martedì 17 agosto 2010

Chi fermerà gli oligarchi?

Perché non si può leggere la crisi italiana solo in termini politici o istituzionali. Una risposta a Padoa Schioppa.

Non meraviglia che le élite dominanti si esercitino in una lettura tutta politica della crisi esplosa con la rottura del Pdl. «La politica curi la politica» era il titolo emblematico dell'editoriale del Corriere della sera del 14 agosto a firma di Tommaso Padoa-Schioppa (do you remember?). Non si tratta solo di schemi ideologici (l'idea che la contesa tra i partiti riguardi il sistema politico, per definizione separato dal contesto sociale). Influiscono anche interessi molto concreti, poiché circoscrivere il discorso al piano politico-istituzionale permette di ignorare il tema del modello sociale e di un reale rinnovamento della classe dirigente. Stupisce invece che la prospettiva politicocentrica, affine alla tesi dell'autonomia del politico, prevalga anche a sinistra. Stupisce e allarma, perché la confusione tra la malattia e i suoi sintomi è in questo caso un segno di grave regressione.Una verità Padoa-Schioppa la dice: le questioni alla base della crisi hanno natura costituzionale. Ma non si tratta tanto, come lui crede, dello scontro tra diverse concezioni dello stato, della politica e della legalità - questioni cruciali, ma risolvibili ridefinendo i rapporti di forza in seno alla classe dirigente che guida il paese da vent'anni a questa parte. La crisi in atto è diversa dalle precedenti perché certifica la fine della transizione inaugurata nei primi anni Novanta dal terremoto di Mani pulite e approdata due anni fa alle prove tecniche di bipartitismo dirette dall'asse Veltroni-Berlusconi sullo sfondo del nuovo binomio Pd-Pdl. I 15-20 anni della cosiddetta Seconda repubblica sono alle nostre spalle. In questo turbinoso periodo l'Italia è cambiata in profondità: nella composizione sociale, nei rapporti di forza tra le classi, nelle relazioni industriali, nella forma di governo, nel paesaggio culturale, nella stessa antropologia. Gli indicatori che misurano lo stato del paese e che raramente figurano nelle analisi della crisi politica (i dati su distribuzione del reddito, precarietà del lavoro, proprietà e controllo delle grandi imprese e dei maggiori mezzi d'informazione) dicono senza tema di smentite che sono state poste tutte le premesse perché l'Italia divenga anche formalmente una Repubblica oligarchica, fondata sull'asservimento del lavoro dipendente (in particolare operaio): sul suo impoverimento e sulla negazione della sua soggettività. La questione che oggi non soltanto la crisi politica, ma anche e in primo luogo la recessione mondiale pongono all'ordine del giorno è quale configurazione il paese debba stabilmente assumere (sul terreno economico e sociale, prima ancora che sul piano politico-istituzionale) dopo la grande devastazione compiutasi in questo ventennio e al termine dell'agonia del potere berlusconiano. In questo senso la crisi è costituzionale e sarà costituente. A quale esito approderà? Francamente, non si vedono molte ragioni di ottimismo. L'unico soggetto capace d'iniziativa è al momento il grande capitale privato, protagonista della transizione neo-oligarchica. Marcegaglia, Montezemolo e soprattutto Marchionne tengono la scena della crisi, lanciando segnali in tutte le direzioni. La pretesa è nota: smantellata la Prima Repubblica e svuotata la sua «obsoleta» Costituzione, ristabilire e costituzionalizzare l'ordine liberale, fatto sì di legalità e di rispetto dello stato di diritto, ma anche di sovranità dell'impresa privata e di silenzio del conflitto operaio e sociale; di iniquità fiscale e funzione servile dello Stato; di privatizzazione delle istituzioni e trasmissione ereditaria delle posizioni sociali. Tanto dinamismo dimostra che il padronato intuisce la portata della posta in gioco. Gli interlocutori non gli mancano. Ha anche avversari? Questo è il punto, al di là delle dispute tra gli schieramenti parlamentari e degli stessi sviluppi istituzionali dello scontro politico. Lo si capirà già nelle prossime settimane dalla disponibilità delle componenti più avanzate del centrosinistra ad aprire una discussione vera su quanto è accaduto negli ultimi 20 anni e a riflettere criticamente sulle scelte compiute sul terreno sociale e istituzionale. Queste scelte non hanno soltanto accompagnato e in qualche caso prodotto la sconfitta del lavoro nel nostro paese. Hanno anche determinato la scomposizione del blocco sociale imperniato sul lavoro dipendente, la crisi storica del sindacato e la frantumazione della rappresentanza politica delle classi lavoratrici e dei settori sociali più esposti agli effetti perversi della «modernizzazione neoliberista». Anche se al momento non si vedono che pallidi segnali di ripensamento, non è escluso che la gravità della crisi sociale e politica porti con sé una nuova consapevolezza. Pensarlo non è impossibile, sperarlo è doveroso.

di Alberto Burgio
su il manifesto del 17/08/2010

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