lunedì 24 settembre 2018

Piazza e Statuto. L’opinione di Dino Greco *



Nel suo contributo alla discussione sullo statuto di Pap, Ilaria Boriburini, del coordinamento nazionale, ha giudicato impraticabile la possibilità di pervenire ad un’unica proposta per due fondamentali ragioni: le visioni “molto diverse” che stanno alla base delle ipotesi in campo e la necessità di non perdere tempo, considerate le tante cose che dobbiamo fare.
Ora, che i due testi propongano differenze importanti è evidente e non sarebbe giusto banalizzarle, visto che non stiamo parlando di tecnicalità o di mere soluzioni organizzative, ma della forma della democrazia su cui incardinare il movimento.
Lo statuto è sotto ogni aspetto la casa comune di tutti e di tutte, dunque la ricerca tesa a sciogliere i nodi e non a tagliarli con una rasoiata dovrebbe essere ritenuto un vincolo irrinunciabile, tenendo conto del carattere plurale e composito del movimento e della volontà da tutti espressa con enfasi di costruire un progetto inclusivo, fondato su un’estesa pratica democratica e sul criterio della decisione condivisa.
Viola Carofalo ha ragione quando dice che “non sarà possibile fare uno statuto che piaccia a tutti al cento per cento”, ma risolvere il problema con un referendum significa che a chiudere la partita con una scelta oggettivamente divisiva basterà il 50%+1.
La ricerca della decisione condivisa, se la formula non è solo un espediente retorico, deve essere sostenuta da una regola che la faccia vivere, e quella della maggioranza qualificata, dei 2/3 almeno, lo consente. L’altra no, perché spinge a tagliare corto.
Se la ricerca del consenso, diciamo pure: della mediazione, viene interpretata come la ricaduta in vecchie pastoie paralizzanti che impediscono di librarsi nei cieli del nuovo, si rischia di perdere pezzi per strada, uno dopo l’altro.
Nel coordinamento nazionale ho sempre sostenuto, mi era parso senza incontrare obiezioni, che il metodo della condivisione dovesse consistere nel suscitare la massima discussione possibile ad ogni livello e su ogni argomento, e nel mettere a fattor comune tutto ciò che unisce, presentandolo nello spazio pubblico come Potere al Popolo e che quanto invece non appartiene all’elaborazione condivisa fosse lasciato all’autonoma iniziativa dei soggetti collettivi che hanno tutto il diritto di agire in proprio. Poi ho sempre pensato che l’abitudine a lavorare insieme, senza pregiudizi, favorisca processi di ibridazione fra culture diverse, processi che hanno bisogno di tempo, non di scorciatoie.
Ilaria sostiene che si sarebbe sì potuto procedere con un unico testo con emendamenti sui singoli punti ma, aggiunge, “in fase di votazione sarebbe stato un delirio”.
Ma perché sarebbe stato “un delirio”? Esattamente perché il voto è gestito attraverso la piattaforma on line, dove, per definizione, trionfa l’espressione in forma binaria: a o b, sì o no. Nessuno scampo per l’approfondimento, per la dialettica reale: o di qui o di là.
Alla pedagogia della partecipazione si sostituisce il gesto risolutivo del click a distanza.
A mio avviso, questo è un limite, grave, di entrambe le proposte di statuto che accettano, o subiscono, l’infatuazione per la dimensione puramente virtuale del coinvolgimento personale, dove il campo si divide fra chi fa e chi, guardando, si limita a giudicare sommariamente chi fa.
Ilaria chiede a tutti noi “di usare energie e capacità a riflettere su come migliorare uno statuto o l’altro, oppure di presentarne uno totalmente nuovo se nessuno dei due rappresenta a grandi linee la vostra visione”. Condivido senza riserve questa indicazione. Osservo, semmai, che contrasta piuttosto ruvidamente con la sottolineatura che tutti i tentativi sono già stati fatti, mentre tutte le sirene invitano a chiudere presto il conto, piuttosto che a dispiegare intelligenza e creatività.
A Brescia ci siamo sforzati di mettere in pratica questo suggerimento, proponendo, fra molte altre cose, che non tutte le decisioni, ma senz’altro quelle politicamente rilevanti siano assunte a maggioranza qualificata nelle assemblee costituite ad ogni livello del movimento. E come si stabilisce se una questione è “politicamente rilevante”? Si può prevedere che lo è se ritenuta tale dal 10% delle assemblee territoriali, da quella nazionale o del coordinamento. Tutelare le minoranze non è un ubbìa democraticista, ma uno dei tratti distintivi della democrazia.

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