
Benvenuti nel mondo del transfer pricing, una pratica perfettamente lecita ma che può essere sfruttata per eludere il fisco e "ottimizzare" il proprio carico fiscale. Il prezzo di trasferimento indica quello a cui le imprese multinazionali acquistano e vendono prodotti o servizi tra loro diverse filiali.
Il trucco è semplice. Un'impresa vende succhi di frutta in Italia, e a fine anno realizza un milione di euro di profitti, sui quali sarebbe tenuta a pagare le tasse. L'impresa crea però una succursale di comodo in un paradiso fiscale, e questa succursale - unicamente sulla carta - vende mille litri di succo alla casa madre in Italia a 1.000 euro al litro. Risultato: la filiale in Italia ha un milione di euro in più di costi a bilancio, che va ad azzerare i profitti e quindi le tasse da pagare. Il corrispondente milione di profitti è ora nella succursale nel paradiso fiscale, dove le tasse sono basse o nulle.
Se si vuole fare di più, basta essere un po' più scaltri e vendersi il succo a 2.000 euro al litro e non a 1.000 per fare si che la filiale in Italia risulti in perdita, potendo quindi accedere ad aiuti, sussidi e contributi messi a disposizione dallo Stato per le imprese in difficoltà. Sussidi che provengono dalle nostre tasse, da quelle dei dipendenti che hanno la trattenuta in busta paga o da quelle di artigiani e piccole imprese che a differenza delle multinazionali non possono ricorrere a simili trucchi contabili e fiscali. Le stesse piccole imprese che subiscono la concorrenza sleale dei gruppi di maggiori dimensioni, che sfruttando tali scappatoie possono abbassare i costi.
Quelli riportati sono esempi semplificati ed estremi.
Solitamente gli eccessi nei prezzi di trasferimento variano dal 5% al 25% rispetto a quelli di mercato, rendendo molto difficile scoprire tali pratiche. Ancora più complesso scoprirle quando sono relative a beni intangibili come brevetti o marchi. D'altra parte eserciti di consulenti sono a disposizione delle imprese e delle persone più facoltose, così come della criminalità organizzata, per spostare, riciclare e nascondere alle autorità giganteschi capitali.
Non è possibile fare nulla, quindi? Al contrario, gli strumenti per contrastare tali fenomeni ci sarebbero. Uno è l'obbligo di rendicontazione Paese per Paese dei dati contabili delle imprese multinazionali, che oggi devono presentare unicamente dei dati aggregati nei loro bilanci. In questo modo non è possibile sapere fatturato, costi del lavoro, profitti e tasse pagate in ogni giurisdizione in cui operano, permettendo o per lo meno facilitando abusi come quelli descritti in precedenza. Un'altra misura è la richiesta di un registro pubblico delle imprese, e in particolare dei loro reali proprietari, per contrastare l'anonimato e le scatole cinesi societarie.
Proprio su quest'ultimo punto, nei mesi scorsi il Parlamento europeo ha votato a larghissima maggioranza per chiedere l'introduzione di un registro pubblico che permetta di mostrare quali siano i reali proprietari di ogni impresa. La parola passa adesso a Commissione e Consiglio, e sarà fondamentale nei prossimi mesi la spinta della presidenza di turno dell'UE, ovvero dell'Italia.
In parallelo, accanto alla rendicontazione Paese per Paese dei bilanci e al registro pubblico, sui quali serve un accordo europeo e poi internazionale, molto si potrebbe fare anche su scala nazionale. Per esempio inserendo negli appalti pubblici delle condizioni o almeno un punteggio preferenziale per le imprese che dimostrano un comportamento fiscale corretto, ovvero che non ricorrono a filiali e succursali anonime e/o nei paradisi fiscali e che pubblicano i propri bilanci suddivisi per ogni giurisdizione in cui operano e in maniera trasparente. Già oggi diversi bandi prevedono punteggi addizionali per le imprese che hanno una certificazione sulla qualità dei propri processi produttivi o una maggiore attenzione all'ambiente. Perché non farlo anche in ambito fiscale? E' possibile che lo Stato lavori con imprese che da un lato ottengono commesse pubbliche e dall'altro evadono le tasse?
Obbligare all'utilizzo di POS e bancomat per gli acquisti sopra i 30 euro ma non prevedere sanzioni per chi non lo fa appare per lo meno inefficace, per usare un eufemismo. Non è con questi provvedimenti che si può pensare di combattere la grande evasione. Una reale trasparenza in ambito finanziario, fiscale e societario è la chiave per contrastare non solo l'evasione fiscale, ma anche mafie, corruzione, riciclaggio, economia sommersa. L'Europa, anche in ragione della crisi, sembra finalmente intenzionata a muoversi. Se davvero c'è la volontà politica di cambiare rotta, l'Italia non può permettersi di perdere una tale occasione storica durante il proprio semestre di presidenza dell'UE.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua