L’orizzonte delle europee e la crisi della governance Ue
Non
siamo degli appassionati del rito elettorale, ma per la prima volta la
scadenza di solito più inutile – le elezioni europee – assume un valore
strategico.
E’
quasi sorprendente, visto che tutta la costruzione dell’Unione Europea è
stata pensata per congelare dentro trattati di fatto non modificabili
(se non all’unanimità, ossia mai) rapporti di forza temporanei e
indirizzi di governance in grado di vanificare eventuali risultati elettorali divergenti in qualche singolo paese.
Come spiegava il cerbero Wolfgang Schaeuble in una riunione dell’Eurogruppo, “non
si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla.
Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19 e, se ogni volta che
c’è una elezione, cambia qualcosa i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
Tutta la costruzione, però, poggiava su una maggioranza politica che sembrava eterna: la grosse koalition su scala continentale tra “popolari” e “socialisti”.
Ancora nel 2009 questa coalizione sfiorava i due terzi dei seggi a
Strasburgo e quindi garantiva che qualsiasi scelta fatta nella
formazione della Commissione (il “governo” europeo, quello che fa le
leggi e le “raccomandazioni”, che controlla/contratta la stesura delle
“leggi di stabilità” nazionali, ecc), o nel Consiglio Europeo, venisse
approvata senza problemi.
I
primi scricchiolii sono stati avvertiti già nel 2015, quando la
maggioranza è scesa al 54%, mentre cresceva l’opposizione di destra che
andava al governo in alcuni paesi, ed ora è diventata un protagonista
problematico in quasi tutti. Esisteva anche un’opposizione di sinistra,
molto variegata quanto ad orientamenti, ma politicamente ininfluente o
subordinata ai “socialisti”.
Il
crollo di questa coalizione in Italia (dove le filiali locali Forza
Italia e Pd, come si vede meglio ora, hanno praticato per 25 anni la
stessa identica politica: privatizzazioni, distruzione dei diritti del
lavoro, tagli alle pensioni, precarizzazione, ecc, come “raccomandato”
dalla Ue), e l’uscita della Gran Bretagna dal prossimo Parlamento,
rendono ora “contendibile” la maggioranza.
L’allarme
è stato fatto squillare nelle redazioni mainstream e nelle direzioni
dei partiti politici “europeisti”, con la scontata chiamata a raccolta
di tutte le forze “liberali ed europeiste” contro quelle “reazionarie e
sovraniste”.
Le
trappole di questo linguaggio sono innumerevoli – e ce ne occuperemo
quanto prima – ma il ragionamento politico è semplicissimo: bisogna a tutti i costi mantenere a Strasburgo una maggioranza favorevole allo statu quo.
Anche a costo di tirar fuori dall’armadio un frasario “antifascista”
che era stato dimenticato da almeno un ventennio (per non disturbare
membri del “partito popolare europeo” come l’ungherese Orbàn o gli
alleati nazisti al governo in Ucraina, oltre ai segnali di “dialogo” con
i fascisti all’interno di ogni paese; qui da noi i noti Veltroni,
Violante, ecc), almeno quanto basta per facilitare l’accodamento di una
parte della “sinistra”.
Lo schema descritto dalla narrazione è dunque classicamente bipolare – europeisti versus sovranisti – senza ammettere altri protagonisti. Lo si può vedere dalla cartina allestita dal Corriere della Sera, che in Francia neanche menziona France Insoumise di
Jean-Luc Mélénchon (19,6% alle recenti presidenziali, e in crescita nei
sondaggi), mentre continua a considerare rilevante il Partito
Socialista (dato nei sondaggi ancora all’8%, ma in rapidissimo calo);
oppure, in Germania, cancella Die Linke (che pure vanta un dignitoso
9,2% alle elezioni politiche di un anno fa), mentre enfatizza al massimo
i razzisti dell’Afd (che avevano preso il 7%, ma crescono cavalcando la
paura anti-immigrati).
Dal
punto di vista delle classi sociali, questi due schieramenti
corrispondono al grande capitale finanziario e multinazionale
(“europeista” e “cosmopolita” per definizione) e alla piccola-media
borghesia, nazionalista per insufficiente dimensione del capitale,
dunque incapace di “competere” sul piano globale.
