mercoledì 4 settembre 2013

Sulla ricchezza e sulla povertà di Matteo Pucciarelli, Micromega

La celebre è di un socialdemocratico serio e rigoroso come fu lo svedese Olof Palme: «Noi non siamo contro la ricchezza ma contro la povertà. La ricchezza, per noi, non è una colpa da espiare, ma un legittimo obiettivo da perseguire. Ma la ricchezza non può non essere anche una responsabilità da esercitare». Frase cara anche a Walter Veltroni, che la ripeteva spesso ma scordandosi sempre l’ultima frase, magari non per caso («Ma la ricchezza non può non essere anche una responsabilità da esercitare»).
Probabilmente Palme non aveva in mente, né poteva immaginare che livello di ricchezza – così sfacciato, pacchiano, inutile, ingiustificato – avrebbero raggiunto i moderni paperoni, ben descritti dalla puntata di Presa Diretta. Allora forse (forse, sottolineo) avrebbe pensato anche lui che questa ricchezza è tutto fuorché bella e legittima. Questa ricchezza, che è ben lontana dallo “stare bene” a cui aspiriamo, è semmai indecente e immorale. Disturba quasi i sensi, e non è questione di invidia quanto di umanità. Perché quella ricchezza non si fonda sulle capacità del singolo (il famoso e mitizzato “merito”) ma sulla contemporanea povertà di centinaia se non migliaia di propri simili.
Una cosa esclude l’altra: se sono ricco io siete poveri voi; ma se non sono ricco io, forse stiamo meglio tutti. Senza scomodare gli economisti di fama o lo spettro del comunismo, basta rifarsi alla semplice osservazione della realtà. Le risorse del pianeta sono limitate, non infinite. Le fette di torta sono contate e se qualcuno ne ha di più, qualcun altro ne ha di meno. L’attico nel quartiere chic Chelsea a Londra con la Lamborghini parcheggiata fuori si regge sulla contemporanea esistenza di una favela brasiliana o di un caseggiato popolare in una nostra periferia.
La grande balla post ideologica sta nell’accusa rivolta alla sinistra – che furbescamente ci è cascata subito, orfana della propria storia: «Voi odiate i ricchi, voi volete l’uguaglianza nella povertà». Invece no, invece si diventa di sinistra proprio perché non si sopporta il disagio sociale. L’uguaglianza è nel progresso, non nella regressione. E il progresso è collettivo, non individuale. Il progresso di domani passa per la redistribuzione di oggi, e la redistribuzione passa giocoforza dai ricchi.
Fa impressione, più che altro, che un ragionamento del genere degno della politica insegnata a un bambino venga considerato così scomodo proprio a sinistra (o fu sinistra). Toccare i ricchi è un tabù, con noi rimasti vittime della teoria – sempre smentita dai fatti, come ha spiegato in lungo e in largo Luciano Gallino – secondo la quale più i ricchi aumentano il proprio patrimonio e più si sta bene tutti perché poi ci penseranno loro stessi a distribuire. Noi in balia di schiere di neo illuminati che difendono strenuamente l’ideale della ricchezza – chissà se perché vorrebbero esserlo anche loro, e vaglielo a spiegare che quel tipo di ricchezza (sfacciata, pacchiana, inutile, ingiustificata) la felicità non te la dà, al massimo te la toglie.
Fa impressione, ancora, accorgersi come si sia smarrita completamente la base fondante del proprio essere di sinistra. Che è essenzialmente un grumo di sentimenti. Cioè la rabbia, il disgusto, la percezione di un forte senso di ingiustizia davanti alla disuguaglianza. Una rabbia mossa d’amore. Non ci si salva da soli, dicevamo una volta. Ma è l’ora del “riformismo”, e allora si salvi chi può.

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