriveranno anche sulla terrazza dei generali. È chiaro che così si perde. È chiaro che al massimo si arricchiscono in pochi, gli stessi che vanno a depositare i soldi all’estero, gli stessi che portano il lavoro dove lo sfruttamento è quasi schiavistico, gli stessi che poi ci fanno pure la morale, dicendo che siamo fannulloni e bamboccioni. Sta finendo per tutti, mi pare, anche per loro. Forse la sinistra, ovunque essa sia, qualunque volto abbia, deve fare qualcosa. Come minimo rimettersi in marcia

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