Ve l’avevamo detto. I cacciabombardieri F35 sono bidoni di lusso
e ne stanno passando di tutti i colori. Dopo l’ennesimo incidente,
ieri il Pentagono ne ha deciso la sospensione dei voli. Da ultimo
avevano preso fuoco durante il decollo, ma prima ancora erano stati
fatti atterrare a causa di un temporale. Il software che va in tilt,
il peso eccessivo della fusoliera e i caschi milionari dei piloti
che fanno vedere doppio come dopo una sbronza sono solo alcune delle
falle di un sistema d’arma pagato a peso d’oro e che fa acqua da tutte
le parti. Una vera débacle per l’industria militare e la politica
estera Usa che ha impegnato e condizionato molti paesi alleati ad
acquistarli.
Con la incessante crescita delle spese, gli F35 sono una gallina
dalle uova d’oro per la Lockheed — che ne è il capofila della
produzione — e un secchio bucato per i governi che lo stanno
producendo ed acquistando. Negli Stati Uniti (e soprattutto negli
altri paesi partner) se ne stanno accorgendo, ma in Italia la
ministra Pinotti, troppo nella parte delle nostre gerarchie militari
e delle lobbies delle armi, fa finta di niente e, spalleggiata dal
presidente Napolitano e dal Consiglio Supremo della Difesa,
continua a nicchiare e a sperare in tempi migliori.
Dopo l’approvazione delle mozioni parlamentari del giugno del
2013 che chiedevano la sospensione di altri acquisti (decisione
violata dal governo nel settembre del 2013 e nel marzo del 2014: ora
di F35 ne abbiamo 6 in produzione) e che ha portato a qualche
riduzione di spesa nel 2014, abbiamo passato quasi un anno in una
indagine conoscitiva (terminata nel maggio scorso) che avrebbe
dovuto aiutarci a prendere la decisione definitiva: continuare
o meno nell’avventura degli F35. Ma così non è stato. Perché, finito un
temporeggiamento, ne è iniziato un altro. Ora bisogna aspettare
il Libro Bianco della Difesa, sul quale il Parlamento potrà dare
«valutazioni e suggerimenti», dice la Pinotti. La palla passa di
nuovo dal Parlamento (così espropriato) al Governo e al Consiglio
Supremo di Difesa. Quanto tempo ci vorrà, comunque? Non si sa:
potrebbero trascorrere altri 8–10 mesi.
E così la tattica dilatoria continua, mentre il Consiglio
Supremo di Difesa dice al Parlamento di non intromettersi troppo
nelle scelte della difesa e soprattutto di non permettersi di ridurre
eccessivamente le spese militari, pena la nostra operatività
nelle missioni all’estero in cui siamo impegnati. Ma andrebbe
ricordato che gli F35 sono concepiti come caccia da first strike, da primo colpo d’offesa — altro che «difesa» — e possono montare anche testate nucleari.
Dietro questa tattica temporeggiatrice c’è sullo sfondo lo
scontro tra la Pinotti, Napolitano, i vertici militari e una parte
minoritaria del Pd che quegli F35 non li vorrebbe. Con la speranza
che — passata la buriana di questi mesi e la dichiarazione del
Pentagono che per i cacc’è la «no fly zone del Pentagono» — si possa
prendere la decisione di acquistarli e avviarli gli F35, magari
distratti da qualche avvenimento più importante.
E Renzi? Dopo i roboanti annunci (non veritieri) di qualche
giornale di un paio di mesi fa sui tagli degli F35, resta muto,
silenzio assoluto. Nemmeno un tweet. Vuole combattere — così dice —
tutte le caste. L’unica che non tocca è quella delle gerarchie
militari e del business delle armi. Giustamente vuole ridurre gli
sprechi delle auto blu (per qualche milone), ma niente dice sugli
sprechi degli F35 (risparmio 14 miliardi). Evidentemente non vuole
disturbare le lobbies militari e gli Stati uniti.
Non è retropensiero: basta ricordarsi su questo le pressioni dell’ambasciata Usa.
Stavolta dovrà risponderne ancora in Parlamento. Il prossimo 29
luglio la Camera dei deputati discuterà la nuova mozione che chiede lo
stop agli F35. Un’occasione per mobilitarsi e per portare allo
scoperto le contraddizioni di un governo che non cambia il verso
delle spese militari e del riarmo aatlantico.
da Il manifesto
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