«La politica è entrata in crisi quando si è destrutturata, con una operazione consapevole da destra e inconsapevole da sinistra, la sua forma organizzata. Storicamente, questa forma era il partito». Per cui «l'alternativa non è: partito sì o partito no, l'alternativa è: politica organizzata o antipolitica». Bastano queste poche parole di Mario Tronti - che introducono il numero di Democrazia e diritto su "Il partito politico oggi", che Liberazione ha rilanciato alla nostra attenzione con l'inserto di domenica scorsa - a riflettere il senso di un problema fondamentale, qui e ora, per le comuniste e per i comunisti, per la sinistra, per la stessa democrazia italiana.
L'individualismo e il mito della società civile, che hanno vinto nella società italiana a partire dagli anni '90, hanno contribuito in modo decisivo, per Tronti, a questa eclissi della forma-partito. E' chiaro che parliamo qui in primo luogo del partito delle classi subalterne. Un'esperienza decisiva, questa, nel Vecchio Continente, tanto che - aggiunge Tronti - la stessa «occupazione politica dell'Europa da parte degli Stati Uniti d'America, si è dovuta sempre fermare davanti alla frontiera invalicabile della forma-partito». Ora però sembra aver vinto proprio quel "modello americano" del fare politica in cui l'egemonia sembra nascere - potremmo dire aggiornando Gramsci - direttamente dalla fabbrica dei sogni, innanzitutto dalla televisione. Bisogna riconoscere a Democrazia e diritto il merito di aver preso il toro per le corna, di aver sollevato un problema che è scomodo (ma vitale) in primo luogo per la sinistra. Il problema sollevato in poche parole è il seguente: la liquidazione della forma-partito che era propria della tradizione socialista e comunista - punto centrale del "caso italiano" degli ultimi lustri (in Europa occidentale non vi è nulla di simile, come la rivista documenta con alcuni articoli di grande interesse) - è la breccia principale attraverso cui è passato il forte ridimensionamento della sinistra nel nostro paese. L'atto di accusa ha volti e nomi che la rivista non nasconde: Occhetto-Veltroni da una parte, Bertinotti-Vendola dall'altra.
In occasione della recente ricorrenza dei novant'anni dalla nascita del Pci ho avuto modo di affermare che anche per quel che concerne la forma-partito c'è da chiedersi se non vi sia da imparare dalla storia del Partito comunista italiano. Mi riferivo in particolare alla necessità di tornare a forme di direzione collettiva in controtendenza rispetto al leaderismo scriteriato della cosiddetta "seconda repubblica", dove non vi sono più leader di partiti ma partiti del leader; all'opportunità che i partiti abbiano sezioni e non solo comitati elettorali, e che non trasformino immediatamente i propri quadri migliori, a ogni livello, in eletti e amministratori (per cui "la politica" diviene un "lavoro" che vede nel momento elettivo-istituzionale l'unica remunerazione adeguata, in termini economici e di prestigio); al bisogno di rilanciare la partecipazione reale, che ha nella discussione collettiva di base un momento insopprimibile di elaborazione e crescita delle soggettività, contro il mito delle primarie - meccanismo che rafforza i processi di delega e passivizzazione, limitando la mobilitazione a un breve momento di scelta-identificazione con un "capo" e una leadership.
Mi sembra che il fascicolo di Democrazia e diritto porti molti argomenti a questa impostazione, anche grazie agli articoli ben documentati e stimolanti di studiosi come Michele Prospero, Alfio Mastropaolo, Oreste Massari, Domenico Fruncillo, Onofrio Romano e altri. Non mi nascondo, tuttavia, l'obiezione che potrebbe essere avanzata a queste tesi da tante compagne e tanti compagni, in particolare da chi milita in Sel, con cui tanta storia e tanta parte di concezione del mondo pure mi accomuna e con cui ritengo necessario mantenere aperto il confronto.
Ciò che essi potrebbero dirmi o dirci è questo: avete nostalgia di una forma della politica sicuramente per molti versi positiva e da rimpiangere, ma ormai improponibile, per il mutamento della società, il ruolo che vi hanno i media, quella "americanizzazione" stessa della vita politica che è il mare in cui, volenti o nolenti, dobbiamo imparare a nuotare. Non è una obiezione insensata. Credo che la stessa "scommessa" iniziale di Vendola fosse giocata a partire da questa convinzione. Vorrei però invitare a ponderare come, al di là del tempo corto su cui spesso i politici valutano il loro operare, questo accettare il tavolo dell'avversario contenga un vero e proprio assorbimento di un modo di intendere la politica che in sé ci allontana radicalmente dai nostri ideali, dalla nostra identità, dai nostri obiettivi di fondo. Se devo dirlo in due parole: dall'obiettivo dell'autogoverno, della costruzione faticosa ma fondamentale di una democrazia reale, in cui la delega a una élite o l'affidarsi a un capo più o meno carismatico siano gradatamente ridotti, non alimentati. E' un progetto di lungo periodo, certo. Ma andare in direzione contraria (sia pure con la riserva che ciò avviene solo "momentaneamente") non ci aiuta, come ormai abbiamo imparato dalla storia.
La personalità carismatica (prendiamo questa accezione in senso lato e involgarito rispetto al modello weberiano), inevitabilmente accompagnata da tentazioni populistiche in senso deteriore, sembra oggi essere l'unico modo tramite il quale sia possibile fare politica efficacemente. Non è però vero. Non è un destino ineluttabile. Altre strade sono possibili, come ci dicono alcuni esempi in Europa e persino il caso della Lega in Italia. Certo, la partecipazione politica e il partito come lo abbiamo conosciuto nel '900 non possono essere riproposti tali e quali, vanno rinnovati e aggiornati. Da questo punto di vista anche la rete, se usata non solo per lanciare parole d'ordine e messaggi dall'alto, può essere una opportunità da cogliere proficuamente. Ma soprattutto i partiti devono riprendere a essere ben riconoscibili, avere canali decisionali non sovrapponibili con l'azione dei "vecchi media", prevedere differenzazioni funzionali tra iscritti e votanti, celebrare congressi veri e non kermesse che servano più che altro come passerella per il leader maximo. Insomma, essere molto meno liquidi per essere davvero più democratici. Perché la politica riprenda a marciare in direzione diversa rispetto alla deriva odierna è però necessario un segnale forte, che sia anche l'inizio di una "battaglia culturale" su cui concentrare le forze. L'introduzione del maggioritario, il bipolarismo e l'aberrazione del premierato di fatto sono tutti elementi che hanno potentemente concorso alla distruzione del partito politico, alla catastrofe di cui ha fatto le spese la politica organizzata e di massa. Mi sembra che oggi solo un ripensamento della legge elettorale, una larga alleanza politica e una campagna di sensibilizzazione di massa su questo tema possano aprire un processo nuovo.
Guido Liguori, Liberazione
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