Sabato 11 maggio è stato un giorno di fermento per quell’area eterogenea
e dai confini avvolti nella nebbia che i giornalisti – per comodità,
abitudine o disposizioni superiori – sogliono etichettare come
“sinistra”.
Tralasciamo la sacrosanta contestazione a Berlusconi, condita – sui
cartelli - da frasi spassose (“Se ti fanno un monumento saremo i tuoi
piccioni!” e l’indimenticabile “Hai le orge contate”) che solo il
servilismo elevato a professione poteva disapprovare, e focalizziamo la
nostra attenzione su tre fatti.
Il primo è l’elezione di Guglielmo Epifani, ex Cgil, alla segreteria del
Partito Democratico. Si tratta – o parrebbe trattarsi – di un mandato a
termine, da “traghettatore” verso il congresso autunnale.
Sarei tentato di chiosare, col poeta, non ragioniam di lor, ma guarda e passa,
visto che le penose vicende interne del PD non riguardano da tempo la
sinistra, ma voglio soffermarmi brevemente su due aspetti. Innanzitutto
mi ha colpito, nel pantano di commenti in rete, l’enfasi posta sulla
provenienza politica di Epifani che, come tutti ormai sanno, nasce
socialista (giolittiano, precisano). Il dibattito è presto diventato
caciara: c’è chi non perdona, al neosegretario, di essere uscito illo tempore dal
PSI (i sopravvissuti, li chiamo io), chi vede in lui l’auriga in corsa
verso l’agognato PSE (gli idolatri), chi approfitta della vicenda per
dirgliene quattro ai “comunisti” e sottolineare le ragioni,
“riconosciute dalla Storia” della propria parte (i turatiani del secolo
sbagliato). Il tutto appare abbastanza grottesco, per almeno un paio di
motivi che provo ad elencare. L’incarico ad Epifani è, come detto,
esplorativo, una sorta di parentesi tra un passato prossimo fallimentare
ed un futuro tutto da scrivere, verosimilmente a destra (ferma restando
la possibilità di un “rompete le righe!” di qui a qualche mese). In
secondo luogo, la scelta di un socialista non è figlia del caso, né di
un’improvvisa folgorazione del gruppo dirigente: occorreva individuare
un personaggio abbastanza autorevole, fuori dai giochi e “digeribile” da
tutte le fazioni in lotta – il non essere stato comunista né
democristiano ha rappresentato il requisito vincente, che è valso al
buon Guglielmo una segreteria armistiziale. Il chiasso della sinistra Facebook è
dunque del tutto gratuito, e sottolinea solamente l’infantilismo, la
tendenza settaria e l’ingenuità di un gran numero di militanti della
domenica. Altra cosa – molto piùseria – è la mobilitazione dei
giovani del PD, che iniziano finalmente a prendere coscienza del
disinteresse dei vertici nei confronti delle istanze e dei bisogni della
base: se non ad un’improbabile rifondazione del partito, la durevole
protesta di Occupy potrebbe preludere ad un rimescolamento delle
carte nella sinistra italiana, e al sorgere di una nuova sensibilità
politica. Buona fede ed entusiasmo non mancano, e reputo difficile che
finiscano per amalgamarsi con lo sclerotizzato cinismo dei “vecchi”, la
cui disponibilità ad ogni compromesso è oramai sotto gli occhi di tutti. “Vedaremo”, diseva l’orbo.
Non solo PD-meno-elle, comunque: sabato scorso il retore Nichi è
ridisceso in piazza, per motivare la sua truppa un po’ allo sbando.
Cornice d’eccezione, protagonisti scelti con cura: la kermesse non è
passata inosservata, ma – al solito – la concretezza era assente
giustificata. Anzi no, perché in mezzo a un guazzabuglio di parole
Vendola ha ribadito due concetti chiave: la “lealtà” verso il PD che
sbaglia e il rifiuto di guardare a manca («non ci rinchiuderemo in un
passato da sinistra radicale o minoritaria», ha scandito). La
ripresa di quell’espressione - “sinistra radicale”, coniata dai
giornalisti di regime – dice tutto del vendolismo, ormai approdato ad
una “narrazione” della realtà perfettamente compatibile, nella sostanza,
con i dogmi imperanti. Nessuna doverosa autocritica, solo un temporaneo
mutamento di rotta imposto dalla necessità (di sopravvivere
politicamente): secondo Nichi, un’alleanza di centrosinistra moderato
resta l’unica opzione, le tentazioni anticapitaliste sono fuori dalla
Storia. Coi mercati bisogna convivere, insomma, anche se ci relegano in
soffitte fatiscenti; nell’immediato, la prospettiva è quella di una gita
in Barca (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/05/la-sinistra-e-andata-in-barca-di-n.html).
Ad oggi, la coppia in crisi PD-SeL ha un punto di riferimento comune,
quasi un nume tutelare (o un feticcio) che viene invocato, a
intermittenza, come panacea: il PSE. Su questa sigla si sono accesi
dibattiti stucchevoli, che non tengono alcun conto del reale. Cos’è mai
questo benedetto PSE, delegato a salvare l’Europa, il welfare e le
pensioni future? Stringi stringi, è solo un aggregato di partiti che
nell’ultimo lustro, quando sono stati al governo, hanno accolto o non si
sono opposti ai dettati dei finanzieri. Il PSE non è costituito da
indomite pasionarie, bensì dal Pasok del “rigoroso” (coi poveri)
Venizelos, dagli arrendevoli socialisti iberici, dall’SPD che non
rinuncia all’austerità per gli altri ecc. Cosa aspettarsi da questa
genia? Nulla, se non un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita
– perché il sistema, ci ripetono, è insostenibile, “abbiamo vissuto al
di sopra delle nostre possibilità”, e comunque non esistono
alternative. Il feticismo delle sigle vuote è l’estremo inganno
perpetrato da elite partitiche senza nerbo né ideali ai danni di masse
di iscritti che, girovagando alla cieca, cercano un rifugio dalla
tempesta.
