La Repubblica, intesa come quotidiano, per anni mentore (non proprio
occulto) del Pd, maitre a penser del suo gruppo dirigente, sembra
essersi accorta – o, per lo meno, sembra essersene accorto il suo
direttore - che quello consumatosi con l’alleanza fra Democratici e
Destra berlusconiana è un vero disastro politico-culturale-ideale. Non,
ovviamente, per entrambi gli schieramenti convolati a giuste nozze,
poiché il Pdl – e Berlusconi in modo speciale – ottiene un risultato
eclatante: la “costituzionalizzazione” dell’anomalia che da vent’anni
ammorba la democrazia italiana, facendo di questo Paese il brodo di
coltura di avventure reazionarie, voraci istinti predatori delle classi
dominanti, occupazione dello Stato da parte di una casta politica
autoreferenziale, corrotta e corruttrice.
E’ la sinistra – quella che come tale si spacciava, o veniva
presentata, nel discorso pubblico - ad essersi liquefatta. La verità è
che già nell’incubatrice che ha tenuto a battesimo la formazione del
Partito democratico era evaporato ogni residuo retaggio della cultura
comunista, rimossa, abiurata e persino vilipesa, dopo la caduta del muro
di Berlino e la dissoluzione dell’Unione sovietica, da parte di quel
gruppo dirigente che già nei primi anni Ottanta prevaleva contro
Berlinguer e la sinistra interna del Pci.
Quello che è successo in seguito non è stato altro che la progressiva
rinunzia ad una cultura autonoma, ad un “punto di vista” non subalterno
sulla realtà, ad una scelta di campo e di rappresentanza sociale del
lavoro. L’approdo ad un’ideologia interclassista, espressione di una
concezione dei rapporti sociali riplasmata sul liberalismo (appena
mascherata da un’estetica socialdemocratica) era cosa scontata.
L’apprendistato del governo bipartisan guidato per un anno intero da Mario Monti subisce ora una naturale metamorfosi nella sua forma matura e perviene – non certo come un incidente della Storia - al “governissimo”, cioè ad un’intesa politica organica, di giorno in giorno esaltata dai suoi attori protagonisti e da un giornalismo corrivo, dedito alla piaggeria e alla genuflessione verso il potere.
La differenza fra Pd e Pdl, già assottigliatasi per la comune fratellanza liberal-mercatista e per la condivisione delle politiche monetariste e di austerity, ora tende a scomparire.
L’apprendistato del governo bipartisan guidato per un anno intero da Mario Monti subisce ora una naturale metamorfosi nella sua forma matura e perviene – non certo come un incidente della Storia - al “governissimo”, cioè ad un’intesa politica organica, di giorno in giorno esaltata dai suoi attori protagonisti e da un giornalismo corrivo, dedito alla piaggeria e alla genuflessione verso il potere.
La differenza fra Pd e Pdl, già assottigliatasi per la comune fratellanza liberal-mercatista e per la condivisione delle politiche monetariste e di austerity, ora tende a scomparire.
Si consolida, invece, una solidarietà di ceto, mallevadore e officiante autorevole Giorgio Napolitano.
Questo esito apre sì un vulnus, ma soltanto in settori della base del Pd, storicamente abituata a rinculare nel fideismo e a bere come “oggettivamente necessarie” le scelte più discutibili del suo gruppo dirigente.
Vedrete che non si dividerà, Il Pd. Per la semplice ragione che troppa strada è stata percorsa su quel piano inclinato, spesso ruzzolando, dai suoi capataz, centrali e periferici.
Questo esito apre sì un vulnus, ma soltanto in settori della base del Pd, storicamente abituata a rinculare nel fideismo e a bere come “oggettivamente necessarie” le scelte più discutibili del suo gruppo dirigente.
Vedrete che non si dividerà, Il Pd. Per la semplice ragione che troppa strada è stata percorsa su quel piano inclinato, spesso ruzzolando, dai suoi capataz, centrali e periferici.
Potrà invece verificarsi un’emorragia, nella sua base militante e
nella sua area di consenso elettorale, verso sinistra. A patto che da
queste parti si apra un discorso serio, capace di rimettere insieme ciò
che un’inestinguibile vocazione alla diaspora ha sino ad ora teso a
separare.
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