Dopo due anni spesi a sostenere che tutto andava bene, Berlusconi e Tremonti hanno gridato: “è l’ora dei sacrifici” per evitare di finire coma la Grecia.
Al Governo ha fatto subito fatto eco il trio sindacal-confindustriale (Bonanni, Angeletti e Marcegaglia) spiegando ai quatto venti che “siamo tutti sulla stessa barca” e che i sacrifici previsti dalla manovra correttiva di Tremonti sono l’unica possibilità di salvezza.
Anche l’opposizione parlamentare, a cominciare dal PD, pur criticando i tagli di Tremonti, non ne mette in discussione l’impianto di base.
Perché la manovra tremontiana ha un chiaro contenuto di classe, dove a fare i sacrifici sono i soliti noti: i lavoratori e le proprie famiglie.
Basta pensare alle misure principali previste dalla manovra: blocco fino al 2013 degli stipendi dei dipendenti pubblici, blocco fino al 2015 del turn over nelle pubbliche amministrazioni, licenziamento di migliaia di precari negli enti pubblici, innalzamento di almeno un anno dell’età pensionabile. Infine gli 11,6 miliardi di euro di tagli ai trasferimenti agli Enti Locali, si trasformeranno ben presto in riduzione di servizi (dai trasporti locali, alle mense scolastiche alla sanità…) e in aumenti di tariffe. Altro che “non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini”.
I numeri di questa manovra, d’altra parte non hanno nessuna attinenza con la sacrosanta lotta agli sprechi della Pubblica Amministrazione. Basti pensare che in Umbria i tagli previsti peseranno per circa 117 milioni di euro. Anche abolendo l’ente regionale e licenziando tutti i suoi dipendenti si risparmierebbero solo 67 milioni. Per arrivare ai 117 milioni sarebbero necessari tagli ai servizi offerti ai cittadini per 50 milioni.
A questa manovra bisogna poi aggiungere i taglia ai salari e i sacrifici imposti ai lavoratori dal padronato italiano. Aumentano i disoccupati, la cassa integrazione è ai massimi livelli e “lor signori” fanno propria la politica inaugurata da Marchionne a Pomigliano: elargizione di quel poco di lavoro che c’è in cambio di meno salario e meno diritti.
La vicenda FIAT è esemplare di come il padronato intende affrontare la crisi economica. Di fronte ad un bilancio del 2009 chiuso con 800 milioni di perdite, la FIAT a comunque distribuito ai propri azionisti 500 milioni di dividendi ed ha aumentato gli stipendi e i premi per il suo top management da 11 a 19 milioni di euro (lo stipendio di Marchionne è passato da 3,4 a 4,7 milioni, quello di Montezemolo da 3,3 a 5,1 milioni di euro annui).
Di fronte a ciò, nel 2009, il buon Marchionne, quello che sostiene che “siamo sulla stessa barca” ha dimezzato il premio per i lavoratori, da 1.200 a 600 euro annui, e per quest’anno ha deciso che i propri dipendenti non hanno bisogno di nessun premio ma solo di più lavoro e meno diritti.
Ma, come dice il proverbio: “chi troppo vuole,…. nulla ottiene”, ed infatti il referendum di Pomigliano e gli scioperi degli stabilimenti FIAT mostrano che la misura è colma.
A sostegno della manovra di Tremonti, Berlusconi ha affermato che negli ultimi anni “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”. Nello stesso giorno l’INPS ci ha informato che il 72% dei pensionati italiani vive con meno di 1.000 euro al mese, e che il 46% sta sotto i 500 euro.
D’altra parte, negli ultimi 20 anni i sacrifici sono stati a senso unico poiché salari, stipendi e pensioni hanno perso il 20% del loro potere d’acquisto a vantaggio del profitto e delle rendite, come certificano tutti i centri di ricerca a cominciare dall’ISTAT e dalla Banca d’Italia.
La verità è che lavoratori e pensionati hanno già dato. Negli ultimi 20 anni solo sulle loro spalle è ricaduto il peso del risanamento dei conti pubblici e dell’economia italiana.
Per tornare alla metafora che tanto piace alle nostre “classi dirigenti”, mentre lavoratori e pensionati hanno stretto la cintura e remato più forte contro il mare in tempesta della globalizzazione per fare andare avanti la nave, “lor signori” ballavano e cantavano allegramente sul ponte, soddisfatti di far pagare a noi i sacrifici e incuranti di quale rotta prendeva la nave.
E la rotta presa dal Paese è stata quella del declino economico e industriale. Si è privatizzato di tutto e di più regalando pezzi importanti dell’industria nazionale (Telecom) non a imprenditori ma a bande di faccendieri. Non c’è stata nessuna politica industriale, essendo tutti convinti che il “mercato” si autoregolasse da se. La piccola e media imprese e il mondo delle partite IVA sono state comprate a suon di condoni e tolleranza dell’evasione fiscale….