Per il nostro “blocco sociale” –
lavoratori con qualsiasi tipo di contratto, pensionati, disoccupati,
precari, studenti, migranti, poveri di tutte le etnie, ecc – non è prevista alcuna rappresentanza né diritto di parola.
Al massimo, nella prospettiva dell’establishment neoliberista, viene
auspicata una sua partecipazione, silenziosa e subordinatissima, al
blocco “europeista”, usando lo spauracchio del fascismo alle porte e
ramazzando frazioni della scompaginata “sinistra”.
Sul fronte interno il più chiaro nell’esplicitare questa partizione è stato Massimo Cacciari: “Per le elezioni del 2019 ci vuole un progetto transnazionale che vada da Macron a Tsipras e possa sfidare i sovranisti”. E lo faranno, non c’è alcun dubbio, perché ne va della loro sopravvivenza politica.
Che il fronte cosiddetto “sovranista” – in realtà banalmente nazionalista e
retrogrado – sia una destra pericolosa e violenta, è assolutamente
vero. E’ una destra che cavalca l’impoverimento generale (dai “ceti
medi” a quelli popolari) causato dalla crisi economica fin dal 2008,
aggravato da “politiche di austerità” pro-cicliche, a malapena rabberciate con il quantitative easing della Bce, ora agli sgoccioli.
Ma non è una destra realmente “anti-europeista”, ossia determinata a scassare la governance inscritta
nei trattati. Sul piano economico, infatti, è altrettanto liberista del
fronte “repubblicano”, con forse qualche condiscendenza in meno verso
gli “investitori internazionali” che pretendono condizioni di favore (ma
neanche questo è certo, viste le politiche fiscali adottate dai vari
membri del “gruppo di Visegrad”).
Le
politiche sociali sono grosso modo identiche, la “guerra ai poveri”
accomuna senza problemi gli esponenti nazionali dei due fronti, tanto da
renderli indistinguibili (a parte gli insulti reciproci). Dalla casa
alle pensioni, dal reddito alle tutele del lavoro, non c’è tema in cui
sia possibile riconoscere una differenza “forte”.
L’unico terreno che sembrerebbe
distinguere i due schieramenti è quello dell’accoglienza verso i
migranti, ma anche in questo caso le differenze reali sono molto minori
di quelle sbandierate.
La
Germania “europeista” di Angela Merkel (spesso contraddetta dal suo
ministro dell’interno Seehofer) ha rapidamente ridotto la propria
disponibilità ad accogliere ai soli “dotati di specializzazioni
professionali utili” all’economia nazionale.
La
Francia “repubblicana” di Macron – il più nazionalista dei sedicenti
“europeisti” – si nota più per la durezza usata nei loro confronti (da
Calais a Bardonecchia, con annesso sconfinamento in territorio italiano)
che per la disponibilità a farli entrare.
In
Italia Salvini ha sposato il “modello Minniti”, predecessore ai vertici
del Pd, ma sbraita in modo decisamente più sguaiato, senza reali
mutamenti sostanziali, coprendosi spesso di ridicolo (“Tripoli è un
porto sicuro” le batte tutte…).
La
chiusura dei confini è insomma generalizzata e risparmia, per ora, solo
i migranti interni, quelli con passaporto Ue che, ricordiamolo, sono
sempre e soltanto “migranti economici”, restituibili in qualsiasi
momento al paese di provenienza, secondo le dottrine maggiormente in
auge.
Dunque
quello nazionalista e reazionario è un fronte che immagina “un’altra
Europa”, altrettanto feroce sul piano economico e sociale interno, e
blindata come una fortezza verso l’esterno. Ma niente affatto
“alternativa”; molto poco diversa da quella attuale, insomma, solo con
molte “facce nuove” decisamente poco presentabili.
