Nel naturale rallentamento percettivo agostano ai più sarà sicuramente sfuggita, probabilmente sarebbe stata ignorata anche in altre stagioni, la polemica tra il presidente dell’Istat e il ministro del lavoro Poletti. Il presidente dell’Istat ha accusato Poletti di giocare con i numeri. Ovvero, se usiamo una forma più diplomatica, ha avvertito il ministro che si stavano tirando fuori conclusioni frettolose dai fati forniti sul lavoro. Poletti ha risposto par suo, da centravanti di sfondamento della precarizzazione del lavoro targata Coop, e la discussione è svanita. Significativo è qui il fatto che l’attuale presidente Istat, che ha un curriculum scientifico meno pesante dei predecessori, sia stato nominato perché tra i candidati, alla guida dell’istituto, meno ostili al governo. Se il governo entra quindi in polemica con gli alti funzionari statali meno ostili, nominati proprio per quella caratteristica, vuol quindi dire che le forzature, in materia di lettura di dati e previsioni, sono evidenti. Anche perché, almeno nelle intenzioni, il governo Renzi vorrebbe rispondere alle critiche “con i fatti”, come recitano le regole della propaganda dell’ultimo quarto di secolo. E per farlo non ci sarebbe niente di meglio dell’esibizione mediale dei numeri della “crescita”. Il punto è che i numeri non ci sono, salvo per avvento di qualcosa di straordinario, nemmeno dove governano i funzionari meno ostili e allora bisogna andarseli a cercare. Dove? All’Inps, dove la presidenza glissa il più possibile se li si usa con fantasia. Ma raggiungendo lo stesso, usando il marchio Inps sui media, un effetto televisivo, di spettacolo della crescita. E così si può parlare in tv di aumento dei posti lavoro, come fatto nei giorni scorsi, dove non c’è.
Il resto lo fa il solito effetto Orwell: il Jobs Act, espressione che in lingua inglese non esiste (solo la docilità delle redazioni di stampa e tv ha permesso di ufficializzare con solennità una perla da spaghetti inglisch) elimina le garanzie? I tg affermano lo stesso, con un po’ di contorsioni di parole, che così si creano posti di lavoro “stabili”. Peccato che in questo genere di contratto il licenziamento possa avvenire dal tramonto all’alba. Ma tanto i sindacati si guardano bene dal dirlo nello spettacolo dei Tg. Perché? Quando la segretaria nazionale della CISL prende mensilmente più del presidente della Repubblica è evidente che il consenso dei sindacati non è stato conquistato, con le politiche sul lavoro, ma monetizzato permettendo la crescita di un solo tipo di stipendio: quello dei livelli alti del funzionariato sindacale.
Ma è proprio su produzione e lavoro, se si esce dal recinto magico dei tg e della stampa, che la comunicazione del governo è improbabile. Senza recitare il rosario dei numeri, teniamoci su argomenti elementari. Cominciamo dalla produzione: nel periodo 2008-2014 è calata di circa, facciamo cifra tonda, il 25%. Se il governo Renzi riuscisse a raddoppiare l’attuale aumento della produzione, per recuperare il calo produttivo dei sei anni precedenti, impiegherebbe un quarto di secolo. Se lo mantenesse costante, sui livelli di oggi, allora toccherebbe il mezzo secolo. Sono previsioni elementari, basate su dati reali, che fanno capire però la realtà drammatica della crisi. Ma quando un paese, su questioni sistemiche, riesce solo a darsi risposte minimali, cercando di leggere fatti e dati con giudizi senza respiro (e non accade solo ai governi), mancare di vedere il crepaccio che è sotto i piedi rappresenta solo la norma. Crepaccio da cui quasi tutti si ritraggono inorriditi, nascondendolo prima possibile, visto che, nella scatola degli attrezzi delle culture politiche dell’ultimo quarto di secolo, non ci sono strumenti per la risoluzione di crisi epocali.
E siamo così alla rimozione così completa dei problemi reali, non solo da parte del governo, anche sul piano delle previsioni che riguardano il mercato del lavoro. Si è così fatto sparire dalla scena lo stesso FMI, oracolo delle politiche liberiste. Il FMI infatti afferma che, all’Italia, ci vorranno almeno 20 anni per recuperare i posti di lavoro persi nel periodo 2008-2014. Poletti si è ben guardato dal polemizzare con il fondo monetario internazionale, almeno pubblicamente, più facile prendersela con il presidente dell’Istat. E così il governo in economia oscilla sull’orlo del crepaccio, con qualche segno più nell’export dovuto all’euro e al petrolio deboli, mentre nella propaganda vola. All’abisso che sta giusto dietro la scenografia de “la volta buona” ci penserà poi. O ci dovrà pensare qualcuno che proprio non potrà evitarlo.
