Il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha recentemente dichiarato che mantenere l’età pensionabile a 67 anni, anziché alzarla a 70, come requisito di pensionamento comporterebbe un costo di 141 miliardi che metterebbe a serio rischio i conti dell’ente pubblico. La dichiarazione è da leggere congiuntamente alle proposte in discussione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera di modifica dell’art. 38 della Carta costituzionale in materia di diritto alla pensione. Tra le varie proposte vi è quella firmata dai deputati Pd che precisa che “il sistema previdenziale è improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la sostenibilità finanziaria”.
Siamo dunque tornati a parlare di pensioni, e ne parliamo seguendo l’ormai logora logica dell’austerità, quella che subordina la garanzia dei diritti ad una presunta sostenibilità finanziaria e che, camuffata da una fasulla solidarietà intergenerazionale, si appresta a definire la base ideologica per l’ennesimo giro di vite regressivo del nostro sistema pensionistico.
Quando si discute di pensioni si è costretti a leggere ed ascoltare diverse affermazioni prive di fondamento, ma che sono ben radicate nel discorso pubblico e nel sentire comune, e che echeggiano ovunque, dalle aule universitarie ai giornali ai blogger ai discorsi da bar. Smontare i concetti teorici cristallizzati in immagini e metafore radicate nei luoghi comuni non è un’operazione semplice, poiché richiede un rovesciamento di prospettiva che non tutti coloro che sono stati educati con la narrazione mainstream sono disposti a compiere. In questo articolo cerchiamo di soffermarci sui principali equivoci che impediscono di fare chiarezza e avere una discussione lucida sul problema della sostenibilità della spesa previdenziale. Proveremo anche a delineare una prospettiva corretta e coerente che serva da base su cui reimpostare il dibattito e ad indirizzare le proposte di politica economica verso un duplice obiettivo: la sostenibilità del sistema pensionistico e il raggiungimento della piena e buona occupazione.
La solidarietà intergenerazionale: i vecchi contro i giovani
Un’affermazione particolarmente insidiosa è quella secondo cui la spesa pubblica, in quanto è sbilanciata a favore degli attuali pensionati, impedirebbe di incanalare risorse in favore dei giovani. Questa visione tende a scaricare la responsabilità della precarietà, della disoccupazione giovanile e dei bassi redditi di chi lavora sulle spalle di una generazione che – si sostiene spesso – ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, in tal modo generando un debito pubblico che si è gonfiato negli anni oltre misura, e che oggi tocca ai figli e ai nipoti dei pensionati ripianare accettando inevitabili politiche di austerità fiscale. Ogni proposta finalizzata a risparmiare la spesa pensionistica viene dunque presentata sotto la veste nobile di un atto di solidarietà intergenerazionale a carico dei più vecchi – che avrebbero goduto troppo in gioventù – a beneficio dei più giovani – che starebbero pagando i costi della festa.
In verità, per capire che non esiste alcun nesso fra i presunti livelli pensionistici troppo elevati e i livelli troppo bassi dei redditi degli attuali lavoratori o la scarsità di lavoro, non è necessario discettare sui massimi sistemi dell’economia. È sufficiente riflettere sul fatto che, nell’ultimo ventennio, a partire dalla prima riforma delle pensioni del 1995, che precede di poco quella del 1997 che introduce il precariato sul mercato del lavoro, non è mai successo che tagli alle pensioni si siano tradotti in miglioramenti dei redditi disponibili o dei livelli occupazionali dei lavoratori. Tagli alle pensioni e tagli ai salari sono invece andati in sincrono, e sono sempre stati giustificati con criteri di compatibilità macroeconomica e di sostenibilità finanziaria. Ne consegue che se i pensionati di oggi hanno redditi più alti dei lavoratori (e, a maggior ragione, dei disoccupati), questo non è dovuto al fatto che sono dei privilegiati, ma al fatto che, all’epoca in cui lavoravano, i salari, su cui si calcolano le loro pensioni odierne, erano più alti dei salari di oggi. Va anche notato come, con l’introduzione nel 1995 del metodo contributivo per il calcolo delle pensioni, la relazione fra basse pensioni e bassi salari è resa ancora più stingente: periodi prolungati di disoccupazione e di lavoro precario e mal pagato restano indelebili come un peccato originale e incidono negativamente sulle pensioni future.
