Poveri liberisti! Non fanno in tempo a pubblicare un articolo – ogni testo più lungo sarebbe a rischio ridicolo – per annunciare che «il peggio è alle nostre spalle» che la crisi torna a ruggire da un lato inatteso.
Un anno fa si temeva la deflazione (prezzi fermi o in calo a causa del consumi congelati dal blocco salariale nei paesi sviluppati), oggi torna lo spettro dell'inflazione sotto la spinta del rapido aumento del prezzo del petrolio. Un'inversione di scenario talmente rapida da costringere a dubitare (diciamo così) degli strumenti usati dagli analisti più conosciuti.
Proviamo a capire con gli strumenti nostri.
Il prezzo del petrolio – stimolato dalle rivolte arabe – è schizzato a 114 dollari al barile per il tipo Brent (il Wti statunitense è ormai un «prodotto locale», che non viene più esportato e quindi non è più «il prezzo di riferimento»). Tra i paesi interessati solo Libia e Algeria hanno una quota percettibile della produzione globale di greggio: il 2% a testa. E solo il paese di Gheddafi ha seri problemi di estrazione a causa degli scontri. E' dunque evidente che il prezzo alto in questo momento incorpora un «premio di rischio» che sconta le incertezze tipiche di un mercato anelastico (l'estrazione non può variare ad libitum da un giorno all'altro; e solo l'Arabia Saudita possiede una «capacità estrattiva di riserva» ampia quanto la produzione libica attualmente mancante). Si è soliti chiamare speculazione questo «premio»; ma va ricordato sempre che si specula sulle merci rare, non su quelle abbondanti.
A ben guardare i dati, però, si scopre che il petrolio non è affatto solo: in un anno il mais è più che raddoppiato, il grano è salito del 64%, il cotone del 194%, il rame del 45%. Le 32 materie prime principali si sono apprezzate nello stesso periodo di un 30% medio. Ma l'energia – insieme alla forza-lavoro umana – è l'unica merce il cui prezzo entra sicuramente nella formazione del prezzo di tutte le altre. Quindi ogni sua impennata si traduce immediatamente in maggiore inflazione e perciò in rallentamento dei consumi; in ultima analisi anche della «crescita». Le stime correnti più usate riferiscono di un rallentamento pari allo 0,2% per ogni +20% nel prezzo del greggio. Sembra poco, ma se la crescita era già anemica le conseguenze possono essere abbastanza serie (visto che l'aumento del greggio in un anno è stato superiore al 30% e non si vedono limiti se la rivolta araba dovesse contagiare anche i sauditi).
La deflazione è stata combattuta da tutte le banche centrali con gigantesche «iniezioni di liquidità» e portando i tassi di interesse vicinissimi allo zero. In pratica hanno «stampato moneta», magari per riacquistare titoli di stato in difficoltà o finanziare istituti bancari sull'orlo della bancarotta. Tanta generosità si è tradotta in un anno e mezzo di rialzi borsistici, mentre l'economia reale ha continuato ad arrancare. Di fatto, la «liquidità» in eccesso è servita a ricostruire il circo speculativo che la crisi del 2008 aveva messo in ginocchio. Ma un eccesso di liquidità deve necessariamente trasformarsi – prima o poi – in inflazione più alta.
E' quello che sta avvenendo, ma le banche centrali – a partire dalla Federal Reserve – si dicono ancora «tranquille». L'indice inflattivo che loro tengono d'occhio è infatti quello «core», depurato dalle «componenti volatili» come l'energia o i prezzi alimentari. In pratica, si preoccupano di un solo dato: che l'inflazione più alta non provochi la richiesta generalizzata di aumenti salariali.
Com'è noto, in un mercato del lavoro globalizzato – dove un'azienda a caso può dire ai suoi lavoratori «o accettate le mie condizioni, oppure sposto la produzione altrove» - i salari crescono soltanto nei paesi «emergenti», ovvero là dove erano a livelli infinitesimi e la crescita è più impetuosa. Ma nei paesi «maturi» il potere d'acquisto dei salari è stato congelato da vent'anni proprio grazie alla diffusione di merci a basso costo prodotte da aziende occidentali impiantate nei paesi in emersione. Un corto circuito che è stato capitalisticamente «virtuoso» fino all'inizio di questa crisi sistemica, ormai avviata a celebrare il suo quarto anno di vita.
Ora il meccanismo produce un'inversione di rotta: i consumi bloccati nei «paesi ricchi» si traducono in stagnazione, mentre l'aumento delle materie prime (provocato dalla crescente domanda globale) stimola l'inflazione. Si chiama stagflazione, e non è la prima volta che si presenta. Negli anni '70 fu combattuta e vinta – dal capitale – sconfiggendo il movimento operaio in Occidente, con la politica degli alti tassi di interesse, la corsa agli armamenti hi-tech e – di conseguenza – con la bancarotta del cosiddetto «socialismo reale». In definitiva, con la globalizzazione di questo modo di produzione.
