1-Se nell’attuale contesto c’è una cosa che Rifondazione non dovrebbe fare è procedere come se niente fosse successo, lanciando appelli dal proprio pulpito (impietosamente ridimensionato) nell’attesa messianica che qualcuno risponda e qualcosa di buono accada. Al contrario, occorrerebbe una scossa salutare, da dare subito al partito e con effetti fuori di esso: bisognerebbe urgentemente mettere in cima all’agenda una vera rigenerazione del(i) gruppo(i) dirigente(i), ponendosi come parte di una comune stringente riflessione della sinistra di alternativa. Di tutta la sinistra di alternativa, quella partitica come quella referendaria e associativa. Ciò è necessario – in una fase politica segnata a sinistra da pesanti sconfitte – per la preminenza che ha assunto il tema dell’efficacia soggettiva, cioè della ricerca di un assetto che ci ponga in grado di intervenire proficuamente nell’oggettività. In simili ragionamenti sembra riaffacciarsi la questione della “massa critica” di bertinottiana memoria; ma, come si dirà tra poco, a rendere precaria una tale comparazione c’è di mezzo il tema serissimo dell’identità.
2-Dobbiamo
tener conto del fatto che a sinistra e, più in generale, dal Pd in qua, ci si
muove entro un panorama terremotato, un quadro pericolosamente esposto ad
ulteriori pesanti smottamenti. La vicenda dell’elezione del capo dello Stato e
della formazione del governo Letta/Alfano ha violentemente investito gli
equilibri interni al Pd, facendo emergere contraddizioni peraltro
consustanziali al suo atto di nascita. Non ho mai pensato che ciò potesse
automaticamente determinare un’implosione di questo partito, il quale è tenuto
insieme – al di là della complicata convivenza di diverse culture politiche –
da consistenti interessi materiali e impellenti rapporti di potere, nazionali e
sovranazionali, sintetizzati al massimo livello nella figura del rieletto Presidente
della Repubblica. Ma certo i suddetti delicatissimi passaggi hanno posto e
continueranno a porre a dura prova la capacità del Pd di ritrovare nel Paese
una composizione sociale e una sintesi politica possibili. In ogni caso, è più
che probabile che anche una eventuale sintesi piegherà vieppiù verso destra, in
direzione di un assetto ancor più moderato. Dal canto suo Sel, sinistra interna
del centro-sinistra e fin qui alleata coerente di Bersani, punta a raccogliere
la crisi di consenso del Pd, sciogliendo il vincolo di alleanza con
quest’ultimo e collocandosi all’opposizione del governo: un’opposizione
“costruttiva” ha subito dichiarato Gennaro Migliore, precisando che “il
centro-sinistra è morto nella relazione tra i partiti, ma è vivo e vegeto nella
società”. Come dire: la contingenza ci obbliga a un atto di discontinuità, ma
il progetto politico non muta. Per questo, la stessa iniziativa dell’ 11 maggio
promossa da Sel sembra esser concepita confermando il terreno operativo del
centro-sinistra ed escludendo ogni apertura a sinistra. Si tratta purtroppo di
un miope attendismo utilitaristico che, se confermato, rinuncerebbe a cogliere
l’occasione per un’estesa e netta opposizione al “governo del Presidente”,
nonché per la costituzione di una proficua unità d’azione a sinistra. Nel
frattempo, Berlusconi è tornato prepotentemente in sella, Grillo aspetta sulla
riva del fiume (da posizioni populiste e interclassiste) il cadavere della
maggioranza di governo e, come dimostrano le elezioni friulane, l’astensione
raggiunge dimensioni fin qui inimmaginabili. Dire emergenza è dire poco.
