Il
24 luglio la Turchia ha cominciato a lanciare una serie di attacchi
aerei “contro il terrorismo” in territorio iracheno, ma il governo del
presidente Recep Tayyip Erdogan non sta combattendo lo stato islamico
(IS o Daesh), come aveva preannunciato dopo la strage di Suruc del 20
luglio. In realtà sta approfittando del consenso internazionale e del
“pericolo terrorista” per colpire militarmente soprattutto le posizioni
degli attivisti indipendentisti curdi nel nord dell’Iraq e nel sud della
Turchia. E’ la prima volta che questo succede da quattro anni a questa
parte e in particolare da quando, due anni fa, era iniziata la tregua
tra lo stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). La
strategia antiterrorista turca si serve di un’ascia dalla doppia lama
contro l’emergenza del califfato, giustificata dalla necessità di
risposte immediate contro i jihadisti, e anche contro il vecchio nemico
interno separatista. Dopo mesi di relativa passività e permessivismo
verso l’IS è stato avviato un piano “anti-terrorismo” senza precedenti
che, però, solo nelle prime ore ha colpito direttamente i miliziani del
Daesh, mentre poi i raid aerei degli F16 ed F-4E si sono diretti
decisamente contro le postazioni curde del PKK, il cui leader Abdullah
Ocalan è in prigione dal 1999, nelle città irachene settentrionali di
Qandil, Avashin e Basya e la zona turca di Sirnak. Nei primi tre giorni
sono stati impiegati 75 caccia per 185 attacchi.
Pertanto
il cessate il fuoco con il PKK è stato interrotto, debilitando un
processo di pace che reggeva dal 2012, nell’ambito di un conflitto che
in tre decenni ha fatto più di 40mila vittime. Secondo quanto riferito
dal Primo Ministro turco, Ahmer Davutoglu, gli attacchi si sono rivolti
contro “hangar, nascondigli e strutture logistiche” sulle montagne di
Qandil in cui l’alto comando del PKK che, di conseguenza, ha dato per
conclusa la tregua “vista la fine delle condizioni per cui era
mantenuta”, riferisce il comunicato del braccio armato del partito. Il
22 luglio il PKK aveva rivendicato l’uccisione in un attentato di due
poliziotti turchi, accusati di connivenze con l’IS, a Ceylanpınar come
ritorsione per l’attentato suicida a Suruc.
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Nei
giorni successivi ai primi raid aerei turchi la reazione del PKK non
s’è fatta attendere e in questi giorni le risposte armate si sono
intensificate: quindici impiegati di una centrale elettrice turca a
Sirnal, nel Sudest, sono stati sequestrati e i ribelli hanno anche
arrestato un poliziotto turco, hanno ucciso un alto ufficiale e ferito
due soldati, oltre ad aver realizzato numerosi attacchi a postazioni
militari e di polizia. I militanti del partito hanno definito i
bombardamenti come “l’errore militare e politico più grave” commesso dal
presidente turco e l’iniziativa militare è stata condannata anche dalle
autorità del Kurdistan iracheno e dal presidente della regione autonoma
curda, importante partner commerciale di Ankara, Massud Barzani, il
quale ha espresso la sua “disapprovazione” e ha denunciato “il livello
di pericolo della situazione” per auspicare uno stop all’escalation di
violenza. D’altro canto Barzani ha anche chiesto ai curdi del PKK di
sgomberare il campo e ritirarsi per evitare stragi di innocenti civili
in territorio iracheno. Invece Ban Ki-Moon, segretario generale
dell’ONU, ha definito i raid come atti di “legittima difesa”.
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Quindi
Erdogan sta usando il pretesto della lotta contro l’IS, dell’attentato
di Suruc e della reazione del PKK per attaccare su due fronti: da una
parte lo stato islamico, che per ora ha ricevuto un trattamento
piuttosto blando dato che ai miliziani di Al Baghdadi è stato con
frequenza permesso il transito lungo il confine turco, e i curdi. Nella
Rojava sono stati ostacolati progressivamente l’approvvigionamento dalla
Turchia e i corridoi umanitari, in Turchia tra arresti e persecuzioni
la macchinaria repressiva s’è messa in moto da tempo, e in Iraq si
bombarda. Inoltre il governo ha concesso l’uso delle basi militari nel
sud del paese all’aviazione statunitense e alla coalizione
internazionale per le operazioni anti-Daesh. Da più parti (per esempio
dall’HDP) il governo è stato indicato come “complice” dell’IS, cioè poco
interessato a smantellare le sue reti nel paesi e a evitare gravissimi
attentati come quello del 5 giugno che, due giorni prima delle elezioni,
durante un comizio dell’HDP a Diyarbakir, fece due morti e decine di
feriti.
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A
Kobane, nel Kurdistan dell’ovest (Rojava), i curdi stanno costruendo
una repubblica democratica, un’esperienza politica che, ispirata e
paragonata anche al neo-zapatismo e ad altre esperienze autonome, ha
suscitato interessi, speranze e solidarietà in tutto il mondo. Le YPG e
YPJ (Unità di Protezione del Popolo/delle Donne) hanno obbligato l’IS a
ripiegare e sono state le uniche a combatterlo sul campo di battaglia,
riguadagnando territori e villaggi, nonostante abbiano sofferto decine
di attentati e controffensive, non militari ma a tradimento e suicide,
come quella del 25 giugno a Kobane che ha fatto centinaia di vittime
civili e ha anticipato di un giorno gli attacchi terroristi simultanei
in Francia, Tunisia, Somalia e Kuwait. I successi delle YPG/YPJ contro
il califfato sono evidenti, ma una regione autonoma curda in Siria
costituisce una grande preoccupazione per Erdogan. Pertanto il governo
della Turchia, paese membro della NATO e alleato statunitense, si
presenta come una forza anti-ISIS, ma permette il passaggio di miliziani
neri sul suo territorio e osteggia duramente gli unici che lottano sul
campo contro i jihadisti. In Turchia le manifestazioni anti-governative
e di solidarietà per le vittime di Suruc e per Kobane, che sono state
organizzate anche in decine di città europee, sono state oggetto di dure
repressioni da parte della polizia e dell’esercito turchi nelle ultime
settimane.
Gli altri paesi
dell’Alleanza Atlantica non dovrebbero, per ora, intervenire
militarmente nel conflitto affianco a Erdogan, ma, in accordo con la
Turchia e gli USA, hanno avvallato l’offensiva turca e la creazione di
una zona di sicurezza (safe-zone) nel nord della Siria. Si
tratta di una striscia di 90 km, che include la regione della Rojava,
che finirebbe sotto il controllo turco-statunitense: ufficialmente si
punta a proteggere con un territorio-cuscinetto il confine meridionale
con la Turchia e ad accogliere i rifugiati della guerra civile, ma in
realtà, secondo il leader dell’HDP, Salahettin Demirtas, costituisce un
“tentativo di Ankara per fermare la formazione di uno stato curdo nella
Rojava”, cioè una strategia per frammentare i territori in mano ai
curdi. Il pericolo maggiore per Erdogan sarebbe la costituzione di uno
stato curdo che unisca il Kurdistan iracheno a quello siriano e minacci
l’integrità territoriale della stessa Turchia. Per questo
s’intensificano le ostilità contro i partiti e i militanti curdi in
Siria, Iraq e Turchia con tutti i mezzi a disposizioni, compresi quelli
della diplomazia e de internazionali.
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