Gianfranco Rotondi, il ministro con la testa a kiwi e la delega all’Attuazione del programma (praticamente un disoccupato), l’aveva detto dopo le dimissioni di Scajola: “Attenti, si crea un pericoloso precedente”. Se passa l’idea che un ministro coinvolto in uno scandalo, tipo che non sa chi gli ha pagato la casa, si deve dimettere per così poco, chissà dove si andrà a finire. Non l’hanno ascoltato. Così, nell’ordine, anzi a trenino, dietro Scajola han preso la porta anche Brancher (che era appena entrato) e Cosentino (che, per ovvi motivi, non voleva uscire). Per i prossimi, Verdini e Caliendo, è questione di giorni.La decimazione del governo B3 per lo scandalo P3 ricorda il giallo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani. Ma soprattutto il primo governo Amato, che tra febbraio e marzo del 1993 perse per strada cinque ministri inquisiti (Martelli, Fontana, Goria, Reviglio, De Lorenzo), più un sesto (Ripa di Meana) sdegnato per una simile compagnia. Dopodiché Amato, rimasto solo, chiuse porte e finestre, spense le luci e salì al Quirinale per dare le dimissioni: il suo governo si era trasferito a Palazzo di Giustizia. In quei mesi B, con la collaborazione di Dell’Utri e qualche visitina di Mangano, stava creando Forza Italia per prendere il posto di quella che lui stesso definì a reti unificate “la vecchia classe politica travolta dai fatti e superata dai tempi” dopo l’“autoaffondamento dei vecchi governanti schiacciati dal peso del debito pubblico e del sistema del finanziamento illegale dei partiti”. Quindi, con le sue tv e i suoi giornali, soffiava sul fuoco di quello che oggi dipinge, sgomento, come “un clima giustizialista e giacobino”. Perché oggi tocca a lui. Quando ammonisce i giudici a lasciar perdere Flavio Carboni perché “non si arresta un uomo di 78 anni”, sta pensando a se stesso, che ne ha 74. Silvio e Flavio sono vecchi compari, anzi confratelli piduisti, han fatto affari insieme, sono alti un metro e una spanna, portano tacchi, parrucchino e bypass. Due gemelli: uno dentro, l’altro ancora a piede libero. Flavio, parlando astutamente in codice di lui, lo chiamava “Cesare” con un cifrario a metà fra Shakespeare e Totò & Peppino: “Il dossier è arrivato nella stanza di Cesare, i tribuni gli hanno già dato la notizia”. Il guaio è che Cesare, più che il condottiero della campagna di Gallia, ricorda il Caligola che fece senatore il suo cavallo (ora però siamo passati ai somari) e il Romolo Augustolo che accompagnò l’Impero alla decomposizione definitiva.La banda del buco si sta disunendo, sente i rintocchi del Dies Irae e si abbandona a un arraffa-arraffa scomposto, disperato, da ultime ore di Pompei. Come quelle bande di topi d’appartamento che, sentendo suonare l’allarme della casa e in lontananza le sirene della polizia, si riempiono le tasche con le ultime posate d’argento e gli ultimi gioielli alla rinfusa prima della fuga. Lui, Cesare Silviolo, dà una potatina qua e là per tagliare le mani più prensili e salvare almeno l’argenteria di famiglia, lui stesso stupefatto dalla rapidità di apprendimento degli allievi che stanno superando il maestro. Intanto, sul Corriere, Massimo Franco spaccia questa guerra per bande per un’opera di moralizzazione e si complimenta molto con B. perché “ha fatto la scelta giusta” scaricando i rapinatori più smodati con una “decisione saggia” allontanando un’“immagine di impunità” e il sospetto che “nella penombra del grande albero berlusconiano si fossero annidati segmenti di società che usano il governo come guscio dentro il quale ingrassare i loro comitati d’affari”. Ecco, questo no, questo mai: sospettare che qualcuno usi il governo B. per fare affari e conquistare impunità sarebbe inammissibile: fortuna che B, notoriamente alieno dagli affari e dall’impunità, sta “saggiamente” provvedendo a fare pulizia. C’è da augurarsi che il Pompiere della Sera non scopra mai che B. ha più processi di Scajola, Brancher, Cosentino e Verdini messi insieme: altrimenti potrebbe persino sfuggirgli un “ohibò”.
Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano
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