poveri cuori umani.
Dissén que’ malviventi: “Voi
siete partigiani”.
Vecchi e ragazzi, donne e bambini, barbaramente
fecen morì.
Teniamo in mente tutti
quell’accaduto atroce
ci hanno
pieno di lutti
spregiando anche la croce…».
Sono le parole di una
ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano,
dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava
guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli
schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri
che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse
non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i
cacciatori del Padule di Fucecchio.
Davvero, eran tutti innocenti,
il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti
italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E
innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si
ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come
una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era
una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano
la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza
importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano
tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un
carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del
conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza
non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia
anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e
sabotaggio.
Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e
con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno
distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni.
Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di
confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono
spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro
rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti
fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà,
di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato:
così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della
storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a
sembrare imbelli, contro la loro volontà.
Qual’è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittima–caduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen,
parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio,
come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata –
non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con
l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema,
ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di
Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista,
si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la
gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse
per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la
vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.
Il percorso tortuoso
con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e
imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie,
costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la
pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso
una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere
quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni
vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di
sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i
miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una
donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola
immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma
della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione
e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso
dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli
assassini.
Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata,
Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la
periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli
Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro
del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª
divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard
Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e
alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude
interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini
settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non
incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono
come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale,
una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era
un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però
quando si trattava di combattere la differenza era chiara.
La
limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più
dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da
quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal
Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio
supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si
continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli
anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più
neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e
infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e
mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco
in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici
milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato,
dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si
era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece
parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.
Sul
piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili:
ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato
l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert
Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale
di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di
uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a
ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte
dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo
Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i
lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità,
possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti
inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa
pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente
condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda
se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle
vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania
faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani
dovrebbero rassegnarsi?
Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello
della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la
guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di
quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della
Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla
persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si
avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un
berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi
cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti
spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A
raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».
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