Ma ora? Quali sconvolgimenti epocali si possono avviare al solo scopo di mantenere questo andazzo demente?
Un anno fa si temeva la deflazione (prezzi fermi o in calo a causa del consumi congelati dal blocco salariale nei paesi sviluppati), oggi torna lo spettro dell'inflazione sotto la spinta del rapido aumento del prezzo del petrolio. Un'inversione di scenario talmente rapida da costringere a dubitare (diciamo così) degli strumenti usati dagli analisti più conosciuti.
Proviamo a capire con gli strumenti nostri.
Il prezzo del petrolio – stimolato dalle rivolte arabe – è schizzato a 114 dollari al barile per il tipo Brent (il Wti statunitense è ormai un «prodotto locale», che non viene più esportato e quindi non è più «il prezzo di riferimento»). Tra i paesi interessati solo Libia e Algeria hanno una quota percettibile della produzione globale di greggio: il 2% a testa. E solo il paese di Gheddafi ha seri problemi di estrazione a causa degli scontri. E' dunque evidente che il prezzo alto in questo momento incorpora un «premio di rischio» che sconta le incertezze tipiche di un mercato anelastico (l'estrazione non può variare ad libitum da un giorno all'altro; e solo l'Arabia Saudita possiede una «capacità estrattiva di riserva» ampia quanto la produzione libica attualmente mancante). Si è soliti chiamare speculazione questo «premio»; ma va ricordato sempre che si specula sulle merci rare, non su quelle abbondanti.
A ben guardare i dati, però, si scopre che il petrolio non è affatto solo: in un anno il mais è più che raddoppiato, il grano è salito del 64%, il cotone del 194%, il rame del 45%. Le 32 materie prime principali si sono apprezzate nello stesso periodo di un 30% medio. Ma l'energia – insieme alla forza-lavoro umana – è l'unica merce il cui prezzo entra sicuramente nella formazione del prezzo di tutte le altre. Quindi ogni sua impennata si traduce immediatamente in maggiore inflazione e perciò in rallentamento dei consumi; in ultima analisi anche della «crescita». Le stime correnti più usate riferiscono di un rallentamento pari allo 0,2% per ogni +20% nel prezzo del greggio. Sembra poco, ma se la crescita era già anemica le conseguenze possono essere abbastanza serie (visto che l'aumento del greggio in un anno è stato superiore al 30% e non si vedono limiti se la rivolta araba dovesse contagiare anche i sauditi).
La deflazione è stata combattuta da tutte le banche centrali con gigantesche «iniezioni di liquidità» e portando i tassi di interesse vicinissimi allo zero. In pratica hanno «stampato moneta», magari per riacquistare titoli di stato in difficoltà o finanziare istituti bancari sull'orlo della bancarotta. Tanta generosità si è tradotta in un anno e mezzo di rialzi borsistici, mentre l'economia reale ha continuato ad arrancare. Di fatto, la «liquidità» in eccesso è servita a ricostruire il circo speculativo che la crisi del 2008 aveva messo in ginocchio. Ma un eccesso di liquidità deve necessariamente trasformarsi – prima o poi – in inflazione più alta.
E' quello che sta avvenendo, ma le banche centrali – a partire dalla Federal Reserve – si dicono ancora «tranquille». L'indice inflattivo che loro tengono d'occhio è infatti quello «core», depurato dalle «componenti volatili» come l'energia o i prezzi alimentari. In pratica, si preoccupano di un solo dato: che l'inflazione più alta non provochi la richiesta generalizzata di aumenti salariali.
Com'è noto, in un mercato del lavoro globalizzato – dove un'azienda a caso può dire ai suoi lavoratori «o accettate le mie condizioni, oppure sposto la produzione altrove» - i salari crescono soltanto nei paesi «emergenti», ovvero là dove erano a livelli infinitesimi e la crescita è più impetuosa. Ma nei paesi «maturi» il potere d'acquisto dei salari è stato congelato da vent'anni proprio grazie alla diffusione di merci a basso costo prodotte da aziende occidentali impiantate nei paesi in emersione. Un corto circuito che è stato capitalisticamente «virtuoso» fino all'inizio di questa crisi sistemica, ormai avviata a celebrare il suo quarto anno di vita.
Ora il meccanismo produce un'inversione di rotta: i consumi bloccati nei «paesi ricchi» si traducono in stagnazione, mentre l'aumento delle materie prime (provocato dalla crescente domanda globale) stimola l'inflazione. Si chiama stagflazione, e non è la prima volta che si presenta. Negli anni '70 fu combattuta e vinta – dal capitale – sconfiggendo il movimento operaio in Occidente, con la politica degli alti tassi di interesse, la corsa agli armamenti hi-tech e – di conseguenza – con la bancarotta del cosiddetto «socialismo reale». In definitiva, con la globalizzazione di questo modo di produzione.
Ma ora? Quali sconvolgimenti epocali si possono avviare al solo scopo di mantenere questo andazzo demente?
Redazione di Contropiano
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua