di Luigi Pandolfi
Intervista a Marco Revelli,
intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E
da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia
Professor Revelli, in molti
Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo
significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale.
A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche
che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance
comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?
È vero. Mentre in altri Paesi
mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha
prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di “sinistre nuove” a
vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il
processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di
rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo,
dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi,
appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non
arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati
piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma
preponderante il quadro politico: non solo il populismo
nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e “guardiano” di
Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo “di governo”
di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in
modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di
costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a
sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle
tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della
protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo
dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche
del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è
la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno
della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di
innovazione – nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e
nelle idee – e di forza.
Viste le esperienze del
passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra
politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare
l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare
radicalità e ambizione di governo?
Sufficiente sicuramente no.
Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha
dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi
presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione
dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un
moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare.
L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni
alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento
sociale – le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure
riuscire a combattere – ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e
nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale
e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di
militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e
dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e
una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le
esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi
processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di
unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia
oggi, come ho detto, una condizione necessaria – tanto necessaria da
richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili – ma non sufficiente
per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
Necessaria perché la frammentazione
rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera
discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di
sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma
non sufficiente perché senza un segnale chiaro di “nuovo inizio”, senza
un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente
facendola sentire “la propria gente”, con cui si condivide sofferenza e
destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che
chiamiamo il “processo costituente” fallirebbe in partenza. Non farebbe
che riproporre l’immagine di una “sinistra senza popolo” circondata da “populismi senza sinistra”.
Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
Non sottovaluto il ruolo della leadership.
Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si
chiamava “la formazione del gruppo dirigente”. Ma anche di quella individuale:
l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino
nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della
forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore
strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in
Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione
della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e
della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché
precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo
collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci
sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà
difficile trovare le figure che lo rappresentano.
L’esito della
trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta
la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più
precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione
per la sinistra?
La notte tra il 13 e il 14
luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea.
Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea – questa
Unione Europea – è purtroppo incompatibile con la democrazia e con
l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus”
germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza
economici la chiave del’ordine politico. Più che di una “questione
greca” la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una
enorme “questione europea” e, dentro a questa, di una gigantesca
“questione tedesca”.
Perché vede una “questione europea”?
Perché l’Europa così come si è
rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza
immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali
di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta
unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle
società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un
ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee
una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
Vorrei dire di più: senza una
dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in
Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a
livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con
cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente
proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del
contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza,
militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a
distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è
difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è
necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo,
con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata,
colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati,
capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo.
In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
Mi ripeto. L’Europa rivelatasi
nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di
Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi
ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle
regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi
(contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per
ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa
non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle
proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e
una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa –
l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o
muore. Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e
di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa.
Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario?
Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che
l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti
europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a
rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il
contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si
potrebbe giocare una bella partita.
Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
Qualcosa è successo, nelle
ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte
praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana
che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un
embrione di road map.
Già all’inizio di settembre
sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale
che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e
che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa:
che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre
settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero
possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali
sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che
si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200
incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione
la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente
sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
Gruppi di lavoro sono già
previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti
cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”…
Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e
politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la
scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli
sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della
democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E
naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia.
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