mercoledì 15 maggio 2013

BENVENUTA, BANDIERA ROSS@! di Norberto Fragiacomo



Sabato 11 maggio è stato un giorno di fermento per quell’area eterogenea e dai confini avvolti nella nebbia che i giornalisti – per comodità, abitudine o disposizioni superiori – sogliono etichettare come “sinistra”.
Tralasciamo la sacrosanta contestazione a Berlusconi, condita – sui cartelli - da frasi spassose (“Se ti fanno un monumento saremo i tuoi piccioni!” e l’indimenticabile “Hai le orge contate”) che solo il servilismo elevato a professione poteva disapprovare, e focalizziamo la nostra attenzione su tre fatti.

Il primo è l’elezione di Guglielmo Epifani, ex Cgil, alla segreteria del Partito Democratico. Si tratta – o parrebbe trattarsi – di un mandato a termine, da “traghettatore” verso il congresso autunnale.
Sarei tentato di chiosare, col poeta, non ragioniam di lor, ma guarda e passa, visto che le penose vicende interne del PD non riguardano da tempo la sinistra, ma voglio soffermarmi brevemente su due aspetti. Innanzitutto mi ha colpito, nel pantano di commenti in rete, l’enfasi posta sulla provenienza politica di Epifani che, come tutti ormai sanno, nasce socialista (giolittiano, precisano). Il dibattito è presto diventato caciara: c’è chi non perdona, al neosegretario, di essere uscito illo tempore dal PSI (i sopravvissuti, li chiamo io), chi vede in lui l’auriga in corsa verso l’agognato PSE (gli idolatri), chi approfitta della vicenda per dirgliene quattro ai “comunisti” e sottolineare le ragioni, “riconosciute dalla Storia” della propria parte (i turatiani del secolo sbagliato). Il tutto appare abbastanza grottesco, per almeno un paio di motivi che provo ad elencare. L’incarico ad Epifani è, come detto, esplorativo, una sorta di parentesi tra un passato prossimo fallimentare ed un futuro tutto da scrivere, verosimilmente a destra (ferma restando la possibilità di un “rompete le righe!” di qui a qualche mese). In secondo luogo, la scelta di un socialista non è figlia del caso, né di un’improvvisa folgorazione del gruppo dirigente: occorreva individuare un personaggio abbastanza autorevole, fuori dai giochi e “digeribile” da tutte le fazioni in lotta – il non essere stato comunista né democristiano ha rappresentato il requisito vincente, che è valso al buon Guglielmo una segreteria armistiziale. Il chiasso della sinistra Facebook è dunque del tutto gratuito, e sottolinea solamente l’infantilismo, la tendenza settaria e l’ingenuità di un gran numero di militanti della domenica. Altra cosa – molto piùseria – è la mobilitazione dei giovani del PD, che iniziano finalmente a prendere coscienza del disinteresse dei vertici nei confronti delle istanze e dei bisogni della base: se non ad un’improbabile rifondazione del partito, la durevole protesta di Occupy potrebbe preludere ad un rimescolamento delle carte nella sinistra italiana, e al sorgere di una nuova sensibilità politica. Buona fede ed entusiasmo non mancano, e reputo difficile che finiscano per amalgamarsi con lo sclerotizzato cinismo dei “vecchi”, la cui disponibilità ad ogni compromesso è oramai sotto gli occhi di tutti. “Vedaremo”, diseva l’orbo.

Non solo PD-meno-elle, comunque: sabato scorso il retore Nichi è ridisceso in piazza, per motivare la sua truppa un po’ allo sbando. Cornice d’eccezione, protagonisti scelti con cura: la kermesse non è passata inosservata, ma – al solito – la concretezza era assente giustificata. Anzi no, perché in mezzo a un guazzabuglio di parole Vendola ha ribadito due concetti chiave: la “lealtà” verso il PD che sbaglia e il rifiuto di guardare a manca («non ci rinchiuderemo in un passato da sinistra radicale o minoritaria», ha scandito). La ripresa di quell’espressione - “sinistra radicale”, coniata dai giornalisti di regime – dice tutto del vendolismo, ormai approdato ad una “narrazione” della realtà perfettamente compatibile, nella sostanza, con i dogmi imperanti. Nessuna doverosa autocritica, solo un temporaneo mutamento di rotta imposto dalla necessità (di sopravvivere politicamente): secondo Nichi, un’alleanza di centrosinistra moderato resta l’unica opzione, le tentazioni anticapitaliste sono fuori dalla Storia. Coi mercati bisogna convivere, insomma, anche se ci relegano in soffitte fatiscenti; nell’immediato, la prospettiva è quella di una gita in Barca (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/05/la-sinistra-e-andata-in-barca-di-n.html).
Ad oggi, la coppia in crisi PD-SeL ha un punto di riferimento comune, quasi un nume tutelare (o un feticcio) che viene invocato, a intermittenza, come panacea: il PSE. Su questa sigla si sono accesi dibattiti stucchevoli, che non tengono alcun conto del reale. Cos’è mai questo benedetto PSE, delegato a salvare l’Europa, il welfare e le pensioni future? Stringi stringi, è solo un aggregato di partiti che nell’ultimo lustro, quando sono stati al governo, hanno accolto o non si sono opposti ai dettati dei finanzieri. Il PSE non è costituito da indomite pasionarie, bensì dal Pasok del “rigoroso” (coi poveri) Venizelos, dagli arrendevoli socialisti iberici, dall’SPD che non rinuncia all’austerità per gli altri ecc. Cosa aspettarsi da questa genia? Nulla, se non un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita – perché il sistema, ci ripetono, è insostenibile, “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, e comunque non esistono alternative. Il feticismo delle sigle vuote è l’estremo inganno perpetrato da elite partitiche senza nerbo né ideali ai danni di masse di iscritti che, girovagando alla cieca, cercano un rifugio dalla tempesta.

