domenica 1 settembre 2013

La politica? Per farla bisogna uscire dall’ambiguità di Ars Longa, http://irradiazioni.wordpress.com

L’abbiamo pescato mentre si prepara ad andare a Mantova al Festivaletteratura che si terrà in quella città dal 4 all’8 settembre. Un lavoro nel campo dell’editoria alternativa, un passato politico, un presente da spettatore non silente. Chiamialo Ars Longa – Lettere o come volete voi. Gli abbiamo posto  delle domande che sono emerse qui tra articoli e commenti.
Ti ho fatto vedere quello che si scrive sul blog, i commenti e i ragionamenti e vorrei porti la questione che sembra emergere e che – ovviamente – è legata al “che fare?”. Il tema è che ci sia un Paese addormentato che ha bisogno di essere “risvegliato”. Alcuni commenti propongono la necessità che le persone già “sveglie”, le più coscienti, il ceto intellettuale, si adoperino per far uscire dal torpore il resto della popolazione. Tu cosa ne pensi?
Prima di tutto un complimento per i contenuti, non sono un grande frequentatore della blogosfera però mi pare che stiate facendo un buon lavoro, ci vedo una qualità di contenuti una spanna sopra la media dell’usuale. Poi, per rispondere alla tua domanda senza girarci intorno, io credo che la teoria del popolo “addormentato” sia una tradizione italiana più che una realtà. Non è un caso che l’inno nazionale incominci con le parole “l’Italia s’è desta”. L’idea che il popolo italiano viva un sonno dal quale può essere risvegliato è consolatoria per sua natura. Presuppone che ci siano le energie per cambiare  una situazione. Presuppone che un potere ostile abbia addormentato un intero Paese. Nell’Ottocento erano i governanti degli Stati pre-unitari asserviti agli Austriaci, all’inizio del Novecento le grandi potenze mondiali che volevano negarci il “posto al sole”, per noi che eravamo la “grande proletaria” bisognosa di colonie. Dopo la parentesi dittatoriale che ha retoricizzato la nazione, l’addormentamento è stato attribuito ad un limaccioso potere politico democristiano. Tramontato anche questo si è visto nella televisione berlusconiana il sonnifero delle coscienze. La classe “intellettuale” di questo Paese ha bisogno di questa interpretazione, che è una visione molto strumentale.
In primo luogo preserva il ruolo di una certa classe (intesa in senso ampio e non marxiano) che si pone come “risvegliatrice” e in secondo luogo ribadisce la favola autoesplicante del popolo buono governato male.
In sintesi: non credo che il popolo stia dormendo ma che sia un topos comodo per molti.
Se non è addormentato però sembra non reagire. Credi che la maggioranza pensi di essere governata bene?
Assolutamente no, gli ultimi centocinquanta anni non sono un esempio di buon governo sotto nessun aspetto. Però il teorema del “buon popolo addormentato” che sta in attesa di un principe azzurro che gli indichi la via per il riscatto è, appunto, una favoletta. Fabbricata da un certo “milieu” culturale. Ed è una favola che ha, da sempre, degli effetti catastrofici. Cerco di andare con ordine. In ogni cultura nazionale esiste una qualche forma di contrapposizione tra alto e basso, ovunque c’è del risentimento dei governati verso i governanti. Questo risentimento in Italia (ma anche altrove) genera però non una propensione alla rivolta ma un adattamento fatalistico alla situazione ed il ricorso alla astuzia come strumento di reazione. In Italia, più che altrove, è diffusa nella cultura informale la convinzione che ci sia un “palazzo” che ordisce trame e complotti contro la povera gente. Il “palazzo” è abitato da una classe dirigente che ha conseguito la sua posizione grazie ad una operazione politica non trasparente. E proprio in virtù di questo ottenimento fraudolento del potere lo esercita in modo da anteporre l’interesse proprio all’interesse generale. Come ci si può difendere? Assumendo un ruolo passivo e giocando d’astuzia. Faccio finta di sottomettermi e ricerco degli spazi di autonomia negli interstizi del sistema. Mi faccio furbo e la furbizia diventa l’arma di chi pensa di non potersi misurare con il potere in campo aperto. C’è gente, soprattutto a Sinistra, che – sotto sotto – si è sempre stupita dell’assenza di capacità rivoluzionarie del popolo italiano. Perché non c’è una Bastiglia, un Palazzo d’Inverno italiano? E la spiegazione è invariabilmente quella del popolo addormentato che nessuno ha mai svegliato. In realtà – a mio avviso – non solo è sveglissimo ma è forse uno dei più rivoluzionari al mondo. Gli Italiani sono in una rivoluzione permanente a bassa intensità dall’unità d’Italia in poi e, forse, anche da prima. Rivoluzione che usa l’arma della sfiducia sistematica e della furbizia.