I problemi si fanno ancora più grossi quando si inquadra come le politiche economiche di Renzi, esecutore di ciò che emerge nella dialettica servo-padrone che c’è tra Roma e Bruxelles, esistono naturalmente per alimentare la propaganda di Salvini. Il leader della peggiore destra emersa, in termini di consistenza elettorale, dal dopoguerra. Una destra, non solo esplicitamente alleata con un gruppo fascista militante, ma che rappresenta una regressione antropologica persino rispetto al berlusconismo. Dove il berlusconismo, infatti, governava nell’illusione, ben alimentata finché è stato possibile, di un “nuovo miracolo italiano” (prodotto di propaganda di cui il renzismo è evidente sottomarca) la destra di Salvini cresce alimentando la ricerca del capro espiatorio, offrendolo ad una società terrorizzata dalla crisi (e qui siamo ai classici del fascismo oggi riproposti dando del “razzista” a chi critica simili, tragiche, stupidaggini). Come per la credenza nei miracoli, e quelli promessi dal berlusconismo hanno talmente funzionato da essere assunti a programma di governo dal partito avversario, anche quella nel capro espiatorio mette radici che durano nel tempo. Anzi, in tempi di crisi la pratica della caccia e dell’esecuzione, a volte simbolica altre materiale, di un responsabile “che turba l’ordine” può innescare velenose dinamiche sociali che durano a lungo.
Come le politiche di Renzi alimentino la destra economica, assieme al consenso politico, di Salvini è presto detto. In due modi. Il primo è sul piano dello smascheramento della propaganda, il secondo è su quello delle politiche possibili. Ed entrambi i modi possono saldarsi, e fare sinistro cortocircuito, a causa degli scenari che si profilano in economia.
Già, perché quando la Federal Reserve alzerà i tassi, e se si manterrà il rallentamento della “crescita” dei paesi emergenti, al governo Renzi non rimarrà neanche il sospiro di qualche segno più dovuto al dollaro e al petrolio deboli. Perché l’aumento dei tassi di interesse della Fed comporterà una rivalutazione del debito pubblico italiano. Mentre il rallentamento della crescita dei paesi emergenti, il manifatturiero cinese a luglio ha toccato -8 (e sono dati ufficiali), rischia di creare, direttamente o indirettamente, problemi permanenti a tutte le economie dell’eurozona. Tanto più che, per aiutare il manifatturiero, il governo cinese ha svalutato la propria moneta. Rischiando di innescare una guerra valutaria globale che, contenente o meno un rialzo dei tassi di interesse Fed in risposta al fenomeno, rischia di comportare comunque una nuova compressione di salari e consumi in Italia.
Facile intuire che, di fronte ad un nuovo periodo di allargamento della crisi, la propaganda di Salvini, che fa leva su una società impaurita e impoverita, si legittimerà ulteriormente come elemento di smascheramento, delle chiacchiere del governo, e come fabbrica di capri espiatori visibili, e attaccabili, sui territori. Se il renzismo ha giocato, fino ad adesso, su Salvini come miglior avversario, che ti fa fare il pieno di consensi perché inaccettabile, è possibile che presto il PD debba fare i conti con le conseguenze del giocare all’apprendista stregone.
