La celebre è di un socialdemocratico serio e rigoroso come fu lo
svedese Olof Palme: «Noi non siamo contro la ricchezza ma contro la
povertà. La ricchezza, per noi, non è una colpa da espiare, ma un
legittimo obiettivo da perseguire. Ma la ricchezza non può non essere
anche una responsabilità da esercitare». Frase cara anche a Walter
Veltroni, che la ripeteva spesso ma scordandosi sempre l’ultima frase,
magari non per caso («Ma la ricchezza non può non essere anche una
responsabilità da esercitare»).
Probabilmente Palme non aveva in mente, né poteva immaginare che
livello di ricchezza – così sfacciato, pacchiano, inutile,
ingiustificato – avrebbero raggiunto i moderni paperoni, ben descritti
dalla puntata di Presa Diretta.
Allora forse (forse, sottolineo) avrebbe pensato anche lui che questa
ricchezza è tutto fuorché bella e legittima. Questa ricchezza, che è ben
lontana dallo “stare bene” a cui aspiriamo, è semmai indecente e
immorale. Disturba quasi i sensi, e non è questione di invidia quanto di
umanità. Perché quella ricchezza non si fonda sulle capacità del
singolo (il famoso e mitizzato “merito”) ma sulla contemporanea povertà
di centinaia se non migliaia di propri simili.
Una cosa esclude l’altra: se sono ricco io siete poveri voi; ma se
non sono ricco io, forse stiamo meglio tutti. Senza scomodare gli
economisti di fama o lo spettro del comunismo, basta rifarsi alla
semplice osservazione della realtà. Le risorse del pianeta sono
limitate, non infinite. Le fette di torta sono contate e se qualcuno ne
ha di più, qualcun altro ne ha di meno. L’attico nel quartiere chic
Chelsea a Londra con la Lamborghini parcheggiata fuori si regge sulla
contemporanea esistenza di una favela brasiliana o di un caseggiato
popolare in una nostra periferia.
La grande balla post ideologica sta nell’accusa rivolta alla sinistra
– che furbescamente ci è cascata subito, orfana della propria storia:
«Voi odiate i ricchi, voi volete l’uguaglianza nella povertà». Invece
no, invece si diventa di sinistra proprio perché non si sopporta il
disagio sociale. L’uguaglianza è nel progresso, non nella regressione. E
il progresso è collettivo, non individuale. Il progresso di domani
passa per la redistribuzione di oggi, e la redistribuzione passa
giocoforza dai ricchi.
Fa impressione, più che altro, che un ragionamento del genere degno della politica insegnata a un bambino
venga considerato così scomodo proprio a sinistra (o fu sinistra).
Toccare i ricchi è un tabù, con noi rimasti vittime della teoria –
sempre smentita dai fatti, come ha spiegato in lungo e in largo Luciano
Gallino – secondo la quale più i ricchi aumentano il proprio patrimonio e
più si sta bene tutti perché poi ci penseranno loro stessi a
distribuire. Noi in balia di schiere di neo illuminati che difendono
strenuamente l’ideale della ricchezza – chissà se perché vorrebbero
esserlo anche loro, e vaglielo a spiegare che quel tipo di ricchezza
(sfacciata, pacchiana, inutile, ingiustificata) la felicità non te la
dà, al massimo te la toglie.
Fa impressione, ancora, accorgersi come si sia smarrita completamente
la base fondante del proprio essere di sinistra. Che è essenzialmente
un grumo di sentimenti. Cioè la rabbia, il disgusto, la percezione di un
forte senso di ingiustizia davanti alla disuguaglianza. Una rabbia mossa d’amore. Non ci si salva da soli, dicevamo una volta. Ma è l’ora del “riformismo”, e allora si salvi chi può.
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