Non ti pare di condannare così il popolo e di ricadere in un giudizio altezzoso?
Affatto. Perché c’è l’altra parte del quadro da vedere. Alla visione dal basso corrisponde specularmente una visione dall’alto. La classe dirigente italiana ha degli stupefacenti tratti da “ancien regime” che difficilmente si riscontrano altrove. Chi governa ha un atteggiamento aristocratico di sostanziale disprezzo del popolo. Un disprezzo che va al di là del tempo e delle ideologie. Provava disprezzo verso il popolo il notabilato giolittiano e crispino ed anche quello fascista (nonostante gli strilli di segno opposto). L’idea che governare gli italiani sia difficilissimo è comune a tutti i regimi che si sono succeduti. Andreotti scrisse una volta che Mussolini avrebbe detto che “governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Non so se Andreotti abbia coniato un suo pensiero per metterlo in bocca al fondatore del fascismo, ma sostanzialmente da tante altre fonti si può dedurre che questo era effettivamente il pensiero mussoliniano. Le classi dirigenti italiane si basano sulla dicotomia tra il noi (i colti) e loro (i bifolchi), chi governa sente di farlo per ragioni ontologiche non in virtù di un processo democratico. Ed il fatto che l’esercizio del potere sia vissuto come un “destino” fa sì che la classe dirigente non abbia mai sentito il bisogno di legittimare la propria esistenza con il proprio lavoro. Se governo perché Dio o il destino o il Partito mi hanno posto a governare è assolutamente inutile legittimare il mio governare attraverso la creazione di benessere collettivo. E se manca il bisogno di legittimazione subentra l’arroganza del potere. Ed il cerchio si chiude.
In che senso?
Nel senso che c’è una profezia autoavverante che si compie. Il popolo considera sempre fraudolento l’esercizio del potere della classe dirigente, la classe dirigente considera sempre chi governa una massa di bifolchi di cui è meglio fidarsi il meno possibile.
Questo rapporto lo vedi ben fotografato dai presupposti concettuali del sistema fiscale. Il fisco parte dal principio che il contribuente cerchi di “tirare a fregare”. Il contribuente parte dal principio che il modo migliore per reagire alla tassazione sia quella di eluderla il più possibile. Il meccanismo genera quelle cose incredibili secondo le quali l’Agenzia delle Entrate presume che tu debba guadagnare una certa cifra attraverso quella follia concettuale che è lo studio di settore. Il contribuente sotto i parametri dello studio di settore può mettersi in regola pagando una cifra che sarebbe inferiore a quello che lo studio indica ma che è superiore rispetto a quello che dichiara. Il meccanismo è: io so che tu bifolco stai tirando a fregare perché ontologicamente tiri a fregare. Questo ragionamento si rispecchia nel ragionamento dell’altra parte: io so che tu Stato sei predatorio ed ingiusto perciò gioco d’astuzia. La conclusione è un trovarsi a mezza via trattando un accordo. E questa sfiducia reciproca tra alto e basso si risolve sempre in una dialettica di trattativa che trova non un punto di verità ma un punto di comodità tra due posizioni.
Questa dinamica genera due alibi comodissimi sia per il basso che per l’alto. Il popolo ha nell’uso fraudolento del potere da parte delle classi dirigenti, l’alibi per mettere in atto comportamenti tecnicamente e/o moralmente discutibili nel suo rapporto con lo Stato. La classe dirigente ha l’alibi per giustificare il proprio potere senza la necessità di legittimarlo. Ma dirò di più, la classe dirigente può in questo ecosistema distorto rifiutare di sentirsi élite che guida. Se ci fai caso la classe dirigente italiana nega sistematicamente il proprio ruolo di responsabilità. Se vai da un sindaco ti dice che lui, il potere non lo ha, che sta altrove. La stessa cosa te la dice il presidente della regione, il parlamentare, il membro del governo. La classe dirigente italiana si dichiara sempre sfornita di potere e, in questo modo, lo può esercitare senza sentirsi responsabile e senza decidere di assumere le guida. L’innamoramento dell’Europa, fortissimo per molto tempo in Italia, è stato comune al popolo e alla classe dirigente. La ragione è semplice: la classe dirigente trovava negli organismi europei un soggetto sui quali scaricare il ruolo guida, il popolo sperava finalmente che qualcuno questo ruolo guida se lo assumesse. Quando le cose andavano bene si coltivava l’idea che i nostri nodi sarebbero stati sciolti dalle decisioni europee. Alcune decisioni forti ci sarebbero state, finalmente, imposte dall’esterno. E un meccanismo del genere aveva un consenso larghissimo. Le classi dirigenti che hanno sistematicamente rifiutato un ruolo guida e le responsabilità ad esso connesse si sono sentite sollevate ancora di più dal loro dovere. I governati hanno sperato che l’intervento esterno avrebbe costretto la classe dirigente a fare ciò che non aveva mai fatto perché fraudolenta in sé.
