Molti stanno riponendo e
proponendo importanti aspettative nell’esito dell’assemblea bolognese di sabato
prossimo, 11 Maggio, indetta dai promotori del documento “Per un movimento
politico anticapitalista e libertario”.
L’occasione può essere intesa,
infatti, come una delle ultime possibilità per riavviare un cammino nella
prospettiva di costruire una soggettività politica della sinistra d’alternativa
dopo le molte sconfitte, elettorali e non, subite nel corso di questi ultimi
anni.
Non entro in questa sede
nell’analisi degli errori compiuti da presunti gruppi dirigenti, sulla debolezza
dell’analisi, sulla vacuità della proposta politica, sulla mancata comprensione
della dinamica sociale e dei termini reali dello scontro imposti dalla gestione
capitalistica della crisi.
Cercherò, invece, di occuparmi
di una possibile “pars costruens” al riguardo della quale credo l’assemblea
dovrebbe dedicare spazio e impegno.
Ho scritto di gestione
capitalistica della crisi e, in quest’ambito, si sta tentando – sul piano più
direttamente relativo al tema del “governo politico” un vero e proprio mutamento
di paradigma, di cui il governo PD-PDL dovrebbe rappresentare il punto di
suggello, dopo che questo mutamento era già stato imposto forzatamente dal
“governo dei tecnici”.
Si tratta di un vero e proprio
rovesciamento del senso della politica: con il passaggio, usando la terminologia
della scienza politica di marca anglosassone dalla “politics” alla
“policy”.
La “politica” nella sostanza
sarebbe costruita dalle “politiche”, elaborate in maniera interdipendente fra di
loro e del tutto staccate, non dico da una visione di tipo ideologico ma anche
soltanto e semplicemente da un progetto, considerato almeno a medio termine e
rivolto al complesso della società.
Ecco: tanto per cominciare,
proprio con l’obiettivo di affermare la nostra autonomia di pensiero e di ideale
dovremmo cominciare a opporci, prima di tutto sul piano culturale, a questo
proposito di vero e proprio rovesciamento dei termini concreti dell’agire
politico.
Proprio perché è da questo tipo
di impostazione che ho cercato di definire e denunciare che deriva la nuova
qualità degli effetti della gestione capitalistica della crisi, che stiamo
subendo.
E’ sparito dal dibattito
politico il tema delle classi sociali (si parla di disoccupati, precari,
esodati, pensionati al minimo, ma quasi mai si fa riferimento a una “classe”),
mentre in realtà l’andamento della distribuzione del reddito ha configurato la
crescita di una contrapposizione tra una classe di “super-ricchi” e una classe
di poveri, con un conflitto che, ormai da oltre dieci anni, favorisce soltanto i
primi.
Sostenere questa tesi, che
ritengo sacrosanta, non può che non richiamare alla nostra mente la tesi
marxiana secondo la quale nel corso del tempo il capitalismo avrebbe assistito,
da un lato, a una crescita quantitativa del proletariato condannato però a un
continuo impoverimento relativo se non assoluto e, dall’altro, a una
concentrazione in sempre meno mani della ricchezza del potere; con la
conseguenza che lo squilibrio crescente tra una classe sempre più numerosa e
sempre più povera e una classe sempre più ricca.
Ciò sta avvenendo non solo qui
tra noi dalla “parte del capitalismo maturo” ma ben oltre i suoi confini: questo
ben oltre lo “sfrangia mento sociale” in atto, gli effetti sulla vita comune
delle nuove tecnologie e quanto di cambiamento, da non sottovalutare
assolutamente, si sta verificando a livello globale.
Sulla base di quest’analisi è
possibile stabilire un primo principio, un primo punto di fondo: l’opposizione
al rovesciamento di paradigma tra “politcis” e “policy” non potrà risultare
efficace se non si stabiliranno i termini di una visione anticapitalistica e
come questa visione anticapitalistica non possa poggiare altro che sull’analisi
marxiana.
Appare così evidente, per
restare nell’ambito dell’attualità italiana, come le classi impoverite dalla
crisi e ridotte in una condizione di sfruttamento da vero e proprio”ritorno
all’indietro” siano ormai completamente prive di un’adeguata rappresentanza sul
piano politico.
L’altro punto che intendevo
toccare riguarda la qualità della democrazia.
Limito il mio sguardo
d’orizzonte, di proposito, alla situazione italiana.
In conclusione del ciclo: esito
elettorale, elezione del Presidente della Repubblica, formazione del nuovo
governo, appare in via di completamento il processo di presidenzializzazione che
aveva già segnato, in particolare, l’ultima fase del precedente settennato di
Napolitano.
L’obiettivo è quello di inserire
i termini della cosiddetta “Costituzione materiale” all’interno del complesso
delle regole che presiedono il delicato meccanismo della democrazia
repubblicana.