3-Ma
perché oggi, nonostante le evidenti potenzialità, appare così difficile il
richiamo all’unità della sinistra di alternativa? Per quale recondito motivo
qui in Italia non si riesce a fare quello che in altri Paesi europei si è
fatto, cioè dare un’espressione politica unitaria alle forze presenti alla
sinistra del centro-sinistra? Per rispondere, credo innanzitutto che non si
debba indulgere ad una visione immaginaria di tale ambito. Il campo nostrano
della sinistra di alternativa è l’esatto contrario del prodotto di una sintesi,
di un processo di superamento in avanti di parzialità pregresse: all’opposto, è
l’esito di un processo di disgregazione. A ben vedere, tutti i pezzi (partitici)
di quella che chiamiamo “sinistra d’alternativa” sono schegge uscite dalle
implosioni parziali e successive di Rifondazione Comunista: l’attuale Prc,
Vendola e (in parte) Sel, Diliberto e Pdci, Ferrando, Cannavò e giù, fino ai
più pulviscolari frammenti. Il compito dunque non è semplicemente quello di
assecondare una spinta oggettiva (che pure c’è, alimentata dalle contraddizioni
strutturali del campo sociale) sulla cui base unificare realtà sin qui
separate, che riconoscano la loro parzialità per ritrovarsi in una sintesi
superiore. C’è soprattutto da contrastare la ruggine del tempo e invertire
l’inerziale tendenza a regredire ad una condizione di separatezza, propria di
soggetti che sono stati parte di una totalità trascorsa e andata in pezzi.
Questa è la peculiarità del campo della sinistra di alternativa italiana; qui
sta la difficoltà (e, con essa, la necessità di porre mano ad una rigenerazione
dei gruppi dirigenti, senza sconti per questo o quel settore, per questa o
quell’area).
4-
Beninteso, nella determinazione dei percorsi interni a tali dinamiche, agiscono
questioni attinenti l’identità, i fondamentali della politica. Come si è detto,
Sel ha scelto il campo del centro-sinistra, avendo così dalla sua tutte le
opportunità che vengono dall’essere un’opposizione “riconosciuta” (la
rappresentanza parlamentare frutto di un’alleanza elettorale, la presenza nei
media ecc.): l’adesione al socialismo europeo è il naturale suggello strategico
di siffatta collocazione. Questo orientamento è il risultato di una lunga
marcia che, sulla spinta delle posizioni di Bertinotti e Vendola, ha trascinato
la contraddizione interna al Prc fino al congresso di Chianciano e all’ennesima
rottura: secondo tale orientamento, il comunismo in quanto movimento politico
organizzato ha fallito (così che l’ ’89 dello scorso secolo giunge a definitivo
compimento), la falce e il martello sono simboli scoloriti che hanno perso la
loro “forza propulsiva”. Di conseguenza si tratta di innovare (il comunismo
resta come una “corrente di pensiero”) e di costituire una “sinistra”. Ma
Bertinotti colloca tale innovazione fuori dal campo del socialismo europeo,
alla sinistra di questo; nella sua impostazione resta cioè un’opzione
anticapitalistica (l’idea che non si possa davvero rispondere alle domande e ai
bisogni sociali, pur espresse nei tempi della politica, senza un’ “alternativa
di società”). Vendola e Migliore collocano invece la suddetta innovazione
all’interno del campo della “sinistra moderata” europea: con loro, cade anche
l’opzione anticapitalistica (ciò fu detto esplicitamente sin dalla risposta di
Gennaro Migliore all’articolo di Grassi/Steri “Caro Nichi, è l’ora della
politica”, comparso su il manifesto del 6-10-2009).
