1.
Stiamo vivendo i giorni convulsi dello scandalo del Monte dei Paschi
di Siena. La cronaca è destinata a sorprenderci, temo; come sempre
avvenuto, del resto, perché ciò che il potere effettivamente fa, nelle
sue manifestazioni politiche ed economiche, è ben lungi dall’essere
nell’immaginazione dei critici o anche soltanto degli osservatori,
addirittura delle sue vittime. Nonostante questo, vale forse la pena
proporre alcune considerazioni di carattere generale, per cercare di
orientarsi nel prossimo futuro.
2.
L’operazione “Monti-Bond”, come è evidente a tutti, tranne che alla
stragrande maggioranza della “opinione pubblica” italiana che si
distingue per povertà e omertà d’analisi, ha un solo significato: si
tratta di un salvataggio operato dallo Stato (e nell’analisi prescindo
dai salvataggi operati dalla Bce). Come ogni salvataggio, esso non può
che implicare il controllo da parte dello Stato: insomma, siamo di
fronte all’oggettività di una nazionalizzazione. Naturalmente,
come in Italia è accaduto per ogni forma di salvataggio, dalla fine
dell’Ottocento ai giorni nostri, esso è presentato o invocato come
“provvisorio”, come fase di passaggio per una futura privatizzazione,
frutto di accurato e oculato “risanamento” e via discorrendo, secondo
l’usuale frasario politico corrente. Come ogni crisi bancaria che si
rispetti e che il nostro Paese ha conosciuto, essa mostra quanto
profondo e perverso sia il legame tra “politica ed affari”.
Verrebbe da dire, cavalcando certi umori comuni a tanti cittadini
consapevoli dell’importanza e del significato della Costituzione
italiana, che chi di “modernizzazione” ferisce, di “modernizzazione”
perisce, secondo i più radicati vizietti della borghesia nazionale.
3. A
cominciare dalla caduta della cosiddetta Prima Repubblica (1992),
l’Italia è pervasa, in modo politicamente e socialmente trasversale,
dall’ideologia liberista: modernizzare significa liberalizzare, in
primis (se non esclusivamente, di fatto, nonostante le tante
istituzioni anti-trust) il mercato del lavoro e dei capitali,
privatizzare, smantellare il welfare, snaturare la Costituzione. Anche
in questi giorni il ritornello affiora nelle riflessioni di numerosi
commentatori (di differente orientamento politico): si deve recidere,
una volta per sempre, il legame tra “economia e politica”, tra “affari e
politica”; la “buona politica” è quella che concepisce e mette in
pratica, con i dovuti controlli, le “regole” appropriate. Ebbene, a
tutti costoro vale la pena di ricordare che perfino per la letteratura
liberal-liberista il legame tra “politica e affari” non può essere rescisso nel caso, di fondamentale importanza, della finanza.
Basterebbe andarsi a rileggere i testi che Maffeo Pantaleoni, tra i
maggiori economisti italiani del Novecento (ricopriva la più importante
cattedra di economia, quella di Roma, negli anni 1900-1924), ha
dedicato al sistema bancario, con particolare riguardo all’Italia.
4. Nei suoi testi Pantaleoni dimostra: 1.
che un “moderno” sistema economico conosce l’espansione
quasi-monopolistica di alcune banche, che diventano il motore della
crescita industriale e dello sviluppo economico; 2.
che per quanto questo quasi-monopolista sia indipendente formalmente
dal potere politico, di fatto e naturalmente, tenderà a controllare
capillarmente il potere politico stesso; 3. che in una Paese moderno il controllo verrà esercitato in modo trasversale anche sulle opposizioni politiche e sociali; 4. che il controllo ad un certo punto si estende alla “pubblica opinione”, cioè degli organi di informazione; 5.
che il potere politico, a sua volta, diventa motore del potere
finanziario, ora con leggi volte a “proteggere” certi gruppi
economico-finanziari (anche delle opposizioni), ora attraverso
l’utilizzo della moneta (della Banca centrale, insomma), ora con tutti
gli strumenti tipici del potere (corruzione, tangenti ecc.), così come
analizzati da Machiavelli in poi. 6. che ad un certo
punto della propria evoluzione morfologica, il rapporto tra economia e
politica cerca nuove cristallizzazioni istituzionali, che Pantaleoni
individuò con la proposta dello “Stato azionista” e che in seguito,
negli anni Trenta e ad opera di altri economisti e di altri operatori e
a causa di circostanze sistemiche quali la Grande Crisi del
1929 (nessun programma ideologico “nazionalizzatore” da parte di
Mussolini, insomma, costretto a creare lo “Stato industriale” dalla forza delle cose), assumeranno altre sembianze, quelle che in Italia sono state spazzate via, almeno in gran parte, nel 1992.
5. Di questa
analisi vale la pena rimarcare, anzitutto, il nesso causale che mette
in luce: il legame, con anche i suoi perversi effetti (malaffare,
nascita di diverse e radicate “caste”, “corporazioni” ecc.), va dall’economia alla politica,
in primo luogo, e solo, in un secondo tempo, dalla politica
all’economia. Sottolineo questo aspetto, in modo didascalico (un
“espediente metodologico” e pedagogico), perché troppo spesso nel
nostro Paese si mette in luce la corruzione della politica esaltando al
contempo la “purezza” della cosiddetta “società civile”. In secondo
luogo, l’analisi dimostra che è tema per natura politico la strategia di una banca d’affari, indipendentemente
dai suoi cascami e legami politici: è nel proprio operare economico
che essa diventa attrice politica. Insomma: l’operato di una banca come
Unicredit o Intesa San Paolo o Monte Paschi è intrinsecamente un affare di Stato.