Solo
nello scenario italiano esiste un “terzo polo” non chiaramente
collocabile in uno dei campi: i Cinque Stelle. La loro idea “strategica”
– autodefinirsi “né di destra, né di sinistra” – era poco più di un
furbata per cercare di sottrarsi alla classificazioni novecentesche. Ma
in questa Unione Europea, attraversata da questo scontro, questa ideuzza
non ha nemmeno il terreno dove essere coltivata. Impossibile
qualificare Macron o Merkel come “sinistra”, mentre certamente sono
“destra” i nazionalisti d’ogni lingua e risma… Fuori dalle chiacchiere
sulla “legalità”, insomma, e dentro uno scontro intorno alle
caratteristiche future della Ue, appaiono come il più classico dei vasi
di coccio in mezzo alle palle da cannone.
A prima vista, dunque, c’è necessità soprattutto di uno schieramento continentale popolare assolutamente indipendente da questi due fronti. Ed è per fortuna in via di formazione, a partire dalla firma della Dichiarazione di Lisbona, che ha visto convergere France Insoumise, Podemos e il portoghese Bloco de Esquerra, nonché l’adesione di Potere al Popolo
per l’Italia. In questa direzione sembra andare anche Aufstehen, il
movimento tedesco che punta esplicitamente a superare il tradizionale
bacino di Die Linke (ma che risente pesantemente del clima
anti-immigrati tedesco), oltre a interessanti e niente affatto “minori”
gruppi danesi, olandesi, sloveni, ecc.
Tutto
bene, dunque? Non proprio… “A sinistra”, in Italia come altrove,
sopravvivono – pur deperendo a vista d’occhio – nostalgie di “alleanze
di centrosinistra”, mal celate spesso sotto confusissimi appelli ad
“allargare” il campo antiliberista fino a comprendere frammenti di ceto
politico dispersi e molto ondivaghi, senza radicamento sociale, privo
quasi sempre di rappresentatività reale, storicamente disposto a quasi
tutto. Una “irresistibile” voglia di pastrocchi che – per oggettiva
debolezza numerica e di idee – fin d’ora pare destinata a subire, almeno
in parte, la forza gravitazionale della nebulosa invocata da Cacciari
(“da Macron a Tsipras”).
Come sempre, critichiamo una logica politica,
non qualche organizzazione particolare. Sappiamo bene che una “cultura”
malamente sopravvissuta per 25 anni è diffusa in molti ambiti e in
molte menti, e non può essere superata con un semplice atto di volontà o
una “presa di coscienza” fulminea… Ma va superata, pena la scomparsa o
la subordinazione definitiva di una soggettività autonoma di classe che
abbia l’ambizione di esser riconosciuta “dalle masse”.
Su questo vogliamo perciò essere chiarissimi: noi
vogliamo allargare la coalizione sociale antagonista (Potere al Popolo,
il sindacalismo conflittuale, i movimenti sociali e territoriali, ecc)
radicandola con forza dentro il nostro blocco sociale.
Vogliamo crescere come quantità di attivisti e qualità politica
organizzando la nostra gente per raggiungere obiettivi concreti, vitali,
per migliorare le condizioni di vita e risvegliare il protagonismo
sociale.
Per
riuscirci abbiamo bisogno di percorrere le strade e tutti i luoghi dove
si scontrano interessi di classe opposti; abbiamo bisogno di
confrontare proposte e idee davanti a tutti, non di rinchiuderci in
qualche sala a contrattare – “manuale Cencelli” alla mano – candidature
marginali in cambio di silenzio complice sulle politiche sociali
passate, presenti e future.
L’Europa è il teatro dove si gioca la partita, lo andiamo ripetendo da anni. E l’Unione Europea è il potere quasi-statuale che determina le politiche poi applicate all’interno degli Stati nazionali in apparente “autonomia”.
Rompere questa gabbia è la condizione per costruire una diversa comunità di Stati con priorità sociali opposte e alternative a quelle della Ue.
Non
c’è futuro, per la nostra gente, né con gli “europeisti” del grande
capitale, né con i nazionalisti delle “piccole patrie”. E’ ora di
sgombrare il campo dalle cortine fumogene, dagli equivoci interessati e
dal “pensiero bipolare” che ha ucciso quella che si autodefiniva
“sinistra”.
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