5-Perché
dunque occorre tener nel giusto conto le questioni attinenti l’identità? Non
certo per un’ossessione ideologistica, ma perché chi ha fatto l’esperienza di
aggregazioni prive di anima dovrebbe sapere che senza un vero e vissuto
auto-riconoscimento viene meno la stessa possibilità che altri ti riconoscano:
viene a mancare cioè il propellente ideale senza il quale la macchina non
parte. Il senso della propria identità (l’ “orizzonte”) è ciò che consente al
conflitto di durare nel tempo, conferendo alle sparse emergenze di esso il
crisma di una stessa impresa politica. Ovviamente una tale esigenza, se non
vuole deperire nell’autismo politico, è chiamata pragmaticamente a fare i conti
con i rapporti di forza, con il particolare contesto in cui si opera. Non a
caso, ci sono eventi che si incaricano di esprimere emblematicamente la
direzione di una fase storica: la storia del Prc in ciò non fa eccezione. Al di
là del costante riferimento al mondo del lavoro e alle sue lotte,
caratteristica strutturale che ha accompagnato come un filo rosso l’esperienza
del partito, la prima Rifondazione trovò la sua forza propulsiva nella rottura
del Pci e nell’opposizione ai “liquidazionisti”; la seconda fase, quella
“bertinottiana”, visse sullo slancio del cosiddetto “movimento dei movimenti”,
in realtà un sommovimento planetario anti-globalizzazione che Bertinotti ebbe
l’intuizione di intercettare. Oggi, il dato epocale e saliente è la crisi
capitalistica: in un tale contesto, socialmente devastato, la sinistra di
alternativa è chiamata a stringere i cordoni organizzativi e a cercare di
parlare con una sola voce (rigenerando i suoi gruppi dirigenti, così da evitare
d’esser percepita come l’insieme dei resti di un terremoto, l’espressione di
un’ansia di sussistenza che guarda al passato invece che una progettualità
politica volta verso il futuro).
6-
Quanto detto consente di chiarire meglio alcune coordinate sul da farsi. Faccio
presente, intanto, una banalità: la costituzione di un partito è qualcosa di
diverso dalla costituzione di un “soggetto politico” o “polo” (nel senso che il
primo è più del secondo); ed entrambe le cose sono diverse da un’alleanza o da
un’unità d’azione (nel senso che quelle sono qualcosa più di questa). Ciò
significa che c’è un ragionamento che riguarda il dentro e il fuori da
Rifondazione. In primo luogo, il partito – oggi spossato dalla sconfitta e
imballato sul piano operativo – va tutelato, rianimato, riorganizzato: comunque
la si pensi sul prossimo futuro e dovunque si sia collocati (dentro o fuori il
Prc), nessuno può pensare di ripartire facendo a meno di Rifondazione
Comunista. In secondo luogo, quando si dice di considerare essenziale tentare
di tutto per allargare l’acqua in cui nuotiamo (dunque, anche oltre
Rifondazione) si può intendere tre cose diverse e non identificabili, anche se
– per quello che io riesco a vedere – tutte e tre importanti e da perseguire
con la massima urgenza (il tutto concerne infatti un ristretto arco temporale,
una congiuntura che chiede risposte già dalle prossime settimane e che potrebbe
risolversi nel giro di pochissimi mesi). Rifondazione si può e si deve
allargare in tre direzioni: a) UNITA’ D’AZIONE CONTRO IL GOVERNO DEL
PRESIDENTE, b) POLO DELLA SINISTRA DI ALTERNATIVA, c) RIFERIMENTO ORGANIZZATO
DEI COMUNISTI.
7-Il
punto a) concerne l’emergenza politica immediata e la necessità di costruire
con il massimo spirito unitario un’opposizione da sinistra al governo
Letta/Alfano la più larga possibile. In tale direzione il primo interlocutore è
Sel. Non chiedo ovviamente a questi compagni di essere d’accordo con me sull’Europa
e l’euro, piuttosto che su Cuba, Chavez o la questione siriana, nè evoco
discriminanti preclusive; approfittando della nuova collocazione di Sel e del
suo rifiuto delle larghe intese, chiedo di concretizzare un’unità di azione
contro il governo in carica, per contrastare una sempre più drammatica
emergenza sociale e democratica. Un’unità d’azione che è peraltro già nelle
cose, se è vero che essi si troveranno con tutta la sinistra di alternativa (e
non con il Pd) nella stessa piazza il prossimo 18 maggio assieme alla Fiom. Un’unità
di azione che, dovendo essere la più larga possibile, deve altresì rivolgersi
allo stesso M5S, così come (perché no?) a quella parte del Pd (ed elettori del
Pd) che non hanno digerito la svolta bipartisan.