Il risultato delle politiche neoliberiste seguite negli ultimi 20 anni sono oggi evidenti: dopo anni di pesanti sacrifici sopportati dalle masse popolari, il deficit dei conti pubblici e il debito statale è tornato ai livelli di guardia degli anni ’90, e come allora si paventa, di nuovo, il crollo finanziario del Paese.
E’ ora di dire basta. Noi i sacrifici li abbiamo fatti. È ora che comincino a pagare le “classi dirigenti” politiche, economiche e finanziarie che non solo si sono arricchite negli ultimi anni, ma che sono responsabili di aver portato di nuovo il Paese sull’orlo della bancarotta.
Il fallimento dell’intera “classe dirigente” nazionale, non solo la classe politica, ma anche e soprattutto quella economica, finanziaria e cultural-mediatica, rende evidente la necessità di costruire, al più presto, un’alternativa politica e sociale. È necessario ricostruire un fronte politico e sociale per l’alternativa imperniato sul mondo del lavoro dipendente e precario.
La crisi economica e le lotte a difesa dei diritti e del posto di lavoro degli ultimi mesi hanno sedimentato una nuova soggettività del mondo del lavoro che va supportata e messa a frutto nella costruzione di una alternativa al neoliberismo.
Compito delle forze della sinistra è cogliere questa opportunità, superando le proprie divisioni e costruendo, assieme ai lavoratori, una risposta all’altezza dell’attuale crisi economica che si configura come una vera e propria crisi di sistema, una crisi costituente.
Solo ricostruendo un autonomo punto di vista politico e culturale del mondo del lavoro, solo ricostruendo una coalizione sociale e politica per l’alternativa imperniata sulla dignità del lavoro e sulla sua alterità al capitale, è possibile capovolgere i rapporti di forza sociali e politici in modo da permettere quel “big bang” del centrosinistra che molti auspicano come unica via per sconfiggere quel blocco neoliberista e populista rappresentato dal berlusconismo.
Ma le perorazioni giornalistiche e televisive rischiano di restare dei semplici auspici. Senza affrontare la materialità dei rapporti di classe in Italia, senza la costruzione di un autonomo punto di vista del mondo del lavoro, nessun “big bang” sarà possibile.
La necessità di un tale processo è ormai evidente a tutti. Le forze soggettive, culturali e politiche (seppure malconce) ci sono. Superiamo la sindrome della sconfitta. Usciamo dalla nostra afasia. Superiamo le nostre divisioni, cerchiamo di valorizzare le molte cose che ci uniscono. È tempo di costruire una opposizione sociale e politica a Berlusconi e al neoliberismo.
Un tempo si cantava: “finché la barca và lasciala andare….”. La barca si è fermata e “lor signori” non sanno come ripartire. Tocca a noi.
Al Governo ha fatto subito fatto eco il trio sindacal-confindustriale (Bonanni, Angeletti e Marcegaglia) spiegando ai quatto venti che “siamo tutti sulla stessa barca” e che i sacrifici previsti dalla manovra correttiva di Tremonti sono l’unica possibilità di salvezza.
Anche l’opposizione parlamentare, a cominciare dal PD, pur criticando i tagli di Tremonti, non ne mette in discussione l’impianto di base.
Perché la manovra tremontiana ha un chiaro contenuto di classe, dove a fare i sacrifici sono i soliti noti: i lavoratori e le proprie famiglie.
Basta pensare alle misure principali previste dalla manovra: blocco fino al 2013 degli stipendi dei dipendenti pubblici, blocco fino al 2015 del turn over nelle pubbliche amministrazioni, licenziamento di migliaia di precari negli enti pubblici, innalzamento di almeno un anno dell’età pensionabile. Infine gli 11,6 miliardi di euro di tagli ai trasferimenti agli Enti Locali, si trasformeranno ben presto in riduzione di servizi (dai trasporti locali, alle mense scolastiche alla sanità…) e in aumenti di tariffe. Altro che “non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini”.
I numeri di questa manovra, d’altra parte non hanno nessuna attinenza con la sacrosanta lotta agli sprechi della Pubblica Amministrazione. Basti pensare che in Umbria i tagli previsti peseranno per circa 117 milioni di euro. Anche abolendo l’ente regionale e licenziando tutti i suoi dipendenti si risparmierebbero solo 67 milioni. Per arrivare ai 117 milioni sarebbero necessari tagli ai servizi offerti ai cittadini per 50 milioni.
A questa manovra bisogna poi aggiungere i taglia ai salari e i sacrifici imposti ai lavoratori dal padronato italiano. Aumentano i disoccupati, la cassa integrazione è ai massimi livelli e “lor signori” fanno propria la politica inaugurata da Marchionne a Pomigliano: elargizione di quel poco di lavoro che c’è in cambio di meno salario e meno diritti.
La vicenda FIAT è esemplare di come il padronato intende affrontare la crisi economica. Di fronte ad un bilancio del 2009 chiuso con 800 milioni di perdite, la FIAT a comunque distribuito ai propri azionisti 500 milioni di dividendi ed ha aumentato gli stipendi e i premi per il suo top management da 11 a 19 milioni di euro (lo stipendio di Marchionne è passato da 3,4 a 4,7 milioni, quello di Montezemolo da 3,3 a 5,1 milioni di euro annui).