Non solo nomine e passerelle, tuttavia, hanno caratterizzato la giornata dell’11 maggio. Segnaliamo una novità stimolante: la nascita, a Bologna, di un movimento anticapitalista, che si è dato il nome provvisorio di Ross@. L’elenco dei partecipanti all’iniziativa – ignorata, come da consegne, dai media, con la parziale eccezione de Il Fatto Quotidiano – è piuttosto nutrito, anche se dietro le singole personalità non si intravvedono organizzazioni di massa (che comunque, a sinistra, non esistono più da un pezzo). USB, Rete28Aprile (l’opposizione in Cgil, per intenderci), Sinistra Critica, il No Debito, spezzoni di Rifondazione… non è tantissimo, ma è qualcosa, un qualcosa – questo mi preme sottolineare – che vede la luce non in previsione di un appuntamento elettorale, ma in vista di una mobilitazione che si vorrebbe permanente. Niente di nuovo, potrebbe commentare lo scettico, memore delle aspettative a suo tempo riposte nelle formazioni createsi all’alba dello scorso decennio e presto implose, ma qualche aspetto inedito, a parer mio, c’è. Prima di tutto, dalla lettura delle relazioni evinciamo che nel centro del mirino, stavolta, non ci sono singole malefatte del sistema (ad es., le guerre imperialistiche in Afghanistan e Irak), ma il sistema capitalista nel suo complesso, visto come un ostacolo non più aggirabile. La crisi acuta ha modificato la percezione dei leader come dei militanti, che si rendono conto molto più chiaramente rispetto a sei o sette anni fa di quanto in profondità miri l’offensiva capitalista, e della conseguente esigenza di non sprecare il poco tempo rimasto. La restaurazione non avverrà in un domani indefinito: sta avvenendo oggi, e i suoi effetti sono dannatamente tangibili. Non si tratta quindi di combattere per un’idea astratta, ma per la sopravvivenza concreta, resa impossibile – se non in termini di servitù – dal nuovo ordine che sta prendendo piede. In effetti, in larghi strati della popolazione si va diffondendo una confusa consapevolezza che sta per succedere qualche cosa “di brutto”, cui sarà difficile sottrarsi se non (forse) con una lotta che però impaurisce.
A chi scrive piace, inoltre, il linguaggio dei documenti, insolitamente franco, immediato e “di rottura” («È necessario qui ed ora un movimento sociale e politico anticapitalista e libertario, che non insegua i miraggi di piccoli aggiustamenti che in nome del meno peggio portano sempre al peggio. Noi pensiamo che sia necessario riprendere la via della liberazione della società dal dominio del mercato e del profitto, noi pensiamo che oggi si possa e si debba rendere attuale il socialismo.»), così come appare convincente, nel suo complesso, la piattaforma programmatica espressa in sette punti che, se rivelano il permanere di qualche ideologismo astratto (difficile attuare «la fine immediata di tutte le spese di guerra» in un mondo dominato dalla forza, a meno di non volersi offrire in olocausto!), individuano tuttavia le questioni centrali: il rifiuto di un’Unione economica costruita dalle lobby per la tutela degli interessi capitalistici; la garanzia di una piena cittadinanza ai lavoratori, prima condizione della quale è un’eguaglianza sostanziale; la sottrazione dei beni comuni alla logica del profitto; l’eguaglianza di genere; una politica fiscale equa e progressiva; il disarmo; una democrazia che non sia vuoto simulacro.
Penso che il progetto vada seguito e sostenuto, anche perché rappresenta l’ultima chance per chi non si rassegna a un domani privo di luce e diritti. In quest’ottica mi appare curiosa l’interminabile polemica, a sinistra, tra chi demonizza Beppe Grillo e chi è tentato di santificarlo. Grillo non è il nostro nemico, ma neppure un’ancora di salvezza, perché – al di là di certe interessate esternazioni preelettorali – il suo programma non prevede una riedificazione della società in senso socialista ed egualitario. Abbastanza insensata è anche la distinzione tra il capopopolo e il suo movimento che, privato del (duplice) faro, si scioglierebbe come neve in aprile. La nostra incapacità, verificata in anni ed anni, di dar vita ad un credibile soggetto politico social-comunista non può essere surrogata da un salvifico intervento esterno – e soprattutto è puerile pretendere che chi ha impiegato passione, risorse ed energie nella costruzione di un proprio strumento ce ne faccia dono dall’oggi al domani, solo perché centinaia di migliaia di elettori progressisti gli hanno prestato il loro voto.
Le strade del M5S e di Ross@ potrebbero anche incontrarsi, ma non è scontato, e l’approdo è diverso; in ogni modo spetta a noi tutti il compito di rendere allettante per le moltitudini una proposta che sabato 11, a Bologna, è stata per forza di cose soltanto abbozzata.

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