Quando Rutelli uscì dal Pd, perché da lui percepito come un soggetto ormai troppo sbilanciato a sinistra, non sospettava l’inversione di rotta radicale che ben presto avrebbe trasformato il Nazareno in un luogo adatto per il raduno dei vecchi esemplari del moderatismo (non solo) cattolico. Con un Rutelli allarmato sulle insostenibili derive neo-socialdemocratiche del Pd, erano schierati Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Roberto Giachetti e Filippo Sensi, l’uomo comunicazione di Renzi. Non seguirono però, come invece fece Linda Lanzillotta, il loro capo nella scissione che, del resto, si è sgonfiata subito, senza lasciare traccia alcuna. Rimasero nel partito, un po’ in solitudine e confidando in tempi migliori. Lo fecero senza prevedere il ribaltamento repentino che si è poi verificato. C’è un proverbio arabo che dice che, quando la carovana svolta, il cammello zoppo passa in testa. E così è accaduto per il Pd. Con la brusca giravolta, imposta dalla “non-vittoria” del 2013, a guidare la carovana sono passate proprio le antiche retrovie sopravvissute alla fuga. Da sparuti leader di contorno della vecchia corrente rutelliana data in ritirata, Renzi prima e Gentiloni dopo si sono tramutati in politici resuscitati, calati in un ruolo di prima grandezza. E se molti sono stati i transfughi moderati usciti con gran clamore dal Pd (tipo Ichino, con ragioni simili a quelle di Rutelli), molti, a questo punto, sono quelli rientrati, tornati a missione compiuta: l’azzoppamento elettorale del segretario, di Bersani. Una sorte analoga ha benedetto anche le carriere di sodali personali di Montezemolo, candidati alle elezioni in aperta polemica contro il Pd bersaniano, e poi chiamati, dal nuovo Pd, alla conduzione dell’Unità.
Se il Pd appare oggi come un grigio arcipelago a dominanza post-democristiana lo si deve anche all’abilità di manovra di Franceschini, capace di stare in maggioranza con tutti i segretari – naturalmente dopo essere stato protagonista di congiure o di esemplari esecuzioni di ciascuno dei capi andati alla rovina. Alla guida dei gruppi parlamentari di camera e senato ha piazzato due suoi colonnelli, come Luigi Zanda e Ettore Rosato. E tra i parlamentari, quelli ad elevata fedeltà verso il capo cordata Franceschini, si contano a decine. Sono la fazione più numerosa a Montecitorio e a Palazzo Madama. La sua potenza di fuoco straordinaria è stata conquistata non tanto in virtù della presenza reale nei territori, e contata quindi nell’effettivo seguito di massa, ma lucrata soprattutto grazie alle laute ricompense piovute sui petali della Margherita dopo gli spostamenti, i trabocchetti, i soccorsi e i tradimenti. Nessuno tra i democratici, più di Franceschini, è abile nel farsi ben remunerare sia per aver favorito le scalate al potere sia per aver contribuito alle decapitazioni di teste cadute in disgrazia. Quelli che, dal ceppo post-comunista, hanno cercato di emularlo, rinunciando a un pensiero autonomo e inseguendo incarichi e spazi, hanno accumulato solo briciole di potere – che peraltro pare arduo conservare nelle prossime spartizioni per la definizione delle candidature. Molti dei parlamentari in origine bersaniana hanno trovato rifugio nelle schiere troppo affollate dei giovani turchi che hanno offerto ospitalità a tutti i cambi veloci di collocazione tra le correnti. Il loro tentativo di gestire una sorta di doroteismo in salsa post-comunista non ha dato però i frutti sperati. E i giovani turchi, che esibivano in pubblico il plastico di Botteghe Oscure, hanno smarrito idealità senza acquisire la mano sicura di chi sa come comportarsi con il capo incorso nel suo primo incidente di percorso.
Se i post-democristiani giunti ai vertici del Pd e alla guida di tutte le istituzioni, nelle loro manovre e infinite lotte di potenza, mostrano la spregiudicatezza dei veri polli di combattimento, che colpiscono duro e sono disposti a tutto per emergere, i dirigenti di provenienza post-comunista spesso si rivelano dei polli e basta. Senza alcuna propensione al risolutivo corpo a corpo, si sono lasciati sfilare il controllo del partito. Al mite Cuperlo erano affidate le residue speranze di non vedere naufragare per sempre quel lontano mondo colorato di rosso. E invece, spinto dal cattivo vento del nord, è stato attratto nell’orbita del capo proprio alla vigilia di una clamorosa valanga popolare antirenziana. Che non turba i sopravvissuti militanti delle zone rosse, pronti, in nome del carisma del partito, a rimanere agli ordini di qualsiasi capo, anche di colui il quale strapazza identità, storia e persino il ricordo di Partito. Molti dei dirigenti di scuola post-comunista sembrano essere passati troppo in fretta dalla sindrome di Mosca alla sindrome di Stoccolma. E così, agli ordini del loro aguzzino, si inchinano proprio Anna Finocchiaro, il cui carrello della spesa con scorta all’Ikea è stato a lungo il simbolo del negativo sbandierato da Renzi (che lei chiamò «un miserabile che mai diventerà statista») in lotta contro la vecchia politica, o Luciano Violante che fu impallinato proprio dalle truppe gigliate nella sua corsa per un posto alla Consulta.
Già ridotti all’obbedienza quasi completa gli ex segretari Fassino o Veltroni, da sempre inquadrati come militanti organici del renzismo, anche quando aggredisce il lavoro e la Costituzione, i post-democristiani ottengo i servigi dei politici alla Padoan, alla Poletti, alla Minniti o De Vincentis, promossi alla conduzione di dicasteri solo perché non sfiorati da alcuna velleità di richiamare il senso mobilitante di una grande storia. E così tutti quelli che vengono dal Pci, e hanno rifiutato di prender parte all’ultima battaglia simbolica dichiarata da D’Alema e Bersani nel referendum di dicembre, navigano assopiti nell’onda tranquilla della nuova balena bianca. Riveriscono il comando assoluto di Boschi, Lotti, Carrai, Carbone, Righetti, Delrio, Guerini, Fioroni. Tutti di scuola democristiana e qualcuno peraltro con provenienza delle correnti di destra. Aspettavano di incrociare i seguaci di Dossetti e hanno incontrato i nipotini di Andreotti. Che la sensazione di disagio non sia loro troppo lieve per chi ha contribuito alla rimozione di una nobile tradizione di lotta.
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