Ma adesso le cose vanno male.
Sì ma la produzione seriale degli alibi non è finita, anzi. Da un lato la classe dirigente sta giocando la partita con la parola magica “ce lo chiede l’Europa” e continuando a nuotare beatamente nel mare della deresponsabilizzazione. Dall’altro lato sempre più cresce l’ostilità popolare verso l’Europa accusata di essere la ragione della crisi economica. Che – a fare i conti bene – è un ulteriore alibi per dimenticarsi e dimettersi dalle proprie responsabilità. Questo poi si intreccia con temi popolari dormienti ma sempre vivi: i tedeschi sanguinari e cattivi, il potere cieco e oppressivo qualunque sia.  L’antieuropeismo che sta sorgendo è l’alibi per i governanti e i governati. Non dico che il progetto europeo sia stato positivo. Io penso tutto il male possibile di come negli ultimi dieci anni è stato gestito. Però dico anche che fa comodo nascondere le proprie colpe sotto il tappeto europeo. Nessuno si prende – come al solito – la propria parte di responsabilità, si può vigliaccamente e criminalmente sostenere che in questo Paese la corruzione non sia un problema. Si può giocare sulla autovittimizzazione per assolvere una classe imprenditoriale incapace, un sindacato seduto su sé stesso. Si può cioè far finta di essere lindi e innocenti dentro al bordello. Il gioco della vergine capitata per caso e contro la sua volontà nel puttanaio è un altro classico nazionale.
Ma non ti pare che in questo modo, anche tu attribuisca la situazione a fattori ontologici e quindi si ricada nel “nulla si può cambiare”?
No, perché alcune occasioni di cambiamento ci sono state e la principale è stata nel 1992 con il crollo dei sistemi di governo nati dal dopoguerra e vissuti nel clima della guerra fredda. Con Tangentopoli – per un momento – c’è stata una reazione al fatalismo e allo scetticismo diffuso, c’era stata l’idea di una liberazione da una “casta” – uso un termine abusato – che aveva espanso i livelli della sua immoralità oltre la sfera del sopportabile. Ma quella reazione – come spesso sembra accadere – non ha generato il rinnovamento della classe politica. Ha semplicemente fatto avanzare la linea dei colonelli che si sono sostituiti ai generali caduti sul campo delle inchieste giudiziarie. Ha favorito l’ascesa di figure solitarie come Berlusconi che altro non è se non il prodotto del sistema che era crollato, perché era nato ed era prosperato in quel sistema. Invece del rinnovamento ci si è accontentati della grande menzogna del bipolarismo, dell’idea cioè che la classe dirigente diventava più decente se semplificava le sue posizioni polarizzandosi in una fittizia sinistra e in una fittizia destra.
Il tutto mentre teorie neoliberiste, con il consenso unanime della classe dirigente, desertificavano i diritti delle persone e smantellavano il welfare state riducendolo ad una parodia.
Ma in tutto questo il popolo non ti è sembrato addormentato?
Per niente. Il popolo ha continuato nella sua rivoluzione permanente a bassa intensità esattamente come prima inglobando alcune parole d’ordine plastificate: “competitività”, “meritocrazia”, e via dicendo. Ha adattato il proprio agire sintonizzandolo sulla retorica neoliberista e riposizionandosi. La classe dirigente ha continuato a fare esattamente quello che faceva prima. L’avvizzimento – per me ingiustificato e ingiustificabile – delle ideologie ha segnato il “libera tutti” e le uniche aggregazioni popolari forti si sono verificate intorno alla difesa dei beni comuni. Ma nessuno ha voluto e saputo utilizzare questi temi per renderli pensiero unificante ed elemento sul quale uscire dalla rivoluzione a bassa intensità e inaugurare una stagione di radicale cambiamento.
In un certo senso il Movimento Cinque Stelle si è posto in questo modo, no?