Il punto b) allude al fatto che i simboli tradizionali, la falce e il martello, il nome “comunismo” ecc. non bastano; sono necessari ma non sufficienti, come prima erano, per avere consenso. Per ripartire occorre dell’altro: anche perché, al di là delle simbologie, il problema sta nell’autorevolezza di chi parla. E non c’è dubbio che vi sia oggi un problema di autorevolezza e di leadership complessiva. Di qui l’importanza di esser presenti in un’eventuale scomposizione/ricomposizione della sinistra, con relativa costituzione di un soggetto politico o “polo della sinistra di alternativa”, costruito dal basso (e non per incontro pattizio di ceti politici, come accaduto con la Federazione della Sinistra), aperto paritariamente (per davvero e non per finta) ai movimenti sociali, associativi, referendari e a tutti coloro che individualmente vi si vogliano riconoscere.
Infine il punto c), parallelo e interno al precedente (dunque non inteso come un prius discriminante), che mira a coordinare e mantenere organizzati i comunisti. Ancora una volta, in proposito va ribadito che non si tratta di perseguire una generica “unità dei comunisti”, raccattando cioè tutti coloro che per i più diversi motivi hanno deciso di auto-nominarsi tali (nel merito, non saprei neanche più dire quante decine di sigle e denominazioni del tutto ininfluenti si richiamino oggi al comunismo…). Intendo più specificamente riferirmi ai congressi del Prc e del Pdci (quest’ultimo saggiamente convocato per luglio, quello di Rifondazione si spera il più presto possibile). Lo dico un po’ schematicamente, ma senza giri di parole: se le due scadenze congressuali dovessero produrre le novità che auspichiamo – e cioè, per un verso, la sconfitta delle propensioni liquidazioniste e burocratiche e, per altro verso, la sconfitta delle tendenze massimaliste e settarie – tornerebbe all’ordine del giorno l’avvio di un percorso che conduca alla costituzione di un’unica organizzazione politica dei comunisti. Come è evidente, questo è tutt’altro che scontato. Ciò non toglie che, dal mio punto di vista, sia assolutamente auspicabile.
Il punto b) allude al fatto che i simboli tradizionali, la falce e il martello, il nome “comunismo” ecc. non bastano; sono necessari ma non sufficienti, come prima erano, per avere consenso. Per ripartire occorre dell’altro: anche perché, al di là delle simbologie, il problema sta nell’autorevolezza di chi parla. E non c’è dubbio che vi sia oggi un problema di autorevolezza e di leadership complessiva. Di qui l’importanza di esser presenti in un’eventuale scomposizione/ricomposizione della sinistra, con relativa costituzione di un soggetto politico o “polo della sinistra di alternativa”, costruito dal basso (e non per incontro pattizio di ceti politici, come accaduto con la Federazione della Sinistra), aperto paritariamente (per davvero e non per finta) ai movimenti sociali, associativi, referendari e a tutti coloro che individualmente vi si vogliano riconoscere.
Infine il punto c), parallelo e interno al precedente (dunque non inteso come un prius discriminante), che mira a coordinare e mantenere organizzati i comunisti. Ancora una volta, in proposito va ribadito che non si tratta di perseguire una generica “unità dei comunisti”, raccattando cioè tutti coloro che per i più diversi motivi hanno deciso di auto-nominarsi tali (nel merito, non saprei neanche più dire quante decine di sigle e denominazioni del tutto ininfluenti si richiamino oggi al comunismo…). Intendo più specificamente riferirmi ai congressi del Prc e del Pdci (quest’ultimo saggiamente convocato per luglio, quello di Rifondazione si spera il più presto possibile). Lo dico un po’ schematicamente, ma senza giri di parole: se le due scadenze congressuali dovessero produrre le novità che auspichiamo – e cioè, per un verso, la sconfitta delle propensioni liquidazioniste e burocratiche e, per altro verso, la sconfitta delle tendenze massimaliste e settarie – tornerebbe all’ordine del giorno l’avvio di un percorso che conduca alla costituzione di un’unica organizzazione politica dei comunisti. Come è evidente, questo è tutt’altro che scontato. Ciò non toglie che, dal mio punto di vista, sia assolutamente auspicabile.
L’insieme
di a), b) e c) dovrebbe costituire l’impegno urgente dei prossimi mesi.
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