Proposte di tagliare le pensioni correnti o di elevare l’età pensionabile non fanno che alimentare il gioco al ribasso tra pensioni e salari, il quale va avanti da tempo sufficiente a indurci a ritenere che si tratta di una strada sbagliata. Il forte sospetto, anzi, è che la narrazione che descrive la sostenibilità delle pensioni come un conflitto distributivo tra vecchi e giovani in realtà sia funzionale a eclissare un altro conflitto distributivo ben più importante, e che gli economisti tendono spesso a non menzionare esplicitamente, cioè quello tra redditi da lavoro (salari e pensioni) e redditi da capitale (profitti e rendite), che negli ultimi decenni è andato, guarda caso, sistematicamente a beneficio di questi ultimi.
La sostenibilità finanziaria: il seme e l’albero
Come si è visto, la visione della spesa pensionistica in termini di conflitto generazionale va di pari passo con l’affermazione che il sistema pensionistico non è sostenibile. Per affrontare il tema della sostenibilità della spesa previdenziale da una prospettiva corretta, occorre uscire dalla logica egemone che la percepisce e descrive come un problema finanziario – la logica dell’austerità. Una tale impostazione è una finzione falsa e fuorviante, che ha come unico vero risultato non la sostenibilità finanziaria delle pensioni, ma la loro insostenibilità sociale. Infatti, come è facilmente prevedibile, una larga parte delle prossime generazioni di pensionati, a partire da quella ancora in età lavorativa, sono condannate a un reddito al di sotto del livello della sussistenza, che esploderà in un grave problema di povertà e indigenza di massa.
Ad illustrare il tema della sostenibilità finanziaria sopravviene in aiuto un’immagine che è perfettamente in sintonia con il metodo contributivo, e che descrive le pensioni individuali come un frutto che “matura” nel tempo in virtù dei “contributi accumulati” individualmente nel corso della vita lavorativa. È un’immagine botanica di un albero che cresce nel tempo e il cui prodotto è tanto più abbondante quanta più cura è stata profusa nella semina e nella coltivazione, dunque ben prima di poter godere dei suoi frutti. Effettivamente, questa immagine è coerente con il metodo contributivo, che calcola la pensione proprio sulla base di una media ponderata dei contributi, attualizzati a valori presenti, versati nell’arco della vita lavorativa, che vengono prima accantonati e poi restituiti sotto forma di prestazioni pensionistiche, una volta che l’individuo abbia raggiunto i requisiti del pensionamento. Il metodo contributivo non è altro che una convenzione come un’altra, tuttavia oggi è presentato e percepito come l’unico criterio scientificamente corretto per avere pensioni in grado di auto-sostenersi, così come l’albero è frutto del suo seme.
In aggiunta, la logica dell’austerità, che le parole del Presidente dell’INPS e le proposte di modifica della Carta costituzionale menzionate sopra ripropongono, si basa sul presupposto secondo cui la spesa pensionistica, così come le altre voci dello Stato sociale, rappresenti un problema per la sostenibilità finanziaria del debito pubblico: a fronte di un debito nominale crescente e una crescita economica stagnante, lo Stato italiano è costretto ad operare tagli alla spesa pubblica (o aumenti delle tasse) per mantenere i rapporti deficit/Pil e debito/Pil al di sotto dei vincoli di bilancio definiti dalle regole europee, per evitare di inimicarsi la Commissione Europea e rientrare nella procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Anche in questo caso, l’immagine del vincolo associato alla spesa governativa è del tutto analoga a quella di un singolo individuo che per ottenere denaro deve lavorare. Se a Natale voglio spendere come un folle, negli undici mesi successivi sono obbligato a tirare la cinghia. Questo è il motivo per cui oggi si chiede ai governi, e alle generazioni che avrebbero speso come folli “al di sopra delle loro possibilità”, di fare austerità.
Entrambe le argomentazioni appena accennate sottostanti alla logica dell’austerità sono fallaci. Le affrontiamo separatamente qui di seguito.