Senza infatti una ricaduta materiale la propaganda de “la volta buona” è la logica sociale, molto potente, del capro espiatorio, assieme a quella della frustrazione che si fa rabbia, che può trovare egemonia fino a diventare maggioritaria. Ma il problema non sta solo nel fatto che, alimentando la crisi con politiche di privatizzazioni e tagli, Renzi finisce per costruire nuovi argomenti per una ulteriore legittimazione di Salvini. Il problema più grosso è il secondo. L’annunciata propaganda PD di taglio delle tasse, nonostante le tasse siano veramente alte, sarà un fallimento economico qualunque misura verrà presa. Tagliando le tasse dovendo mediare con Bruxelles, quindi senza sforare sul deficit e privatizzando, si aiuteranno solo i grandi capitali italiani a speculare, in Italia o all’estero, o a delocalizzare la produzione. Ma soprattutto, pur legittimando spettacolarmente il taglio delle tasse, il PD taglierà comunque meno di quanto chiesto da Salvini (una flat tax da economia alla cilena al 20% per tutti). Il rischio è quindi che, di fronte ad un allargamento della crisi apertasi con il 2008, con due distinte propagande sul taglio delle tasse in aperta concorrenza, si ottenga una vera e propria spirale di distruzione della ricchezza economica diffusa del paese. Come avvenuto quasi ovunque si è praticato politiche del genere. Una spirale attivata con il PD che insiste sul taglio spettacolo delle tasse, già annunciato da Renzi a Milano in luglio, come misura risolutiva. Tagliando però sempre meno di quanto chiesto da Salvini, la flat tax al 20% è roba da misura di guerra, e impiccandosi nella logica, tutta a favore della propaganda della Lega, dell’incattivirsi nella strada degli ulteriori tagli alle tasse non appena le misure si riveleranno per come sono: inique, inefficaci, pericolose e capaci solo di arricchire l’uno per cento del paese.
Tutto perché il Pd non ha un piano B rispetto a quanto vuol fare – una mistura che esce dalle direttive di Bruxelles, da un occhiolino alla finanza angloamericana e dal provincialismo da talk show - che si tradurrà nel tentativo permanente della “volta buona che le tasse si tagliano davvero”. Renzi farà così perdere a questo paese ulteriori, e considerevoli, forze produttive e ricchezze non solo economiche ma anche di capitale umano e di capacità acquisizione di tecnologie. Alimentando la propaganda economica del taglio delle tasse, facendo così il gioco di Matteo Salvini che “le tasse le vuol tagliare davvero”. In questi anni, a partire dalla crisi degli spread del 2011, in molti hanno cercato di individuare l’Heinrich Brüning italiano. Ovvero il cancelliere le cui politiche economiche, tra il 1930 e il 1932, furono talmente devastanti da fornire solidi argomenti all’ascesa del nazismo in Germania. Differentemente da Renzi, esperto nella sola arte dell’intrattenimento, Brüning aveva una solida preparazione economica e fiscale. Ma similmente a Renzi, e qui qualche campanello d’allarme dovrebbe suonare, la sua concezione del governo era basata su una radicalizzazione dei poteri del premier. Tanto che lo stesso Brüning si definì promotore di una “democrazia autoritaria”, che è più prototipo della renziana “democrazia che decide” più di quanto si voglia ammettere. Ogni “volta buona”, che si sia a Weimar o tra Firenze e Roma, richiede infatti una mano ferma. Salvo quando arriva poi qualcuno che, smettendo di giocare con le costituzioni e con l’opinione pubblica, la mano ferma ce l’ha davvero.
Renzi, di fronte alle nuove nubi che avvolgono l’economia globale, risulta quindi il migliore alleato di Salvini: promuove una concezione fallimentare dell’economia, alimentando la propaganda della frustrazione e del risentimento della Lega, e legittima il taglio delle tasse radicale voluto dal leader del Carroccio, colpo forse letale alla tenuta sociale del paese, perseverando in uno spettacolo del taglio delle imposte che non porterà frutti. C’è solo da sperare che lo scenario si congeli perché, se il parolaio di Palazzo Chigi è costretto, dallo scenario economico, a giocarsi qualche carta della disperazione allora i danni arrivano sul serio.
Certo, da sinistra, di sicuro con una qualche riedizione delle retoriche viste negli ultimi 20 anni non si batte né Renzi né Salvini. Né, tantomeno, si inverte il declino della produzione di ricchezza di un paese che è IL problema chiave dall’inizio degli anni ’90. Figuriamoci poi affrontare la realtà nella sua interezza ovvero quella che vuole che questo modello di sviluppo sia condannato, che la governance continentale multilivello si rivela un problema e non una soluzione etc. Ma qui si andrebbe fuori ascolto visto che stiamo parlando di un paese che in cui i pragmatici credono di volare basso mentre, semplicemente, si stanno preparando per la picchiata. Di sicuro mancherà la noia nella prossima stagione, che sarà bene scarsissimo. Su questo si potrebbe scommettere, e fare la fila, in qualsiasi agenzia che accetti puntate in argomento.
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