Nel
suo contributo alla discussione sullo statuto di Pap, Ilaria
Boriburini, del coordinamento nazionale, ha giudicato impraticabile la
possibilità di pervenire ad un’unica proposta per due fondamentali
ragioni: le visioni “molto diverse” che stanno alla base delle ipotesi
in campo e la necessità di non perdere tempo, considerate le tante cose
che dobbiamo fare.
Ora,
che i due testi propongano differenze importanti è evidente e non
sarebbe giusto banalizzarle, visto che non stiamo parlando di
tecnicalità o di mere soluzioni organizzative, ma della forma della
democrazia su cui incardinare il movimento.
Lo
statuto è sotto ogni aspetto la casa comune di tutti e di tutte, dunque
la ricerca tesa a sciogliere i nodi e non a tagliarli con una rasoiata
dovrebbe essere ritenuto un vincolo irrinunciabile, tenendo conto del
carattere plurale e composito del movimento e della volontà da tutti
espressa con enfasi di costruire un progetto inclusivo, fondato su
un’estesa pratica democratica e sul criterio della decisione condivisa.
Viola
Carofalo ha ragione quando dice che “non sarà possibile fare uno
statuto che piaccia a tutti al cento per cento”, ma risolvere il
problema con un referendum significa che a chiudere la partita con una
scelta oggettivamente divisiva basterà il 50%+1.
La
ricerca della decisione condivisa, se la formula non è solo un
espediente retorico, deve essere sostenuta da una regola che la faccia
vivere, e quella della maggioranza qualificata, dei 2/3 almeno, lo
consente. L’altra no, perché spinge a tagliare corto.
Se
la ricerca del consenso, diciamo pure: della mediazione, viene
interpretata come la ricaduta in vecchie pastoie paralizzanti che
impediscono di librarsi nei cieli del nuovo, si rischia di perdere pezzi
per strada, uno dopo l’altro.
Nel
coordinamento nazionale ho sempre sostenuto, mi era parso senza
incontrare obiezioni, che il metodo della condivisione dovesse
consistere nel suscitare la massima discussione possibile ad ogni
livello e su ogni argomento, e nel mettere a fattor comune tutto ciò che
unisce, presentandolo nello spazio pubblico come Potere al Popolo e che
quanto invece non appartiene all’elaborazione condivisa fosse lasciato
all’autonoma iniziativa dei soggetti collettivi che hanno tutto il
diritto di agire in proprio. Poi ho sempre pensato che l’abitudine a
lavorare insieme, senza pregiudizi, favorisca processi di ibridazione
fra culture diverse, processi che hanno bisogno di tempo, non di
scorciatoie.
Ilaria
sostiene che si sarebbe sì potuto procedere con un unico testo con
emendamenti sui singoli punti ma, aggiunge, “in fase di votazione
sarebbe stato un delirio”.
Ma
perché sarebbe stato “un delirio”? Esattamente perché il voto è gestito
attraverso la piattaforma on line, dove, per definizione, trionfa
l’espressione in forma binaria: a o b, sì o no. Nessuno scampo per
l’approfondimento, per la dialettica reale: o di qui o di là.
Alla pedagogia della partecipazione si sostituisce il gesto risolutivo del click a distanza.
A
mio avviso, questo è un limite, grave, di entrambe le proposte di
statuto che accettano, o subiscono, l’infatuazione per la dimensione
puramente virtuale del coinvolgimento personale, dove il campo si divide
fra chi fa e chi, guardando, si limita a giudicare sommariamente chi
fa.
Ilaria
chiede a tutti noi “di usare energie e capacità a riflettere su come
migliorare uno statuto o l’altro, oppure di presentarne uno totalmente
nuovo se nessuno dei due rappresenta a grandi linee la vostra visione”.
Condivido senza riserve questa indicazione. Osservo, semmai, che
contrasta piuttosto ruvidamente con la sottolineatura che tutti i
tentativi sono già stati fatti, mentre tutte le sirene invitano a
chiudere presto il conto, piuttosto che a dispiegare intelligenza e
creatività.
A
Brescia ci siamo sforzati di mettere in pratica questo suggerimento,
proponendo, fra molte altre cose, che non tutte le decisioni, ma
senz’altro quelle politicamente rilevanti siano assunte a maggioranza
qualificata nelle assemblee costituite ad ogni livello del movimento. E
come si stabilisce se una questione è “politicamente rilevante”? Si può
prevedere che lo è se ritenuta tale dal 10% delle assemblee
territoriali, da quella nazionale o del coordinamento. Tutelare le
minoranze non è un ubbìa democraticista, ma uno dei tratti distintivi
della democrazia.
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