L’intreccio che si cercherà d
realizzare sarà quello tra l’esercizio della cosiddetta “democrazia del
pubblico” con un ruolo di governo (a tutti i livelli) fortemente accentrato e
imperniato su figure monocratiche: in particolare il Presidente della
Repubblica, sulla cui elezione in forma diretta mi pare si stia puntando
fortemente da più parti.
Si pone dunque in Italia
un’urgente questione democratica.
Il presidenzialismo porterà con
sé tutto il resto, dal sistema elettorale sempre più limitativo del pluralismo,
al ruolo del parlamento a quello dei consessi elettivi nelle autonomie locali,
alla democrazia sindacale, già così compromessa.
E’ nostro compito, allora,
ribadire la funzione fondamentale della democrazia rappresentativa, evidenziando
anche i pericoli gravi insiti in una certa logica della democrazia diretta
(magari agita esclusivamente attraverso il web).
Il sistema politico italiano
attraversa, come hanno ben dimostrato i recenti risultati elettorali, una grave
crisi principiata con la devastazione compiuta attraverso l’adozione del sistema
elettorale maggioritario, la ricerca della governabilità come bene in sé, la
personalizzazione della politica, la distruzione dei partiti intesi come
soggetti di dibattito politico e non tenuti in piedi semplicemente per svolgere
funzioni di nomina e di spesa, la creazione di nuovo soggetti fondati
sull’individualismo competitivo.
Attorno ai due punti fondativi,
della contraddizione di classe e dell’agibilità piena della rappresentatività
democratica ritengo debba impostarsi una proposta di nuova pratica politica
della sinistra d’alternativa da concretizzarsi attraverso l’espressione di una
nuova soggettività anticapitalista, connessa con la storia e la tradizione della
parte più avanzata della sinistra italiana e
internazionale.
Una nuova soggettività da
costruire partendo dal basso, realizzando nello stesso tempo un forte
radicamento sociale e la promozione di nuovi gruppi dirigenti, a partire dal
territorio, sciogliendo le incrostazioni esistenti nell’esercizio di un potere
di basso profilo.
Questa ipotesi di costruzione di
una nuova soggettività mi pare esca rafforzata attraverso l’espressione
dell’esigenza di mettere in moto un meccanismo di costruzione che proceda prima
di tutto nell’evidenziare una piena autonomia, sia rispetto all’espressione di
pensiero, sia al riguardo dell’elaborazione programmatica, sia nei confronti di
ciò che si muove all’interno del quadro politico.
Questa autonomia è reclamata,
prima di tutto come abbiamo già visto e argomentato, proprio dall’espressione
violenta di una crisi la cui gestione capitalistica sta impoverendo e gettando
nella disperazione milioni di donne e di uomini in un crescendo che pare davvero
inarrestabile: senza un chiaro connotato anticapitalista alcun soggetto politico
a sinistra non potrà esprimere quella capacità di sintesi e di aggregazione che
è necessaria per rispondere adeguatamente alle molteplicità di istanze di
movimento che pure sono in piedi ed esprimono momenti importanti di lotta
sociale.
Intendo essere chiaro su questo
punto: la mia idea di soggettività politica coincide con quella di partito, un
partito che, indipendentemente dai numeri di partenza, agisca senza indugi nella
logica (aggiornata quanto si vuole per via del mutamento delle condizioni
tecnologiche, comunicativa, ecc) del partito” a integrazione di
massa”.
Proprio la descrizione, sia pure
sintetica, delle contraddizioni in campo ritengo, inoltre, che ci possa far
affermare come un partito della sinistra d’alternativa in questo momento non
sarebbe semplicemente nelle condizioni di agire “in difesa” ma, pur tra mille
difficoltà, con una forte capacità di proposta alternativa che proprio la
drammatica situazione in atto impone di avanzare verso precise soggettività
sociali, a partire dal lavoro dipendente, potenzialmente in grado di produrre
nuovo radicamento.
Nei confronti dell’idea di
partito, oggi, si pongono molte obiezioni, soprattutto partendo dal dato –
inoppugnabile – della modificazione nel rapporto tra agire sociale, agire
politico, aggregazione, confronto, avvenuto attraverso l’espansione delle nuove
tecnologie telematiche.
Mi permetto di obiettare a
queste osservazioni ritenendo ancora l’aggregazione politica sul territorio
nella forma del partito la più valida per poter esprimere quello che Gramsci
definiva “l’intellettuale collettivo”.
Ecco la rielaborazione di un
partito “intellettuale collettivo” dovrebbe rappresentare, insieme, il nostro
obiettivo e la nostra ambizione, figurando anche un modello di struttura
misurato sull’idea consiliare a livello orizzontale (con meccanismi democratici
di qualificazione dei quadri) da espandere anche
verticalmente.
Un’ambizione sicuramente
legittima in questa fase di scontro sociale e politico così difficile: dobbiamo
dimostrare capacità di visione e d’iniziativa, solo così potremo superare le
difficoltà del momento, in una prospettiva storica di rovesciamento vero e
proprio dello “stato delle cose presenti”.
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