Stai scherzando spero. Grillo e il suo movimento hanno generato una grossa pentola nella quale bollire a fuoco lento, senza farli mai arrivare alla temperatura giusta per essere affrontati, dei temi importanti. Sotto la forma di non-partito che tutto contesta nella realtà non contesta seriamente nulla. Accoglie tutti i temi, fa appello a tutte le differenze, raccoglie scontenti consci ed inconsci e li sbatte dentro ad un contenitore che li tiene caldi e controllati. Sulla questione europea ti dice che promuoverà un referendum che significa che non ha intenzione di uscire dall’euro ma non vuole dirlo. Sulle questioni ambientali e dei beni comuni si accoda a movimenti spontanei. Li vampirizza un po’ ma soprattutto li sterilizza. E – così facendo – continua a favorire la rivoluzione continua a bassa intensità che non esplode mai. Per esemplificare ancora di più: fare una campagna sul costo dei politici è legittimo ed anche utile ma usare il costo e non affrontare il tema della responsabilità significa sviare i problemi.
Ma allora come se ne esce? Quali idee possono valere per trasformare quella che tu chiami rivoluzione permanente a bassa intensità con un reale cambiamento? Come favorire un nuovo impegno collettivo?
I temi sui quali lavorare sono moltissimi, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Purtroppo quello che vedo è la rincorsa alla creazione di soggetti politici (leggi partitici) altrettanto confusi e forse più di quelli già esistenti. C’è attenzione al contenitore perché si pensa che un contenitore potrebbe canalizzare lo scontento. Non ci sono nell’aria proposte politiche che hanno valore di assunzione di responsabilità ma tentativi di appropriarsi del disagio sociale. Quello che vedo è tatticismo. C’è un buco spaventoso sia a destra che a sinistra. Non esiste più né un grande partito di destra né un grande partito di sinistra perché si è fatta strada l’idea che gli italiani siano un popolo essenzialmente di centro. In questo modo tutti cercano di essere meno definibili possibili. Una specie di politica di marketing che possa captare voti qui e lì. Così tutto si è fatto impreciso, tutto si è omologato. Tutti evitano di prendere posizioni nette su temi difficili: lavoro migrante, politiche di welfare, politica internazionale. Le battaglie si scatenano (apparentemente) su temi periferici rispetto alla sostanza. Il tema che ho visto trattare con grande intensità sul vostro blog è l’euroexit. Bene, questo è un esempio della periferizzazione dei discorsi. Il tema centrale è: “vogliamo continuare a percorrere il sentiero neoliberista?” La periferia del tema è, “vogliamo continuare a stare nell’Euro?”. Scegliere il tema periferico è una operazione di ipocrisia politica. Perché alla fin fine battere sul tasto “Euro sì, Euro no” ha l’indubbio vantaggio di spostare il problema centrale in un “più avanti” indefinito e di cercare di acchiappare consensi a destra e a sinistra. In una prospettiva, appunto, del “poi si vedrà”. E’ più facile parlare di Euro che non di politiche dell’occupazione giovanile. Perché con il 39,5% di disoccupazione nella fascia più giovane dare una risposta significa prendere una posizione netta. Ad un problema del genere devi opporre una ricetta che vada al di là del problema stesso. Devi dire alle persone: “signori, il modello neoliberista ci ha portato qui, occorre uscire dal neoliberismo”. Invece si preferisce dire “l’Euro ci ha portati qui, bisogna uscire dall’Euro” o, dall’altra parte si dice “dobbiamo avere più Europa”. Il che è, francamente, una operazione di scarico delle responsabilità ancora una volta. Perché nessuno, e sottolineo nessuno, ti dice come ridurre la disoccupazione giovanile, gestire il lavoro migrante, amministrare il welfare e rinnovarlo, impostare nuove politiche industriali. Io francamente mi sento preso per il sedere quando qualcuno invece di espormi politiche complessive cerca di concentrare la mia attenzione su un tema periferico.
Ammettiamo per un attimo di essere usciti dall’Euro. Con precisione, dopo, che idea di società e quali scelte si vogliono fare? Che modello c’è dopo? E non basta dire, “intanto usciamo perché se restiamo saremo morti” perché questa è una stupidaggine. La mobilitazione fatta sotto la pressione della paura esime chi fa proposte dallo spiegare bene il dopo. L’obiezione secondo la quale la casa sta bruciando e bisogna uscirne e poi vedere sembra di buon senso ma in realtà è una truffa. Perché uscire dall’Euro non significa uscire dalla casa, significa uscire solo da una stanza. In sostanza si propone di uscire da dove si è ma non si dice che non c’è volontà di uscire dalla casa.