Non solo nomine e passerelle, tuttavia, hanno caratterizzato la giornata
dell’11 maggio. Segnaliamo una novità stimolante: la nascita, a
Bologna, di un movimento anticapitalista, che si è dato il nome provvisorio di Ross@. L’elenco dei partecipanti all’iniziativa – ignorata, come da consegne, dai media, con la parziale eccezione de Il Fatto Quotidiano
– è piuttosto nutrito, anche se dietro le singole personalità non si
intravvedono organizzazioni di massa (che comunque, a sinistra, non
esistono più da un pezzo). USB, Rete28Aprile (l’opposizione in Cgil, per
intenderci), Sinistra Critica, il No Debito, spezzoni di Rifondazione…
non è tantissimo, ma è qualcosa, un qualcosa – questo mi preme
sottolineare – che vede la luce non in previsione di un appuntamento
elettorale, ma in vista di una mobilitazione che si vorrebbe permanente.
Niente di nuovo, potrebbe commentare lo scettico, memore delle
aspettative a suo tempo riposte nelle formazioni createsi all’alba dello
scorso decennio e presto implose, ma qualche aspetto inedito, a parer
mio, c’è. Prima di tutto, dalla lettura delle relazioni evinciamo che
nel centro del mirino, stavolta, non ci sono singole malefatte del
sistema (ad es., le guerre imperialistiche in Afghanistan e Irak), ma il
sistema capitalista nel suo complesso, visto come un ostacolo non più
aggirabile. La crisi acuta ha modificato la percezione dei leader come
dei militanti, che si rendono conto molto più chiaramente rispetto a sei
o sette anni fa di quanto in profondità miri l’offensiva capitalista, e
della conseguente esigenza di non sprecare il poco tempo rimasto. La
restaurazione non avverrà in un domani indefinito: sta avvenendo oggi,
e i suoi effetti sono dannatamente tangibili. Non si tratta quindi di
combattere per un’idea astratta, ma per la sopravvivenza concreta, resa
impossibile – se non in termini di servitù – dal nuovo ordine che sta
prendendo piede. In effetti, in larghi strati della popolazione si va
diffondendo una confusa consapevolezza che sta per succedere qualche
cosa “di brutto”, cui sarà difficile sottrarsi se non (forse) con una
lotta che però impaurisce.
A chi scrive piace, inoltre, il linguaggio dei documenti, insolitamente
franco, immediato e “di rottura” («È necessario qui ed ora un movimento
sociale e politico anticapitalista e libertario, che non insegua i
miraggi di piccoli aggiustamenti che in nome del meno peggio portano
sempre al peggio. Noi pensiamo che sia necessario riprendere la via
della liberazione della società dal dominio del mercato e del profitto,
noi pensiamo che oggi si possa e si debba rendere attuale il socialismo.»),
così come appare convincente, nel suo complesso, la piattaforma
programmatica espressa in sette punti che, se rivelano il permanere di
qualche ideologismo astratto (difficile attuare «la fine immediata di
tutte le spese di guerra» in un mondo dominato dalla forza, a meno di
non volersi offrire in olocausto!), individuano tuttavia le questioni
centrali: il rifiuto di un’Unione economica costruita dalle lobby per la
tutela degli interessi capitalistici; la garanzia di una piena
cittadinanza ai lavoratori, prima condizione della quale è
un’eguaglianza sostanziale; la sottrazione dei beni comuni alla logica
del profitto; l’eguaglianza di genere; una politica fiscale equa e
progressiva; il disarmo; una democrazia che non sia vuoto simulacro.
Penso che il progetto vada seguito e
sostenuto, anche perché rappresenta l’ultima chance per chi non si
rassegna a un domani privo di luce e diritti. In quest’ottica mi appare
curiosa l’interminabile polemica, a sinistra, tra chi demonizza Beppe
Grillo e chi è tentato di santificarlo. Grillo non è il nostro nemico,
ma neppure un’ancora di salvezza, perché – al di là di certe interessate
esternazioni preelettorali – il suo programma non prevede una
riedificazione della società in senso socialista ed egualitario.
Abbastanza insensata è anche la distinzione tra il capopopolo e il suo
movimento che, privato del (duplice) faro, si scioglierebbe come neve in
aprile. La nostra incapacità, verificata in anni ed anni, di dar vita
ad un credibile soggetto politico social-comunista non può essere
surrogata da un salvifico intervento esterno – e soprattutto è puerile
pretendere che chi ha impiegato passione, risorse ed energie nella
costruzione di un proprio strumento ce ne faccia dono dall’oggi al
domani, solo perché centinaia di migliaia di elettori progressisti gli
hanno prestato il loro voto.
Le strade del M5S e di Ross@ potrebbero anche incontrarsi, ma non è
scontato, e l’approdo è diverso; in ogni modo spetta a noi tutti il
compito di rendere allettante per le moltitudini una proposta che sabato
11, a Bologna, è stata per forza di cose soltanto abbozzata.
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