Caro ministro Poletti, nel corso degli ultimi anni i giovani di questo
Paese si sono sentiti dire davvero di tutto: da bamboccioni a choosy la
lista è lunga e deprimente. Lei stesso, appena un anno fa, ha detto a
noi universitari che i presunti tempi lunghi per il conseguimento delle nostre lauree sono il vero problema del nostro sistema.
Ma la delusione è una fase che abbiamo ampiamente superato. Questa ha
fatto spazio alla disillusione di chi se ne va e non torna più, alla
rabbia di chi resta e non può studiare quello che vorrebbe o addirittura
non può permettersi di studiare, di chi non trova un'occupazione e di
chi trova un lavoro che niente ha a che fare con gli studi che tanto gli
sono costati.
Sì, la rabbia. Quella che si è espressa anche nel sonoro No al Referendum
sulla riforma costituzionale. In quel sonoro No che ha bocciato la
riforma, ma che soprattutto ha bocciato una retorica che voleva la
riforma costituzionale come lo strumento per risolvere i problemi del
nostro Paese.
Caro ministro, questo segnale avrebbe dovuto far
capire qualcosa a chi governa, se non nelle politiche, almeno
nell'atteggiamento. Per esempio, avrebbe potuto fare a meno di auspicare
le elezioni anticipate per evitare i referendum sul Jobs Act promossi
dalla Cgil.
Immagino sappia benissimo che molti giovani e
studenti voterebbero Sì, perché gli stessi giovani e studenti sono gli
stessi che il 25 ottobre di due anni fa sono scesi in piazza contro
questa legge e sono gli stessi che di questa legge stanno subendo gli
effetti negativi. Eppure lei, pur di non affrontare il nostro giudizio,
preferirebbe non farci esprimere.
Lei dice di conoscere
"gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché
sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". Una
delle tante esternazioni fuori luogo che ci siamo abituati a sentire
negli ultimi tempi. Se non fosse che lei ricopre la carica di Ministro
della Repubblica. Uno degli incarichi pubblici più importanti del nostro
paese.
E uno dei dicasteri più importanti, almeno stando, per
rimanere in tema, all'articolo 1 della Costituzione: quello del Lavoro.
Il Lavoro, quello che manca ai giovani, specie nel Mezzogiorno. Il
Lavoro, quel miraggio che veicola sempre più le scelte dei nostri studi.
Il Lavoro, quello sempre più precario, considerati gli ultimi dati Inps
sull'aumento dei voucher e dei licenziamenti disciplinari e sul calo
dei contratti a tempo indeterminato.
Per questo non dovrebbe
stupirla questa lettera: il peso della crisi lo stiamo pagando e lo
pagheremo noi con una spending review che nell'ultimo decennio si è
tradotta in tagli a scuola e università, con la disoccupazione, con il
lavoretto in nero necessario per mantenerci gli studi, con quei voucher
su cui vorrebbe impedirci di votare, con l'insicurezza sociale.
Questa
lettera è una richiesta di rispetto. Finché nel nostro Paese non
troveremo le opportunità all'altezza delle nostre aspirazioni, nessuno
potrà permettersi di giudicare chi andrà a realizzarle altrove. Non
siamo noi ad aver creato le condizioni di questo esodo, non siamo noi a
dover trovare le risposte. Chi cerca la felicità fuori dall'Italia e
vorrebbe tornare; chi resiste qui e chiede un Paese migliore; chi non
riesce neanche più ad immaginarsi un futuro.
Tutti loro, tutti
noi, abbiamo bisogno di risposte che che partano dal contrasto alle
disuguaglianze: dalla lotta all'abbandono scolastico, all'affermazione
del diritto allo studio scolastico e universitario, a un mondo del
lavoro che sappia valorizzare conoscenze e competenze, in cui la parola
"diritti" prenda il posto di "sfruttamento". Caro ministro, sicuramente
lei non soffrirà a non averci più tra i piedi. Il nostro Paese, di certo
sì.
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