Per casa intendi il pensiero neoliberista?
Di più: intendo il paradigma di crescita complessivo. Questo nessuno lo discute. A destra si ripercorre una strada tradizionale e si dice in sostanza che il capitalismo finanziario è da arrestare. Ma per far cosa? Per sostituirlo? No. A destra ti parlano di un capitalismo “ben temperato”, direi quasi “caritatevole”. Insomma un capitalismo che lasci sopravvivere il dettagliante e il piccolo imprenditore, un capitalismo un po’ autarchico con qualche pezza sul sedere ma sempre capitalismo. A sinistra (in una certa sinistra radicale, perché il resto non è sinistra se non per un concetto di nominalismo) ti parlano di uscita dal capitalismo ma nonostante tutte le eterodossie possibili che esistono in quel campo, rimangono inchiodati al valore del lavoro, alle classi operaie (sempre più striminzite, ma non importa). Il che significa ancora una volta che neppure qui si mette in dubbio il paradigma della crescita. La “crescita” è la parola tabù: nessuno mette in discussione il significato di “crescita”.
Il fatto che il “decrescismo” in Italia sia preso come una teoria bislacca e utopista ti dice chiaramente che il paradigma della crescita come progresso sta lì granitico e intoccabile a destra come a sinistra. Certamente non ha aiutato il “decrescismo” certe posizioni “new age” e certi personaggi ed idee più medioevali che altro. Certe affermazioni di un Latouche sono così folli da contribuire a far catalogare il “decrescismo” come una setta di squinternati. Il problema allora è che non si tratta più di dire “fuori dal capitalismo” perché ci sono tante versioni del capitalismo, versioni hard e versioni soft. Chi ti dice “fuori dal capitalismo” propone sempre la sua idea di capitalismo. Il punto è affermare con decisione che bisogna uscire fuori da un “paradigma di crescita”.
E affermare senza mezzi termini la necessità di uscire dal “paradigma di crescita” aggregherebbe e motiverebbe?
Voglio dire che qualsiasi cosa tu proponi devi proporlo con decisione e senza retropensieri tattici e ambigui. Non bisogna avere paura di perdere voti dicendo le cose precise. Il problema è che nessuno si mobiliterà mai seriamente, nessuno svilupperà mai un pathos, una idealità intorno a delle ambiguità. Devi dire esattamente cosa vuoi su tutti i temi non solo su quelli periferici che ritieni aggreganti. Non puoi stare zitto su quegli argomenti sui quali sai già che potresti non avere il consenso di una parte. Devi dire tutto su tutti i temi, anche scomodi. Devi fare quello che non fa più nessuno: devi prendere posizione, una posizione netta e chiara e lavorare perché su quella convergano le persone. Certo sui temi della cittadinanza se ti dichiari che ne so, per lo ius soli o per lo ius sanguinis a seconda di dove ti collochi, perdi consenso dall’altra parte. Ma se vuoi fare politica devi credere in quello che dici. Se fai pretattica non vuoi cambiare le cose, vuoi prendere il potere. Ma prendere il potere restando ambiguo ti rende definitivamente ambiguo. La gente ti osserva. Capisce se credi in quello che dici, se affronti il nocciolo della questione. C’è gente come Casaleggio che nelle interviste preconizza (e secondo me si augura) disordini e violenze causate da uno shock economico. E, nell’attesa dei moti di piazza, sta seduta a guardare illudendosi di cavalcare l’onda quando arriverà. Ma l’esperienza ci dice che in situazioni anche più estreme (penso alla Grecia) la rivolta non sta generando alcun cambiamento. Per generare cambiamento ci vuole una proposta globale di rinnovamento della società. Una proposta completa, che non trascuri niente, che non taccia su niente. Occorre dare alle persone risposte non ambigue su tutti i temi. La gente non vuole sentirsi dire: “su questo ci penseremo poi”. Non vuole una proposta che ti faccia solo uscire da una stanza mentre la casa continua a bruciare. Non vuole sentirsi dare delle risposte parziali. La gente non vuole marketing politico, “politiche di fase”, tatticismi: la gente vuole cuore, convinzione, impegno, chiarezza, competenza. E nessuno gliela sta dando. Prima ancora di pensare a come rendere comprensibile un programma sul quale aggregare le persone bisogna che sia “vissuto autenticamente” da chi lo propone. Bisogna ascoltare e bisogna prendere posizione.

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