La distribuzione del reddito: la fetta di torta
La spesa per la previdenza sociale non è finanziariamente legata al risparmio accumulato dal passato, né individuale né aggregato, come l’attuale calcolo attuariale su cui si basa il sistema contributivo induce erroneamente a pensare. Rappresenta invece una forma di redistribuzione del reddito nazionale, prodotto dai soggetti attivi che lavorano, a favore dei soggetti inattivi che hanno superato l’età lavorativa. Si può redistribuire solo il reddito corrente, il quale riflette il grado di utilizzo della capacità produttiva e il livello di impiego della forza lavoro.
Lo strumento principale a disposizione dei governi per ridistribuire il prodotto sociale a categorie diverse (nel caso delle pensioni, tra individui di diverse fasce d’età) è la tassazione. I contributi pensionistici versati nell’anno in corso non sono dunque semi che piantiamo per terra e di cui raccoglieremo i frutti in tarda età. Sono invece del tutto equivalenti a prelievi fiscali che riducono l’accesso al prodotto sociale di chi lavora oggi per assegnarne una parte ai pensionati di oggi. La spesa sociale per le pensioni, indipendentemente da come viene calcolata e raccontata, è intrinsecamente un’operazione di redistribuzione del reddito corrente tra generazioni. Anziché con l’immagine dell’albero che richiede tempo per dare i frutti, il sistema pensionistico è più propriamente descrivibile con l’immagine di una fetta tagliata da una torta appena sfornata. Chi è a riposo per raggiunta anzianità ha contribuito in passato a produrre altre torte, che sono ormai consumate e digerite. La fetta di cui si nutre oggi non è una conserva del passato, ma è una parte della torta che altri, oggi in età lavorativa, hanno appena sfornato.
La torta è un prodotto dell’anno in corso, e perché sia adeguata alla popolazione che la deve consumare, occorre scomodare la politica. Una politica economica degna di questo nome dovrebbe utilizzare la spesa pubblica per determinare la grandezza della torta (il livello del prodotto sociale), la politica industriale per determinare il tipo di torta (la composizione del prodotto sociale, cioè quali beni e servizi produrre, con quali tecnologie e con quali risorse naturali), e la tassazione per determinare la grandezza delle fette che spettano a ciascuno (la distribuzione del prodotto sociale, tra cui la quota che va alle pensioni). La politica europea (e non solo) non è oggi impostata in questo modo, visto che ritiene che l’eccesso di spesa pubblica sia la causa del basso livello del reddito, che la politica industriale vada proibita, e che la tassazione debba servire allo scopo di “coprire” le spese del settore pubblico.
La spesa pubblica è sempre sostenibile
Per quanto riguarda la presunta insostenibilità finanziaria dei conti pubblici, di cui il sistema pensionistico è una voce importante, va ricordato che uno Stato sovrano, che a differenza di un singolo individuo è dotato del potere di emette la propria moneta, possiede una capacità di spesa potenzialmente illimitata. La spesa pubblica di uno Stato non è dunque vincolata ad alcun impegno sul livello di tassazione presente e futuro, non si traduce necessariamente in emissione di titoli del debito pubblico, e anche se, per scelta, comportasse l’aumento del debito pubblico, quest’ultimo non sarebbe soggetto ad alcun rischio di default, posto che la Banca Centrale sia disposta a garantire la solvibilità dei titoli di stato.
Tale garanzia, che lascia briglia sciolta alla capacità di spesa del governo, è tecnicamente sempre possibile, e in linea di principio lo sarebbe anche nell’Eurozona, qualora i paesi membri un bel giorno si svegliassero e rinunciassero ad autoimporsi vincoli di bilancio inutili e controproducenti che limitano i loro margini di manovra, e qualora alla BCE, in un raptus di illuminismo, fosse concessa la possibilità di garantire incondizionatamente e illimitatamente i titoli del debito pubblico. Il rischio di inflazione associato ad una spesa in deficit attiva e senza complessi, nelle condizioni di ampia capacità produttiva inutilizzata in cui versano le nostre economie, è del tutto trascurabile (il problema della BCE nei nostri anni è semmai la lotta alla deflazione, ben più preoccupante dell’inflazione per i suoi effetti depressivi). Se adottiamo questa prospettiva, il problema della sostenibilità finanziaria della spesa pensionistica (e della spesa pubblica in generale) non si pone. Ne consegue che l’unica prospettiva corretta da cui discutere di sostenibilità è con riferimento alle risorse reali, non alle risorse finanziarie.