Non considerandolo tale, e sbandierando l’ideologia del libero e
liberalizzato mercato, è evidente che si favorisce un connubio
Banca-Stato tra i più opachi e perversi. Rinnovando e arricchendo, di
fatto, le analisi classiche di Pantaleoni, autori come Stiglitz hanno
sostenuto che il Governo e il Parlamento degli Stati Uniti d’America
sono preda dei più spietati appetiti speculatori, che operano secondo
una ben nota (in Italia) logica: privatizzare i profitti comuni,
scaricare sul pubblico le perdite private. Propinare la comoda finzione
che “finanza e politica” (e quindi “economia e politica”: perché nel
capitalismo non si lavora senza “i soldi degli altri” e la moneta e la
finanza non sono un mero accidente) sono nettamente scindibili, ha
consentito, in alternativa, come in Italia (e il caso Monte dei Paschi
ne è un emblema), di delegare ad un ridicolo e assurdo “capitalismo
municipale” (incardinato sulle Fondazioni bancarie) problematiche degne,
per complessità e poste in gioco, di ben altra strumentazione
istituzionale, lasciando al contempo libero sfogo al vario “managerismo
predatore”, tanto decantato come massima espressione delle benefiche
forze del mercato.
Infine, vale la pena sottolineare il problema che pone l’analisi di
Pantaleoni e che così si può riassumere: se queste sono le tendenze
dell’economia, non rimane che subire, ciclicamente, il manifestarsi
degli aspetti più negativi del rapporto tra politica ed economia?
L’Italia è destinata a rimanere “preda” dei partiti di governo di turno,
del sistema di potere economico-politico che, trasversalmente e in
forme nettamente oligarchiche, depreda il cittadino?
La risposta è semplice: naturalmente no. Già Pantaleoni aveva
indicato che il problema del rapporto tra politica ed affari poteva
essere sottratto alla patologia se e soltanto se, fosse divenuto oggetto
di una appropriata riflessione, che in seguito verrà definita “nuova
economia del benessere”, e di un appropriato meccanismo istituzionale,
per esempio rendendo trasparenti e manifesti gli interessi in gioco e
indipendenti certi poteri, soprattutto gli organi d’informazione e la
magistratura.
L’economia liberista, insomma, scopriva, letteralmente, che
l’evoluzione economica portava ad individuare il tema, e il problema,
della politica industriale.
6. Non è chi
non veda, se istruitosi prima del crollo della Prima Repubblica, che
l’argomento conduce ad un tema, quello della politica industriale, che
fu al centro del dibattito economico e politico italiano del
secondo dopoguerra, appunto fino al fatidico 1992. Fu in quel periodo
che l’attenzione si concentrò su un duplice versante: quello
prettamente economico, volto ad analizzare le scelte da compiere e i
mezzi per raggiungerle, e quello politico, volto a comprendere come
impedire le patologie, ma anche come cercare di raggiungere, nel
contrasto degli interessi, l’interesse generale e con quali strumenti.
Il problema, insomma, con il secondo dopoguerra era diventato, ben al di
là degli intendimenti analitici e politici di economisti come
Pantaleoni (che fu prima liberal-conservatore e poi nazionalista e
fascista), quello della democratizzazione e dell’economia e della
politica, nel tentativo, certo convulso e non privo di enormi
contraddizioni, di progredire, Costituzione italiana alla mano e forti
di un settore pubblico di eccezionali dimensioni, sul cammino
dell’incivilimento.
7. Dramma
italiano: mentre queste tematiche, se pur lentamente e timidamente,
stano affiorando nelle analisi di alcune parti politiche, a destra
(cfr. di G. Tremonti, Uscita di sicurezza; cfr. O. Giannino, M. Boldrin: https://www.fermareildeclino.it/articolo/monte-dei-paschi-nazionalizzare-per-liberalizzare)
come a sinistra, il più refrattario appare essere il Partito
Democratico, che, sulla carta, dovrebbe essere, invece, il più
sensibile, per numerosi motivi, a cominciare dal fatto che si richiama
ad un fantomatico “riformismo”. Qual è la risposta che, tecnicamente,
cioè alla luce delle analisi proposte dagli economisti, si può dare a
questo dato di fatto, alla laconicità in materia del PD? Tecnicamente la
risposta è questa: quanto minore è l’intenzione di proporre e
sviluppare discorsi di “economia del benessere”, cioè di politica
industriale, cioè quanto meno ci si pone l’obiettivo di impostare in
modo virtuoso il rapporto tra economia e politica, tanto più i
manovratori – attori in primis economici e poi politici – possono
lavorare nell’ombra, a loro esclusivo piacimento, realizzando quella che
Pantaleoni definiva letteralmente una mera “politica di classe”.
E nettamente di “classe”, cioè antistorica, volta a conservare privilegi resi superflui
dal progresso, appare essere tutta quella politica che ostinatamente
si rifiuterà di affrontare il nesso esistente tra crisi di questo o
quel gruppo, anzitutto finanziario, come il Monte dei Paschi di Siena, e
crisi generale, di carattere europeo e mondiale, proponendo varie
politiche di “rigore” o di “modernizzazione” liberista. Tra le altre
responsabilità, qualsivoglia politica liberista avrà quella di
resuscitare, anche nel nostro Paese, nuove forme di totalitarismo
reazionario.
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