Di fronte a ciò, nel 2009, il buon Marchionne, quello che sostiene che “siamo sulla stessa barca” ha dimezzato il premio per i lavoratori, da 1.200 a 600 euro annui, e per quest’anno ha deciso che i propri dipendenti non hanno bisogno di nessun premio ma solo di più lavoro e meno diritti.
Ma, come dice il proverbio: “chi troppo vuole,…. nulla ottiene”, ed infatti il referendum di Pomigliano e gli scioperi degli stabilimenti FIAT mostrano che la misura è colma.
A sostegno della manovra di Tremonti, Berlusconi ha affermato che negli ultimi anni “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”. Nello stesso giorno l’INPS ci ha informato che il 72% dei pensionati italiani vive con meno di 1.000 euro al mese, e che il 46% sta sotto i 500 euro.
D’altra parte, negli ultimi 20 anni i sacrifici sono stati a senso unico poiché salari, stipendi e pensioni hanno perso il 20% del loro potere d’acquisto a vantaggio del profitto e delle rendite, come certificano tutti i centri di ricerca a cominciare dall’ISTAT e dalla Banca d’Italia.
La verità è che lavoratori e pensionati hanno già dato. Negli ultimi 20 anni solo sulle loro spalle è ricaduto il peso del risanamento dei conti pubblici e dell’economia italiana.
Per tornare alla metafora che tanto piace alle nostre “classi dirigenti”, mentre lavoratori e pensionati hanno stretto la cintura e remato più forte contro il mare in tempesta della globalizzazione per fare andare avanti la nave, “lor signori” ballavano e cantavano allegramente sul ponte, soddisfatti di far pagare a noi i sacrifici e incuranti di quale rotta prendeva la nave.
E la rotta presa dal Paese è stata quella del declino economico e industriale. Si è privatizzato di tutto e di più regalando pezzi importanti dell’industria nazionale (Telecom) non a imprenditori ma a bande di faccendieri. Non c’è stata nessuna politica industriale, essendo tutti convinti che il “mercato” si autoregolasse da se. La piccola e media imprese e il mondo delle partite IVA sono state comprate a suon di condoni e tolleranza dell’evasione fiscale….
Il risultato delle politiche neoliberiste seguite negli ultimi 20 anni sono oggi evidenti: dopo anni di pesanti sacrifici sopportati dalle masse popolari, il deficit dei conti pubblici e il debito statale è tornato ai livelli di guardia degli anni ’90, e come allora si paventa, di nuovo, il crollo finanziario del Paese.
E’ ora di dire basta. Noi i sacrifici li abbiamo fatti. È ora che comincino a pagare le “classi dirigenti” politiche, economiche e finanziarie che non solo si sono arricchite negli ultimi anni, ma che sono responsabili di aver portato di nuovo il Paese sull’orlo della bancarotta.
Il fallimento dell’intera “classe dirigente” nazionale, non solo la classe politica, ma anche e soprattutto quella economica, finanziaria e cultural-mediatica, rende evidente la necessità di costruire, al più presto, un’alternativa politica e sociale. È necessario ricostruire un fronte politico e sociale per l’alternativa imperniato sul mondo del lavoro dipendente e precario.
La crisi economica e le lotte a difesa dei diritti e del posto di lavoro degli ultimi mesi hanno sedimentato una nuova soggettività del mondo del lavoro che va supportata e messa a frutto nella costruzione di una alternativa al neoliberismo.
Compito delle forze della sinistra è cogliere questa opportunità, superando le proprie divisioni e costruendo, assieme ai lavoratori, una risposta all’altezza dell’attuale crisi economica che si configura come una vera e propria crisi di sistema, una crisi costituente.
Solo ricostruendo un autonomo punto di vista politico e culturale del mondo del lavoro, solo ricostruendo una coalizione sociale e politica per l’alternativa imperniata sulla dignità del lavoro e sulla sua alterità al capitale, è possibile capovolgere i rapporti di forza sociali e politici in modo da permettere quel “big bang” del centrosinistra che molti auspicano come unica via per sconfiggere quel blocco neoliberista e populista rappresentato dal berlusconismo.
Ma le perorazioni giornalistiche e televisive rischiano di restare dei semplici auspici. Senza affrontare la materialità dei rapporti di classe in Italia, senza la costruzione di un autonomo punto di vista del mondo del lavoro, nessun “big bang” sarà possibile.
La necessità di un tale processo è ormai evidente a tutti. Le forze soggettive, culturali e politiche (seppure malconce) ci sono. Superiamo la sindrome della sconfitta. Usciamo dalla nostra afasia. Superiamo le nostre divisioni, cerchiamo di valorizzare le molte cose che ci uniscono. È tempo di costruire una opposizione sociale e politica a Berlusconi e al neoliberismo.
Un tempo si cantava: “finché la barca và lasciala andare….”. La barca si è fermata e “lor signori” non sanno come ripartire. Tocca a noi.
PECS
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