La sostenibilità sociale: occupazione e demografia
A questo quadro occorre aggiungere un ulteriore tassello che ci permette di comprendere da che cosa dipende realmente la sostenibilità della spesa pensionistica e in che misura la questione delle pensioni si intreccia a quella del lavoro, quindi alle politiche del pieno impiego.
Posto che lo Stato non va incontro a vincoli finanziari, il suo spazio fiscale viene definito dalle variabili reali del paese, cioè essenzialmente le risorse naturali, i mezzi di produzione fisici, e le risorse umane, demografiche e occupazionali. La sostenibilità economica dell’intero sistema pensionistico, in particolare, dipende dal rapporto fra popolazione in età da pensione e popolazione in età lavorativa occupata in un determinato periodo: più questo rapporto è elevato, più l’erogazione delle pensioni risulta economicamente e socialmente gravosa. Un aumento della spesa pubblica in favore delle pensioni noncurante di tali livelli socio-demografici, sebbene sia finanziariamente possibile e possa giocare una funzione di stimolo alla domanda e alla produzione, potrebbe risolversi in una distribuzione dei redditi percepita come penalizzante per le fasce d’età più giovani, oltre che fattore di potenziale inflazione qualora determinasse uno squilibrio tra domanda di beni e disponibilità di risorse reali.
Con questo non si vuole riabilitare la tesi, negata appena sopra, secondo cui la spesa pensionistica sia insostenibile e in quanto tale vada tagliata; semmai quella secondo cui la via corretta per rendere la spesa pensionistica sostenibile passi attraverso le politiche che riducono il rapporto fra popolazione inattiva (pensionati) e popolazione attiva e occupata. Nello stato attuale in cui versa la nostra economia, il mezzo più immediatamente efficace per garantire una maggiore sostenibilità del sistema previdenziale non è un taglio alle pensioni o un aumento dell’età pensionabile, ma è una convinta politica che abbia come obiettivo prioritario la piena occupazione e il pieno utilizzo degli impianti, che permetterebbe di generare un reddito sufficiente nell’economia e redistribuirne una parte, attraverso la tassazione, sotto forma di previdenza sociale. Una proposta politica che mira a raggiungere efficacemente tale obiettivo e a contrastare la povertà e l’esclusione sociale è quella di un Piano del Lavoro Garantito: un programma con il quale lo Stato si impegna a garantire un lavoro pubblico a tutti coloro che vogliono e possono lavorare, ad un salario minimo prefissato, in risposta a bisogni sociali insoddisfatti. In un’ottica di più lungo periodo, alle politiche per la piena occupazione vanno affiancate politiche in favore della natalità, dell’infanzia e dell’uguaglianza di genere, in modo da ristabilire una piramide demografica meno sproporzionata sulle fasce della popolazione anziana e non scaricare il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia interamente sul sesso femminile. Peraltro, di per sé la piena occupazione aiuta a far figli, e non dovrebbe essere necessario spiegare perché. Ovviamente, anche qui, il presupposto delle politiche per la piena e buona occupazione e delle politiche demografiche è il superamento dei vincoli di bilancio pubblico autoimposti e sottoscritti nei trattati internazionali, nonché recepiti dal nostro ordinamento giuridico attraverso l’art. 81 della Costituzione.
Conclusione
Se l’economia ha risorse produttive in età lavorativa inutilizzate, la loro inattività è il vero spreco. Le politiche per la piena occupazione, oltre ad essere desiderabili sotto il profilo sociale, sono politiche per il raggiungimento dell’efficienza economica. Le pensioni sono tanto più leggere quanto più è ampia la popolazione che lavora. Questa è la base corretta per discutere di sostenibilità. I risparmi o gli eccessi del passato non c’entrano niente. E per quanto riguarda il futuro, concluderemmo con Camus: “La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente”.
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