L'industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che
riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l'anima. Poco
importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme
ottocentesche.
Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell'impresa, da tempo
rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i
consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i
loro redditi - al mercato. Si chiama Happyness Industry, l'industria della felicità.
Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le
imprese, sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire
l'economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più
duramente le torsioni dell'ultima fase della crisi capitalistica.
E' interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de La
Repubblica, che pure è un giornale di prima linea dentro questo
meccanismo.
Il saggio del sociologo britannico William Davis, descrive come “le
aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici
che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un
sabotatore da tenere d'occhio”. In alcune selezioni aziendali, ad
esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del
lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non
assunto. Non solo. E' stata istituita la figura dirigenziale
dell'addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer
- uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita
privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo
pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro.
Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone, è stata
importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso
come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di
ladylike e goldenboys.
A fare dell'ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei
“prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era
stato l'uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità
della sua Unieuro all'insegna dell'ottimismo. Ereditata dal padre Paolo
Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal
figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società
britannica. Gli slogan e gli spot sull'ottimismo iniziano nel 2001.
Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne,
Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale
infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui
ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In
compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche
su ogni aspetto: dall'abolizione dell'art.18 alla aziendalizzazione
della scuola, dal decreto sblocca Italia alla destrutturazione
dell'amministrazione pubblica.
Declinare in ogni conferenza stampa, twitter o dichiarazione che “le
cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede” - potendo
contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è
un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la
produttività c'è anche se non si può vedere.
Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la
demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose
come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia
sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l'ottimismo non
devono più essere categoria dell'anima, ma comportamenti da omologare.
Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è
quasi completamente vuoto.
Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Iannacci:
“e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!”
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!”
Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l'anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne.
La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può
essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici
artificiali o nelle politiche aziendali.
Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato.
Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in
conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione
di esistenza di questo giornale.
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